Oscar Meo
Gli equivoci di un’“arte media”,
ovvero le disavventure filosofiche della fotografia
There is one thing the photograph must contain, the humanity of the moment. This kind of photography is realism. But realism is not enough – there has to be vision, and the two together can make a good photograph.
Robert Frank
La medietà socio-culturale della fotografia
Da una ricerca sociologica sull’attività fotografica amatoriale condotta in Francia negli anni ’60 del secolo scorso sotto la guida di Pierre Bourdieu scaturì una raccolta di saggi dal titolo Un art moyen. Nell’introduzione, Bourdieu chiariva che per “arte media” si doveva intendere un insieme di pratiche, frutto di un approccio estetico ed etico alla fotografia, da cui emergevano le relazioni che le classi medie dell’epoca intrattenevano con la cultura, i valori simbolici che ne trasparivano e le funzioni socialmente regolate cui l’uso dello strumento era subordinato. Anche il rapporto degli operatori con la pratica fotografica era “mediato”, perché non poteva essere considerato se non in riferimento a quello che le altre classi intrattenevano con essa, e di conseguenza alla struttura complessiva delle interrelazioni sociali.
Come rileva Rosalind Krauss, da questa concezione discende che l’attributo “media” qualifica la pratica fotografica dilettantistica o amatoriale come uno «stadio intermedio» non solo fra cultura “alta” e bassa”, ma anche fra bello e brutto, e dunque come esteticamente adiaphoron o mediocre. Dal canto suo, Roland Barthes ritiene che imprese come quella di Bourdieu comportino una riduzione della fotografia a «traccia di un protocollo sociale di integrazione». L’indagine di Bourdieu confermerebbe in sostanza il giudizio negativo sul valore artistico della fotografia che consegue dalla collocazione assegnatale nella gerarchia delle attività socio-culturali fin dalle sue origini.
L’interesse sociologico e culturologico è dato dal fatto che si tratta di un’attività codificata sul piano sia dell’espressione sia della ricezione e alla portata di tutti, come mostra ancor oggi la sua amplissima diffusione. Sebbene – al di là di ogni riserva e cautela possibili e fatte salve le relazioni parziali con altri modi di espressione artistica e meta-artistica (primo fra tutti il ready-made) – abbia numerose caratteristiche in comune con la pittura (dalla scelta dei soggetti all’organizzazione strutturale dell’immagine, dall’equilibrio gestaltico a quello tonale), la fotografia rimane più “democratica”, non solo per motivi economici e per la semplicità di funzionamento del suo strumento operativo, ma soprattutto perché – come rileva Susan Sontag – le potenzialità del medium emergono tanto dalla foto d’autore quanto da un’istantanea.
L’ambiguo statuto semiotico e ontologico dell’immagine fotografica
Il “peccato originale” della fotografia, sul quale si sono variamente soffermati tutti coloro che se ne sono occupati dal punto di vista filosofico, è facilmente individuabile: avvalendosi di un medium meccanico (oggi: elettronico), essa mirerebbe all’oggettività. Ecco dunque un altro motivo per cui si può accusare la fotografia di essere un’“arte media”: è “arte”, se si prende il termine nell’antico significato neutro di pratica fondata su un know-how, ma usa uno strumento tecnologico “medio” sul piano del valore socio-culturale (nella maggior parte dei casi anche venale) e, grazie al suo potere mimetico, sembra mettere il soggetto in rapporto con la realtà meglio di quanto facciano altri media più raffinati, come le arti figurative tradizionali, fino a soppiantarli completamente, distruggendo la loro stessa ragion d’essere. Aggrava il quadro la tesi, sostenuta da una parte degli studiosi, secondo cui il medium tecnologico non si limita a fungere da supporto al soggetto autoriale, il cui intervento consiste nell’inquadrare l’oggetto e nel premere un tasto, ma lo sostituisce nelle sue funzioni più importanti: un agire per lo più inconscio e una disastrosa anautorialità trionfano sul «dolore del produrre» e la «fatica del lavoro» di cui parla Hegel a proposito dello scultore greco e che si riscattano nella sua coscienza soddisfatta di essere l’«artista-padrone» (Meister) dell’opera.
Le accuse di meccanicità, oggettività e anautorialità sono non soltanto strettamente intrecciate, tanto da non poter essere prese separatamente in considerazione, ma anche profondamente radicate nella storia della filosofia della fotografia, la quale – almeno come riflessione sistematica esplicita – è nata piuttosto tardi: se si eccettuano le pionieristiche osservazioni di Charles Sanders Peirce, Siegfried Kracauer e Walter Benjamin, le opere più significative si collocano nell’ultimo trentennio del secolo scorso, a partire dalla novità teoretica costituita dalla “svolta semiotica” di Krauss, la quale applicò alla fotografia la tripartizione peirceana del segno. Come già aveva fatto il filosofo americano, ma semplificando alquanto il suo ampolloso sistema tassonomico, ella considerò la foto come un segno indicale, che – come l’impronta – si trova con il referente in un rapporto di «connessione fisica», è a esso contiguo sia spazialmente sia temporalmente, dipende dalla realtà e obbedisce al nesso causa-effetto.
Indipendentemente dalle intenzioni di Krauss, questa definizione ha due conseguenze particolarmente indesiderabili. In primo luogo, riconducendo la foto alla sua origine fisico-chimica e meccanica, viene messo in secondo piano il suo carattere iconico, ossia il fatto che il risultato ultimo del processo fotografico è un’immagine, la quale – secondo l’etimologia e la definizione che lo stesso Peirce diede dell’icona – assomiglia (sia pure in misura molto var...