Rappresentare la postmetropoli
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Rappresentare la postmetropoli

Percorsi visuali per gli studi urbani

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Percorsi visuali per gli studi urbani

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Con la teoria postmetropolitana si consolida una nuova consapevolezza dello spazio. La crescente complessità dei fenomeni urbani porta inevitabilmente a dover ripensare i linguaggi e i codici degli urbanisti. Nonostante la postmetropoli riconosca in Los Angeles la propria città di riferimento, il testo gioca con questa teoria e la spinge all'estremo, usando le concettualizzazioni del modello americano – in modo provocatorio e controfattuale – per meglio comprendere i fenomeni in atto in uno dei territori più marginali d'Italia. La Sicilia sud-orientale è un "territorio di eccezione", in bilico tra pressioni agricole e rappresentazioni massmediatiche che ritraggono un'affascinante località barocca e incontaminata, lontana dalla realtà. Qui gli strumenti dell'urbanistica classica non riescono a dialogare con queste immagini molto forti, egemoniche e "selettive", in grado d'indirizzare le azioni politiche e turistiche, a scapito delle vocazioni e delle necessità locali. Il testo condivide, quindi, la necessità di un visual turn anche per gli studi urbani e racconta come l'utilizzo degli strumenti visuali possa aiutare – come è già avvenuto per sociologi, antropologi e geografi – le discipline più tecniche a sviluppare una sensibilità particolare nel momento in cui ci si confronta con la vita urbana, in California come in Sicilia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857571249
1.
Una sfida
per la pianificazione
1.1 Leggere e rappresentare lo spazio
Il modo in cui possiamo immaginare e rappresentare lo spazio oggi è una questione cardine per molti studiosi, come è sempre stato per l’essere umano. Lo spazio visto come statico, immobile, contenitore di oggetti, appare un’idea sicuramente lontana nel tempo. Sembra strano oggigiorno, tra rivoluzione tecnologica e nuovi modelli di conoscenza spaziale, indagare lo spazio senza tenere in considerazione interconnessioni tra campi di studio, soggettività, immaginazione e dimensione virtuale.
Il lavoro di molti filosofi, sociologi, geografi, urbanisti, economisti, come approfondiremo nei capitoli successivi, ha contribuito, consapevolmente o meno, a liberare lo spazio da “alcune catene di significati” (Massey, 2005, p. 19) che rimandano a modelli di chiusura e stasi e che lo hanno portato a soffocare fin quasi alla morte. Ma non si può vivere senza avere consapevolezza di ciò che ci circonda e si è sentito presto il bisogno di fare resuscitare lo spazio: è così che nascono nuove concettualizzazioni, questa volta gravitanti attorno a idee di apertura, eterogeneità e flessibilità, nel tentativo di liberarlo da un apparato troppo rigido e inadeguato. Un apparato che non era solo costituito di teorie, ma di rappresentazioni scritte, insufficienti oramai a descrivere uno spazio divenuto plurale, aperto, vissuto e in costante cambiamento. Inoltre, attraverso questo tipo di visione si crea una sorta di contrapposizione dello spazio rispetto a un’altra sfera, quella del tempo. Questa relazione è vista in termini di dominazione, di potere del tempo sullo spazio, nel momento in cui l’ultimo assume una forma precisa attraverso una rappresentazione “chiusa”, in un certo momento storico e sociale.
Ma se molti studiosi si sono, nel corso del Novecento, sforzati di criticare o decostruire la dicotomia spazio-tempo (a partire da Henri Bergson, passando per i poststrutturalisti Michel Foucault e Henry Lefebvre fino a David Harvey e Edward Soja), la svolta del pensiero postmoderno nelle scienze sociali, e soprattutto in geografia, è stata quella della liberazione da questa retorica. Siamo ormai immersi nel nuovo millennio e da questi punti fermi, ora, difficilmente si tornerà indietro. Il problema non è più quale dimensione abbia la priorità. La questione è che lo spazio, legato a forme di rappresentazioni scritte e bidimensionali, e incatenato in argomentazioni statiche, è stato privato del suo dinamismo (Massey, 2005). E questo deve essere ritrovato, per ritrovare dei punti fermi e provare a comprendere veramente il ruolo che ha e avrà nella nostra vita: “For the future to be open, space must be open too1” (Massey, 2005, p. 9). Ma affinché lo spazio arrivi ad avere nuovi modelli concettuali, siamo noi a dovere ripartire innanzi tutto modificando il modo di leggerlo e di rappresentarlo.
1.2 Riflessioni sulla pianificazione oggi
Se da un lato l’idea di spazio è stata messa in crisi, dall’altro le discipline urbane non sono in grado ancora di affrontare questa sfida e restano troppo spesso chiuse nei vecchi schemi politici e nelle consuete confortevoli metodologie, trascurando la dimensione umana e le trasformazioni sociali in atto (Healey e Gilroy, 1990; Healey, 2006). Come ormai è diffusamente rilevato, il ruolo delle città si è modificato sostanzialmente, e con esso quello degli attori che vi operano; il processo è inarrestabile e se nel XXI secolo assistiamo a cambiamenti continui e sempre più rapidi, allora anche gli studi urbani dovrebbero essere fondati su procedimenti fluidi (Tewdwr-Jones, 2011).
Il primo requisito affinché si possa raggiungere questo scopo è l’interdisciplinarietà dei saperi, processo già avviato nei paesi anglosassoni con l’istituzione del blocco disciplinare degli Urban Studies2, più indietro invece nel nostro Paese. In Italia, infatti, sia in ambito accademico sia in quello professionale (lo testimonia l’importanza che hanno ancora gli Ordini Professionali) questo processo è più lento. Ci sono l’architettura, l’urbanistica, la geografia, la sociologia, l’antropologia e così via, e sono ancora rari i momenti di dialogo aperto tra tutte le discipline. La vulgata prevede ancora che l’architettura si occupi del progetto a piccola scala tra funzionalismo ed estetica; l’urbanistica ancora fatica ad accettare collaborazioni con le scienze sociali, perché considerate meno utili a risolvere i problemi urbani, in quanto meno scientifiche; la geografia si dibatte tra aspetti naturalistici e rapporti indissolubili con la storia, come vuole la tradizione crociana e gentiliana. Nonostante le convergenze di interessi tra discipline diverse si stiano rafforzando in tempi recenti, ancora il legame non è sufficiente. È vero che, per esempio, la geografia è sempre più coinvolta nel trovare nuovi indirizzi di rappresentazione della città, sensibili a mettere in luce le relazioni tra paesaggio, cultura, condizioni sociali ed esercizio del potere politico (Vallega, 2006) e che l’urbanistica, a sua volta, si interroga sempre più sugli obiettivi, sulle conseguenze sociali e sulla stessa ragione d’essere degli strumenti di pianificazione urbana. E si intravede, in questo mischiarsi di mondi, una via da seguire. L’interdisciplinarietà può essere la chiave per decifrare la molteplicità che contraddistingue lo spazio nel XXI secolo. Una disciplina non è più sufficiente a se stessa ed è allora importante imparare a far dialogare linguaggi diversi.
E forse proprio la pianificazione3, per sua natura, sulla scia degli esempi virtuosi di pianificazione Europea, soprattutto quella dei paesi anglosassoni (Briata, Bricocoli e Tedesco, 2009), può imporsi come il direttore d’orchestra mancante di tutte le discipline che ruotano attorno al fare città, da quelle umanistiche a quelle più tecniche. In questo quadro le recenti esperienze di pianificazione strategica sembrano spostare finalmente l’attenzione verso nuovi approcci, fondati su processi e coinvolgimento di più attori.
Ma il ruolo e lo scheletro della pianificazione italiana oggi presenta ancora non poche debolezze: dopo aver abbandonato, come nel resto d’Europa, l’approccio positivista e razionalista negli anni Settanta (Fainstein, 2000; Healey, 1997), in Italia la disciplina si lega a un approccio normativo-strumentale e a procedimenti top-down, tuttora largamente diffusi. Con il superamento di alcune barriere residue del secolo scorso si potrebbe dare vita a una “nuova urbanistica”:
In realtà, più che di un nuovo modello si tratta della permanenza del pensiero e delle prospettive alla base stessa dell’urbanistica che assegnano valenze sociali alla qualità della costruzione e dell’organizzazione dello spazio (Balbo, 2002, p. 6).
È evidente che il dibattito intorno alla ridefinizione del ruolo e della struttura dell’urbanistica è aperto. Anzi, si può dire che oggi viviamo nella dicotomia tra chi ancora guarda alla pianificazione come un insieme di strumenti tecnici il cui obiettivo primo è modificare le condizioni d’uso del suolo e chi invece considera la pianificazione come un processo il cui valore sta appunto nella sua dimensione processuale, sociale e multidisciplinare.
Il tema dell’interdisciplinarietà appare ricorsivamente nel mondo dell’urbanistica. Si tratta di un dibattito accademico che è sempre esistito ed è attuale più che mai, sebbene oggi, nel contesto italiano, risulti ancora notevolmente marginalizzato.
Appare come un dibattito esausto, che si è ripetuto periodicamente, ma che non si è affermato in maniera strutturata e riconoscibile e che non ha portato grandi cambiamenti all’interno della disciplina in termini soprattutto metodologici e di categorie interpretative. Di conseguenza, la disciplina urbanistica è spesso rifluita verso gli approcci consolidati e tradizionali, in alcuni casi bollando negativamente tentativi verso forme di interdisciplinarietà e contaminazione, spesso giudicati inutili nei confronti di un’operatività (Cellamare, 2019).
Questo non vuol dire che i pianificatori non provino a uscire da questa situazione di stallo. Ma la volontà di liberarsi da questa visione e di intrecciarsi ad altre discipline si nasconde un po’ dietro alla evidente necessità di restare legata a interventi place-based e a questioni politico-amministrative, per il timore di uscire dalla sfera tecnica e perdere solidità (Perrone, 2010). Sembra che la pianificazione sia stata troppe volte intesa come mero supporto delle amministrazioni statali e locali per ripartire sul territorio elementi geografici ed economie, attraverso la stesura dei piani, al fine di rendere più omogenea l’applicazione di politiche e azioni. Ma non è forse rischioso che oggi una disciplina debba ancora molte volte restare legata ai suoi parametri rigidi e alle questioni politiche? In realtà, oggi, la situazione si complica ancora di più, dal momento che spesso le pratiche urbane locali sono frutto di processi dal basso da cui le amministrazioni sono generalmente escluse. E questo è il risultato di una mancata fiducia reciproca tra la pianificazione, vista come ostacolo per la realizzazione dei progetti intrisi di interessi politici, e le amministrazioni, sempre più interessate al dialogo coi finanziatori privati e meno alla buona gestione del territorio (Lo Piccolo, Picone e Schilleci, 2015). E la pianificazione si modifica in quello che era il rapporto con gli enti locali. Per esempio ora si ricorre alla pianificazione spesso dopo le calamità o i disastri ambientali, come per attribuire delle responsabilità ai pianificatori di non aver gestito bene in precedenza l’uso di quel suolo, o per lasciare il problema nelle mani di altri. Ma la pianificazione non dovrebbe cercare le soluzioni ai disastri o ai conflitti urbani, anzi dovrebbe intervenire e agire per evitare possibili successivi problemi. Non si vuole con questo negare che esistano anche casi di pianificazione virtuosa o di momenti di partecipazione efficace tra gli attori urbani, ma è evidente come queste realtà siano ancora troppo poche di fronte ai casi meno positivi e trasparenti che caratterizzano sfortunatamente la gestione dei territori, specialmente appartenenti alla sfera pubblica, nel nostro paese. Vedremo nelle pagine successive come, del resto, la convinzione diffusa che in Italia le politiche e i patrimoni siano gestiti in maniera superficiale, o opportunista, non fa che alimentare questo fenomeno, portando le persone ad accettare compromessi e conflitti, legati nell’immaginario alla storia del nostro Paese, con un atteggiamento più fatalista che costruttivo.
Un’altra causa della crisi della pianificazione oggi è sicuramente la distanza crescente tra la teoria, la pianificazione insegnata nelle aule accademiche, e la pratica, con le debolezze appena accennate. Il risultato è ovviamente una pluralità di situazioni locali molto diverse tra loro e bisognose di una rivisitazione generale della pianificazione e del ruolo del pianificatore a livello nazionale. E forse anche lo spunto per questa svolta lo si dovrebbe trovare nelle politiche urbane europee, rispettando quindi delle linee guida universali, basate su approcci strategici e interdisciplinari, avendo poi la capacità di declinarle in azioni pratiche differenziate per ogni situazione locale (Lo Piccolo, Picone e Schilleci, 2015).
Forse, in prima istanza, la pianificazione urbanistica dovrebbe cambiare alla base le condizioni nelle quali nasce. Le questioni a cui si chiede di rispondere non possono più essere solamente sostenibilità ambientale o sviluppo economico. È essenziale ripartire dal domandarsi quali siano i significati reali dei luoghi, da chi gli siano attribuiti, secondo quale processo storico e culturale. Si tratta di riportare le discipline legate alla realtà urbana a una dimensione più umana, come se negli anni avessero perso della sensibilità (Healey e Gilroy, 1990; Sandercock, 2004). Forse, bisognerebbe smettere di vedere le città come luoghi di vita e di comunicazioni, luoghi da abitare o dove lavorare, poiché, erroneamente, “nel XXI la pianificazione ha voltato le spalle a valori, significati, e l’arte (non la scienza) del fare città” (Sandercock, 2004, p. 221). Un tema trascurato interamente o quasi dalla pianificazione è quello della percezione dei luoghi. Si considerano invece più spesso l’estetica, il vantaggio economico, l’innovazione tecnologica e il marketing. Si considerano fattori ambientali, sicurezza e trasporti ecologici e sono state trascurate le sfere della memoria, del desiderio, a scapito di una gestione uniforme tra confini amministrativi. Ma bisogna sviluppare una sensibilità diversa anche nella pianificazione come nelle altre discipline, anche attraverso nuovi linguaggi.
Siamo di fronte a un “paradosso della pianificazione e dello spazio” (Tewdwr-Jones, 2011, p. 29), dal momento che i pianificatori ormai riconoscono che si debba prestare attenzione alla città delle emozioni, alle interconnessioni e ai flussi, ma non credono di essere legittimati a farlo nella pratica. Questa contraddizione trova le sue radici nella distanza sopracitata tra la pianificazione del mondo accademico e la declinazione della stessa nel mondo reale. Siamo bloccati nella dicotomia tra la naturale necessità di ordine spaziale fatto di confini, aree e normative e il movimento veloce, la trasformazione costante e la pluralità economica, sociale e culturale (Perrone, 2010). La sfida è proprio far conciliare queste necessità: da un lato, la necessità storica di punti di riferimento e, dall’altro, il bisogno di interpretare, ma anche di raccontare, le continue trasformazioni in corso e la multiculturalità.
Inoltre, la percezione che si ha di un luogo è molto legata alla percezione della pianificazione in quella precisa realtà locale: sono immaginari che si intrecciano. La gestione politica di un luogo, il suo funzionamento e la fiducia nella stessa, sicuramente, ha riflessi positivi o negativi sui sentimenti collettivi attorno al luogo stesso (Rossi e Vanolo, 2010; Tewdwr-Jones, 2011). Pensiamo per esempio all’idea negativa oggi diffusa delle periferie italiane nate negli anni del boom dell’abuso edilizio, specchio di malaffare e interessi economici di pochi, e all’immagine più rassicurante degli eco-quartieri virtuosi dell’Europa del Nord, frutto di progetti partecipati e fondati su programmi di gestione. Viceversa, l’immagine pubblica e l’identità della pianificazione inevitabilmente agiscono sulla fiducia nella stessa. Solo intervenendo su questa relazione una disciplina può crescere e diventare una chiave interpretativa importante di questa nuova era in cui c’è bisogno di rivedere linguaggi e letteratura, prima di tutto.
Cambiare le condizioni della pianificazione è una questione non solo esterna, e cioè di dialogo tra attori urbani, ma prima di tutto interna, e cioè nelle forme e nelle strutture in cui si costruisce la conoscenza e si comunicano i progetti. Come vedremo nei capitoli successiv...

Indice dei contenuti

  1. 1.Una sfida per la pianificazione
  2. 2. La transizione postmetropolitana
  3. 3. La costruzione degli immaginari urbani
  4. 4. Percorsi metodologici
  5. 5. Rappresentazioni e strumenti visuali
  6. 6. La Sicilia sud-orientale oltre gli stereotipi massmediatici
  7. 7. Osservare il cambiamento attraverso lo schermo
  8. 7. Exopoli: dove finisce Montelusa
  9. Conclusioni
  10. Bibliografia