Prima l'Europa.
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Prima l'Europa.

È l'Italia che lo chiede.

  1. 272 pagine
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Prima l'Europa.

È l'Italia che lo chiede.

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Sergio Fabbrini delinea, attraverso una selezione di editoriali comparsi sul Sole 24 Ore tra il marzo 2019 e l'agosto 2020, i nuovi assetti e la forma organizzata assunti dall'Europa integrata in un anno di importanti cambiamenti del contesto italiano ed europeo, a loro volta accelerati dalla pandemia.
Attraverso il racconto cronologico l'autore illustra così il funzionamento di un'organizzazione cruciale per lo sviluppo economico e la stabilità democratica del nostro continente, eppure poco conosciuta per la sua complessità istituzionale e funzionale.
Come è possibile che l'Unione europea sia così poco conosciuta? Come spiegare ciò che avviene in Europa in modo da aumentare la consapevolezza pubblica sulle scelte fatte o da fare? Fabbrini si sofferma, in particolare, sull'importanza delle interdipendenze tra i Paesi che costituiscono l'Ue, sul suo sistema decisionale, sulle implicazioni delle politiche pubbliche dell'Unione. Dopo tutto, ricordava Luigi Einaudi, occorre conoscere per decidere.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788863457476
Argomento
Economia

Parte prima

L’italia sovranista e l’interdipendenza europea

La Parte Prima raccoglie buona parte degli editoriali del periodo 3 marzo-25 agosto 2019. Le elezioni del 4 marzo 2018 avevano dato vita, sulla base di un programma (o contratto) sovranista, ad un governo di coalizione tra il Movimento Cinque Stelle (M5S) e la Lega, presieduto da Giuseppe Conte. Il governo Conte I si era auto-definito sovranista per sottolineare il suo approccio antieuropeo alle principali questioni di politica pubblica nazionale. I programmi elettorali dei due partiti di governo differivano su diversi aspetti, ma avevano in comune una critica radicale agli assetti istituzionali e di policy dell’Unione Economica e Monetaria (l’Eurozona) e allo stesso progetto di integrazione regionale rappresentato dall’Unione europea (Ue). Per la prima volta, in un grande Paese europeo, per di più tra i fondatori del progetto di integrazione continentale, si era affermata una maggioranza politica contraria a quest’ultimo. Tale maggioranza politica, a sua volta, era l’espressione di un sentimento diffuso di malessere popolare nei confronti delle politiche perseguite dall’Ue per fronteggiare la crisi finanziaria e quindi la crisi migratoria. La nuova maggioranza, tuttavia, mostrò ben presto la propria debolezza politica nel definire una strategia praticabile nei confronti dell’Ue. Nonostante al suo interno ci fossero forti spinte a portare l’Italia fuori dall’Eurozona, tali spinte apparivano poco o punto giustificate dalla comprensione della complessità di una simile scelta. Non solamente una maggioranza degli italiani, seppure critica nei confronti dell’Ue, confermava di non avere alcuna intenzione di lasciare l’Eurozona, ma la stessa esperienza di Brexit mostrava che l’uscita dall’Ue avrebbe comportato più costi che vantaggi. Il referendum britannico del giugno 2016 aveva attivato una dinamica di instabilità politica e divisioni sociali che aveva paralizzato il Regno Unito, minacciando di metterne addirittura in discussione la sua stessa esistenza come entità composta di più nazionalità. Privo di una strategia (oltre che di una cultura di governo), il governo Conte I si è trovato a misurarsi con i vincoli dell’interdipendenza europea, senza neppure capirne la natura. L’interdipendenza non è un’opinione, ma è un fatto. Nasce dalla necessità di affrontare sfide di policy la cui scala è superiore a quella degli stati nazionali. L’epoca in cui questi ultimi erano entità indipendenti si è conclusa definitivamente con la Seconda Guerra Mondiale (e probabilmente anche prima). Con la nascita della moneta comune, stabilita dal Trattato di Maastricht del 1992, l’interdipendenza europea si è ulteriormente approfondita, al punto tale che il destino di un Paese dell’Eurozona è venuto ad essere condizionato (strutturalmente) dalle scelte degli altri Paesi che ne condividono la moneta. Incapaci di comprendere tale compenetrazione, e quindi di proporre una riforma condivisa di quest’ultima, i partiti del governo Conte I hanno continuato invece a pensare che fosse possibile, per l’Italia, perseguire politiche unilaterali, non concordate con gli altri Paesi della moneta comune. Il risultato è stato l’isolamento europeo di quel governo, l’incapacità di trasformare le sue dichiarazioni in progetti praticabili, il degrado dell’Italia a Paese-paria dell’Ue. I provvedimenti introdotti da quel governo (come quota 100 e il reddito di cittadinanza) hanno contribuito a rendere ancora meno sostenibile l’enorme debito pubblico del Paese, anche perché essi sono risultati l’espressione di una visione esclusivamente redistributiva dei problemi del Paese. La crescita economica, la modernizzazione tecnologica, la riqualificazione professionale, la riforma amministrativa, tutto ciò è sparito dall’agenda nazionale. Lo stesso progetto di defiscalizzazione è stato presentato come un obiettivo per soddisfare precise constituencies elettorali, piuttosto che come una componente di una strategia per la razionalizzazione della fiscalità generale, rendendola più efficiente ma anche più equa. E’ difficile governare pensando di essere all’opposizione. Quando si governa occorre avere una visione più ampia, non solamente preoccuparsi di soddisfare interessi particolaristici. Né si può governare in una continua tensione competitiva tra i due partiti di governo. Tant’è che le elezioni del Parlamento europeo del maggio 2019 hanno portato quella tensione competitiva ai suoi estremi, con il partito minore del governo (la Lega) che ha superato elettoralmente il partito maggiore (il M5S). E’ stato sufficiente che il leader della Lega proponesse lo scioglimento della legislatura per “incassare il successo delle elezioni europee”, dopo appena un anno dal suo avvio, per fare crollare l’impianto sovranista del governo Conte I. A Bruxelles, il M5S è lentamente migrato verso posizioni non più antieuropee, mentre la Lega si è candidata ad essere il partito-guida delle forze antieuropee. Il risultato è stato la crisi del governo Conte I. E’ in Europa, dunque, che vanno cercate le ragioni del cambiamento del governo in Italia. L’interdipendenza europea, che è fonte di inedite opportunità, attivò in quell’occasione anche i suoi formidabili vincoli. Quell’esperienza mostra che chi va al governo di un Paese dell’Eurozona dovrà avere (naturalmente) il consenso della maggioranza degli elettori nazionali ma anche (necessariamente) il non-dissenso degli altri Paesi che ne condividono la moneta comune.

Tra promesse e realtà un anno dopo il cambiamento

Le elezioni del 4 marzo 2018 sono state l’equivalente di un sommovimento sociale. Esse hanno registrato il successo delle due forze politiche (Cinque Stelle e Lega) che avevano dato voce al malessere diffuso nel Paese. Un malessere cresciuto costantemente dal novembre 2011, quando il governo politico in carica (il governo Berlusconi) fu sostituito da un governo tecnico (il governo Monti). È in quel passaggio storico che vanno cercate le ragioni della convergenza tra le due forze politiche che sono oggi al governo. Esse furono le uniche ad opporsi al governo Monti (da dentro e da fuori il Parlamento) e all’idea che l’Italia doveva sottostare alle regole di bilancio che tengono insieme l’Eurozona. Dietro la rivoluzione del 4 marzo c’è una contrastata (e finora irrisolta) relazione tra l’Italia e l’Europa integrata. Se non si capisce questo problema strutturale, non si potrà venire a capo del malessere italiano. Vediamo meglio.
Il governo Monti fu necessario per salvare l’Italia da un possibile default finanziario. Non fu un colpo di stato, né un’operazione anti-parlamentare. Seppure costituito di personale non legato ai partiti politici, quel governo ricevette il voto largamente maggioritario delle due camere del Parlamento. Non solo, beneficiò anche di un robusto consenso sociale, tanta era la paura che lo stato non potesse più pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici o che i risparmi degli italiani, conservati nelle banche, potessero deprezzarsi. Quel governo si impose perché la discrasia tra la struttura del bilancio pubblico italiano e la struttura della regolamentazione dell’Eurozona non era più gestibile. Occorreva introdurre (in gran fretta) riforme strutturali (a cominciare da quella del sistema pensionistico) che riportassero l’andamento della spesa pubblica entro un orizzonte di compatibilità con le regole dell’Eurozona.
E così è avvenuto (evitando, peraltro, all’Italia un destino greco). Se una larga maggioranza del Parlamento (oltre che della classe dirigente del Paese) ritenne che occorresse ritornare dentro i parametri del Patto di stabilità e crescita, una parte consistente della società italiana finì però per sostenere i costi di quel rientro. Da lì nascono i problemi emersi successivamente. La visione del governo Monti non era diversa da quella dei governi precedenti, sia di centro-destra che di centro-sinistra. Dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel 1992, nessun governo aveva mai messo in discussione la decisione dell’Italia di far parte dell’Eurozona. Il governo Monti riaffermò quella decisione e i successivi governi (Letta, Renzi e Gentiloni) la confermarono.
La crisi finanziaria esplosa nel 2009, però, ha reso quella decisione molto più controversa. I governi post-Monti hanno dovuto operare dentro un sentiero stretto (per usare l’espressione di Pier Carlo Padoan, da ultimo nel libro-intervista curato da Dino Pesole), in quanto delimitato dal nostro debito pubblico a rischio di sostenibilità (da un lato) e dalle regole macro-economiche dell’Eurozona (dall’altro lato). Un sentiero stretto che si è cercato di allargare attraverso riforme strutturali da cui derivare le risorse per politiche inclusive. Tuttavia, le riforme strutturali producono benefici nel medio periodo, mentre i costi sociali da esse generati sono immediatamente percepiti. Di qui l’ascesa elettorale dei Cinque Stelle e della Lega. Nel marzo scorso, esse hanno dato rappresentanza proprio a coloro che avevano sostenuto quei costi (o che temevano che li avrebbero sostenuti). Una rappresentanza legittimata dal fatto che esse avevano di già contrastato il ritorno, con il governo Monti, alla politica del sentiero stretto. Tant’è che nella precedente legislatura (2013-2018), quelle forze politiche si erano trovate frequentemente in accordo nel mettere in discussione il paradigma dominante (che assume come inevitabile la partecipazione dell’Italia all’Eurozona). L’opposizione alle riforme strutturali portate avanti dai governi di centro-sinistra, così come alla proposta di riforma costituzionale del governo Renzi, finì per accelerare la convergenza tra i due partiti verso un comune esito sovranista. La denuncia dei vincoli europei (e dei governi precedenti che li avevano accettati) ha quindi consentito ai due partiti di diventare maggioranza elettorale nel Paese. Tuttavia, una volta andati al governo, le promesse e la realtà hanno parlato lingue diverse. Dall’ottobre scorso è stato un sistematico rinculare, da parte del governo, rispetto ai suoi proclami elettorali. Il governo ha dovuto rivedere più volte la sua proposta di bilancio, prendendo atto dei vincoli del nostro debito pubblico, oltre che delle richieste dei suoi elettori. L’ esito (per ora) è una politica che non aiuta il Paese a crescere. Con la conseguenza che sono emerse divisioni all’interno del governo e si sono manifestati i primi smottamenti elettorali della coalizione.
Se le cose stanno così, allora c’è da preoccuparsi per il futuro dell’Italia. Infatti, non c’è un futuro per quest’ultima se deve scegliere tra una politica determinata da vincoli ed una politica che rifiuta ogni vincolo. La seconda è economicamente irrealistica, la prima è socialmente impraticabile. Pur non mettendo in discussione la nostra partecipazione all’Eurozona, occorre quindi riformarne la governance. Ci sono riforme che dobbiamo introdurre in Italia (e che spetta a noi introdurre), come quelle per alzare il rendimento del nostro sistema amministrativo, giudiziario, istituzionale. Ma vi sono riforme che occorre introdurre a livello dell’Eurozona (e che richiedono il sostegno degli stati principali che ne fanno parte). L’Eurozona deve avere una capacità fiscale autonoma con cui aiutare gli stati che, introducendo riforme strutturali, debbono sostenere nell’immediato i costi sociali di queste ultime. I Paesi del Nord debbono riconoscere la diversa struttura di political economy dei Paesi del Sud. La convergenza non consiste nel trasformare le economie dei secondi in repliche di quelle dei primi, ma nell’individuare un punto di compatibilità tra le loro divergenze. Insomma, la rivoluzione del 4 marzo scorso ha scoperchiato un vaso di Pandora. Anche se il mito lo escluderebbe, una nuova politica potrebbe in realtà rinchiuderlo.
Domenica 03 Marzo 2019

Senza risorse proprie l’Europa non si fa

Le elezioni per il Parlamento europeo del prossimo maggio stanno dando vita una nuova frattura politica, quella tra sovranisti ed europeisti. Finora, il Parlamento europeo si era strutturato intorno alla frattura (tipica dei parlamenti nazionali) che oppone i partiti del centro-destra ai partiti del centro-sinistra. Tra il Partito del popolo europeo (centro-destra) e i Socialisti e Democratici (centro-sinistra) c’erano differenze relativamente alle politiche economiche e sociali, ma entrambi condividevano una visione favorevole all’integrazione continentale. Ciò ha reso possibile, peraltro, la formazione di periodiche alleanze tra di loro. Tra il 1979 (prima elezione diretta del Parlamento europeo) e il 2014 non sono mancati parlamentari anti-integrazionisti, ma si è trattato di gruppi sparuti con un ruolo marginale (se non nullo) nei lavori parlamentari. Già nelle elezioni del 2014 sono cresciuti i partiti euro-scettici, ma sarà soprattutto nelle elezioni del prossimo maggio 2019 che la sida sovranista si farà sentire. Ciò non significa che la sinistra e la destra sono sparite ma, piuttosto, che tale divisione è divenuta meno rilevante della frattura tra europeisti e sovranisti. Tant’è che i principali partiti europeisti sono sempre meno accomodanti verso le componenti sovraniste al loro interno (di qui la spinta all’espulsione del partito ungherese sovranista Fedesz dal Partito del popolo europeo o del partito socialdemocratico rumeno dai Socialisti e Democratici).
E i partiti sovranisti, a loro volta, sono divenuti sempre più antagonistici. La nuova frattura sta politicizzando le elezioni parlamentari come mai era avvenuto nel passato. Quali saranno le implicazioni di un Parlamento organizzato su tale frattura? Risponderò con riferimento alla questione delle risorse finanziarie.
Cominciamo dalla posizione sovranista. I sovranisti hanno trasformato il consenso passivo del passato in un dissenso attivo (nei confronti dell’Unione europea e di ciò che fa). Certamente, la loro politica non è riducibile al nazionalismo indipendentista, così come quest’ultimo è emerso con il voto britannico del giugno 2016. Visto il fallimento di Brexit, la secessione dall’Ue non è una strada praticabile. Piuttosto, il sovranismo rivendica una maggiore autonomia decisionale degli stati, in particolare su politiche (come l’immigrazione) considerate di cruciale rilevanza politica interna. Nello stesso tempo, però, i sovranisti non vogliono rinunciare alle risorse del bilancio europeo. Infatti, difendono accanitamente le politiche (come quella dei fondi strutturali e dell’agricoltura) che redistribuiscono risorse ai Paesi (dell’Europa dell’est) da loro governati. Vogliono un bilancio al servizio di specifici interessi nazionali. Tale sovranismo ha singolari analogie con la dottrina degli states’ rights (i diritti degli stati) che ha accompagnato il processo di federalizzazione degli Stati Uniti, diritti rivendicati (in quel caso) per proteggere l’istituzione della schiavitù negli stati del sud (senza rinunciare, anche in quel caso, alle risorse del nord). Tuttavia, come l’esperienza americana mostra, la corda del sovranismo non può essere tirata troppo. Di qui l’ambiguità dei sovranisti.
Vediamo ora la posizione europeista. Chi sostiene quest’ultima ha faticato a prendere atto che il dissenso attivo nei confronti dell’Ue è il risultato della sua incompiuta integrazione (e non già del contrario). Se l’Ue avesse avuto le risorse e gli strumenti per gestire la crisi finanziaria e migratoria, quel dissenso non si sarebbe espresso in termini favorevoli ai sovranisti. Una cruciale debolezza dell’Ue è il suo bilancio. Non solo perché è di poco superiore all’1 per cento del Pil dell’intero continente. Non solo perché è definito da un Quadro finanziario pluriennale che è negoziato dai governi nazionali e che dura sette anni (il prossimo sarà dal 2021 al 2027), mentre il mandato del Parlamento europeo è di cinque anni. Ma soprattutto perché il Parlamento europeo non ha alcun potere fiscale, dipendendo (il bilancio) dalle risorse che gli stati membri decidono di trasferire a Bruxelles.
Se nel 1776 gli americani si liberarono del colonialismo britannico in nome di “no taxation without representation”, nell’Ue abbiamo esattamente l’opposto (“representation without taxation”). Pur avendo fatto non poco con un budget ridotto e controllato, il Parlamento europeo assomiglia ad un Prometeo legato alla rupe. Eppure, la questione di dotare l’Ue di risorse proprie è stata ripetutamente sollevata dal Parlamento europeo, dalla Commissione europea, oltre che da commissioni di esperti e politici (da ultimo, quella presieduta da Mario Monti tra il 2014 e il 2016), ma è stata regolarmente opposta dai governi nazionalisti (come quello britannico) ed oggi dai governi sovranisti. Poiché le decisioni in materia fiscale richiedono il voto all’unanimità dei governi nazionali, è impensabile costruire una capacità fiscale con il consenso di tutti i 27 stati membri. Ecco perché bisognerebbe basarsi sull’Eurozona, dotandola di un budget ad hoc (come proposto da Francia e Germania nella Dichiarazione di Mesenberg del giugno scorso) da utilizzare per rafforzare l’unione monetaria nel suo complesso. Qui le idee ci sono, ma finora è mancato il coraggio politico.
Insomma, se la critica sovranista è ambigua, la posizione europeista è timida. Senza risorse proprie, il Parlamento europeo non potrà contribuire alla gestione delle crisi oppure alla promozione della crescita economica e dell’inclusione sociale. Eppure, come lo stesso Parlamento europeo ha ricordato, non vi sono ostacoli legali per costruire tale capacità fiscale (a Trattati invariati). Alcuni giuristi hanno anche proposto di utilizzare Brexit per rivedere la politica finanziaria dell’Ue.
La mancanza delle risorse trasferite finora dal Regno Unito potrebbe essere compensata con risorse proprie dell’Ue, acquisite e gestite sotto il controllo del Parlamento europeo. Se la politicizzazione è giunta a Bruxelles, allora gli europeisti dovrebbero utilizzarla per far andare avanti l’integrazione, non solo per difendere l’esistente. Occorre fornire l’Eurozona di risorse con cui rispondere alle sfide economiche e sociali che continuano a minacciarne lo sviluppo.
Domenica 10 Marzo 2019

Per salvare l’Europa serve la via federale

L’Europa è scossa da un terremoto politico. Brexit sta consumando le capacità di un Paese che appena un secolo fa (1913) dominava sopra ¼ della superficie terrestre e governava poco meno di ¼ della popolazione mondiale. Le crisi multiple dell’ultimo decennio hanno disarticolato l’Europa, creando blocchi di Paesi diffidenti gli uni degli altri. Il blocco di Visegrad si è allargato ad est e ovest, la coalizione anseatica si sta consolidando tra i Paesi piccoli-medi del nord, l’area mediterranea è unita dalle sue debolezze. In mezzo ci sono la Francia e la Germania. Entrambe sono consapevoli che l’Unione europea (Ue) dovrà decidere, dopo le prossime elezioni del Parlamento europeo, come affrontare la propria disaggregazione. Se i sovranisti vogliono accentuarla, come vogliono ricomporla gli europeisti? Il dibattito tra il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente del maggiore partito tedesco (CDU) Annegret Kramp-Karrenbauer risponde alla domanda, ma in modo insoddisfacente. Vediamo perché.
Ha cominciato Emmanuel Macron con una lettera ai cittadini d’Europa pubblicata (il 5 marzo) in tutti i 28 Paesi dell’Ue. Per Macron, l’Ue deve costruire delle istituzioni centralizzate che siano in grado di difendere i cittadini e fissare standard comuni di organizzazione. L’Ue non è solo un mercato, dice Macron, anche se non esisterebbe senza un mercato. L’Ue è un’entità politica costituita di persone e valori che vanno protetti. Sul piano economico, la lettera non tocca la questione della governance dell’Eurozona.
Propone, però, di rivedere alcune regolazioni del mercato unico. Per Macron, occorre riformare la politica della concorrenza interna (per consentire la forma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Giuliano Amato
  6. Introduzione: Perché capire l’interdipendenza europea?
  7. Parte Prima: L’Italia sovranista e l’interdipendenza europea
  8. Parte Seconda: Il rientro dell’Italia nell’Europa interdipendente
  9. Parte Terza: L’Europa interdipendente nella crisi pandemica
  10. Conclusione: Quale futuro per l’Europa post-pandemica?