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Sud
Viaggio
L’Italia è stata per Warburg una patria d’elezione dove rifugiarsi per brevi o lunghi periodi della sua esistenza.
La prima volta arrivò a Firenze nell’ottobre 1888 al seguito del professor August Schmarsow, impegnato nel progetto di fondare un Istituto tedesco di Storia dell’arte nella città italiana. Il docente aveva affidato agli allievi il compito di esaminare gli affreschi della cappella Brancacci, all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine, al fine di rintracciarne le caratteristiche pittoriche innovative. Rispettando l’impegno assunto con il professore, il giovane Aby si era concentrato sulle novità con cui gli artisti rinascimentali raffiguravano il movimento nella pittura e nella scultura. Quasi immediatamente aveva rilevato l’infondatezza dell’interpretazione secondo cui i Maestri italiani riproducevano fedelmente la natura. I loro lavori sembravano esibire, al contrario, deviazioni arbitrarie da questa fedeltà, soprattutto nella rappresentazione degli elementi decorativi e ornamentali (abbigliamento e chiome delle figure umane o mitologiche), caratterizzati da un’eccessiva enfasi delle linee ondulate, simile a quella esibita dai sarcofagi dell’antichità classica (figura 1). In quel momento Warburg si chiese se e come l’arte pagana influenzasse le epoche successive, una questione che sarebbe diventata decisiva nella sua ricerca futura.
Durante il soggiorno fiorentino catalogò anche le collezioni dei musei cittadini su incarico della famosa guida turistica Baedeker. Per il lavoro svolto ricevette il suo primo compenso e lo spese per acquistare un costoso cappello inglese. Forse intendeva fare colpo su una giovane pittrice di Amburgo conosciuta a Firenze, Mary Hertz, che sarebbe diventata sua moglie nel 1897. Con lei, dopo il matrimonio celebrato nonostante le difficoltà sollevate dalle rispettive famiglie per questioni religiose, si stabilì nella città toscana, attratto dall’opportunità di poter frequentare studiosi provenienti da ogni parte del mondo, con i quali dialogare di arte. Proprio durante una durante una di queste conversazioni, il filosofo olandese André Jolles gli propose di fare della Ninfa, l’idealizzata figura in movimento spesso raffigurata nelle opere del Rinascimento, l’argomento di una corrispondenza fittizia, rimasta incompiuta.
Figura 1. Botticelli, Ritorno di Giuditta a Betulia, 1472, Galleria degli Uffizi, Firenze, Warburg Institute.
Nel 1904 la giovane famiglia Warburg lasciò Firenze per trasferirsi ad Amburgo; tuttavia Aby tornò spesso in Italia per proseguire le sue ricerche. Si recò più volte a Ferrara, dove riuscì a ottenere un’autorizzazione speciale per esaminare gli affreschi del Palazzo Schifanoia. I risultati delle sue indagini confluirono in un testo presentato nel 1912 a Roma in occasione del X Congresso degli storici dell’arte, che aveva contribuito a organizzare con Adolfo Venturi. La sua prolusione fu ricordata come il momento culminante del convegno e della sua carriera pubblica.
L’ultima permanenza italiana ebbe invece inizio nell’autunno del 1928 e si protrasse fino alla primavera del 1929, appena prima della morte, sopraggiunta nel mese di ottobre. In quell’occasione Warburg si spostò in diverse città, da Rimini a Bologna, da Orvieto a Napoli. A Roma affittò un appartamento all’hotel Eden, dedicandosi alla lettura quotidiana di Giordano Bruno, qualunque fosse il programma degli impegni, sempre intenso nonostante la salute malferma. In Italia lavorò contemporaneamente su vari filoni di ricerca; si impegnò nei confronti degli istituti culturali tedeschi; acquistò nuovi libri per la sua collezione; tenne conferenze; guidò amici e conoscenti a scoprire i capolavori della città eterna; visitò i centri artistici minori; si inoltrò nelle catacombe paleocristiane e fu testimone della firma dei Patti Lateranensi tra la Santa Sede e il Regno d’Italia.
Incontrò anche molte personalità italiane. Benedetto Croce aveva trovato una citazione del motto warburghiano Dio è nel dettaglio in margine a una comunicazione accademica. Senza chiedersi cosa significasse tale espressione, in una rassegna del 1929 sulla storiografia italiana, aveva adottato il dettaglio come «punto di vista limite e inaudito […] che opponeva a Gentile e alla politica da lui professata»1. Il 3 aprile 1929 Warburg scrisse al filosofo napoletano esprimendo il desiderio di conoscerlo. L’incontro ebbe luogo il 24 aprile a Roma e fu seguito da un altro a Napoli, in maggio. Croce apparve all’amburghese un «uomo ruvido», uno «gnomo che sale dalle profondità della terra con scintillio inquietante», «un uomo, per cui si deve lasciare alzato il ponte», il quale però «non sembra avere alcuna grande disponibilità»2.
Nelle stanze dell’appartamento romano Warburg fece anche montare alcuni pannelli con circa trecento immagini per una conferenza su Ghirlandaio. Presentò il lavoro il 19 gennaio 1929, in occasione dell’inaugurazione della grande sala della biblioteca Hertziana. La conferenza ebbe molto successo. Warburg fece riferimenti a Dürer, Rembrandt e Rubens per dimostrare come ogni personalità artistica europea aveva dovuto amministrare un’ambigua eredità spirituale durante il processo creativo. L’interesse per la polarità dell’antichità è lucidamente espressa in un suo appunto del 3 aprile 1929:
Talvolta ho l’impressione di cercare di dedurre come uno psicostorico la schizofrenia del mondo occidentale dal figurativo e con un riflesso autobiografico: da un lato la Ninfa estatica (maniacale), dall’altro il luttuoso dio fluviale (depressivo) come i poli tra i quali l’uomo sensibile alle impressioni cerca di trovare il suo stile attivo. L’antico gioco del contrasto tra vita attiva e vita contemplativa3.
Proprio il valore espressivo dell’antica divinità fluviale, personificazione della depressione e della passività, aveva innescato una nuova ricerca su Édouard Manet. Warburg dettò alla sua assistente, Gertrud Bing, alcune riflessioni su Le déjeuner sur l’herbe, in cui l’artista francese si era confrontato con i modelli antichi per rendere «scandalosamente» moderna la sua opera. L’impianto compositivo del quadro di Manet rivelava, infatti, che le figure in primo piano ricalcavano quelle degli arcaici dèi fluviali scolpiti sui sarcofagi romani (figura 2). Tuttavia, mentre gli dèi pagani erano adagiati al suolo con il busto sollevato a contemplare l’ascesa dell’anima, ne Le déjeuner sur l’herbe due delle tre figure assise volgevano il capo verso un immaginario spettatore.
Figura 2. Divinità fluviale Tigri o Arno, 117-138, Musei Vaticani, Roma, Warburg Institute.
Il tema dell’ascesa dell’anima lo aveva già colpito nel Tempio Malatestiano di Rimini. Warburg aveva chiesto allo storico Franz Cumont, incontrato a Roma in dicembre e poi in aprile, aggiornamenti sulla letteratura intorno a Mitra, il cui culto era articolato lungo passaggi ascensionali verso la vita eterna. Aveva quindi visitato i mitrei di Roma e Ostia. Dopo avere incontrato lo studioso Vittorio Macchioro, allora in servizio presso la Sovrintendenza archeologica di Napoli, aveva persino raggiunto il tempio ipogeo di Santa Maria Capua Vetere. Qui, sotto un temporale, attorniato da bambini e donne del popolo, si era calato, insieme a Gertrud Bing, attraverso due lastre di ferro poco più grandi di un tombino, nell’oscuro antro dove, in epoca romana, si celebravano i Misteri.
Aveva anche visitato la casa natale di Giordano Bruno a Nola e collegato i due episodi scrivendo: «Spaccio delle tenebre grazie alla luce esterna (Mitra) e a quella interna (G. Bruno)»4.
Identità
Dall’oscurità alla luce: in Germania questo tema era profondamente radicato nelle comunità ebraiche ed era legato alla ricerca di un’identità personale.
Essere tedeschi, nel XIX secolo, significava sviluppare il proprio potenziale intellettuale attraverso un processo educativo continuo di autoformazione, basato su un apprendimento di tipo classico e su un perfezionamento della sensibilità estetica, cui ogni individuo poteva aderire, indipendentemente dalla religione e dal retaggio culturale. Secondo Johann Gottfried Herder, l’uomo doveva crescere come una pianta fino a diventare un individuo armonioso, autonomo e impegnato in una continua ricerca di conoscenza. Il Bildungsbürger, quale era stato definito da Wilhelm von Humboldt, costituiva il modello ideale del cittadino e Bildung non denotava soltanto la differenza tra chi era colto e chi aveva invece un’insufficiente educazione formale: indicava lo sforzo individuale necessario al dispiegamento della propria personalità.
Il concetto di Bildung non è traducibile in italiano con «formazione» o «educazione», perché comprende entrambe le parole e le oltrepassa. Edith Stein, rifacendosi alla radice etimologica, ha spiegato che il termine designa, da un lato, l’azione del formare (Bilden), ossia del creare un’immagine (Bild) che è riproduzione di un modello (Urbild) o dell’essere formato (Gebildetwerden) e, dall’altro, l’esito di tale attività: nel processo formativo, la materia prende una forma (Gebilde) che la rende riproduzione di un modello (Urbild); tuttavia la materia (sia inanimata sia animata) non è mai totalmente priva di forma e neanche compiutamente plasmata; quindi è predisposta a ricevere nuove forme, a essere tra-sformata, ri-formata. Analogamente l’anima umana doveva prendere forma nel corso del suo processo evolutivo con l’assunzione di materiali spirituali, che la ragione avrebbe collocato in profondità o superficie.
Nella società tedesca dell’Ottocento era fondamentale anche la fede in un certo ordine morale, espresso dal concetto di rispettabilità (Sittlichkeit). Quest’ultima non era limitata al raffinamento dei modi, ma riguardava tutti gli aspetti della vita umana.
Bildung e Sittlichkeit ebbero una parte importante nell’emancipazione degli Ebrei tedeschi, che idealizzarono la cultura come forma di integrazione e terreno comune su cui tutti potevano incontrarsi, ignorando le diversità.
L’emancipazione ebraico-tedesca, il cui periodo cruciale comprende i primi decenni del XIX secolo, fu dunq...