Anatol Lieven*
L’ambiente come politica di sicurezza
La presenza di Stati forti e legittimi è ancora fondamentale per qualsiasi sforzo di contenimento del cambiamento climatico e di salvaguardia della democrazia occidentale.
“Il giorno in cui il numero dei morti raggiunse di nuovo la trentina, Bernard Rieux guardava il dispaccio ufficiale che il prefetto gli aveva teso dicendogli: ‘Hanno avuto paura’. Sul dispaccio era scritto: ‘Dichiarate lo stato di peste. Chiudete la città’”1.
In questi ultimi anni le sfide interne alla liberaldemocrazia occidentale e i primi effetti del cambiamento climatico hanno conosciuto una drastica escalation. E all’inizio del 2020 l’impatto dell’epidemia di coronavirus ha fornito un severo promemoria di come le malattie virali possano non solo uccidere gli esseri umani, ma anche provocare enormi stravolgimenti economici, sociali e politici.
Per definire un’adeguata risposta intellettuale a tali sfide, gli establishment della sicurezza devono concentrarsi prioritariamente sulle minacce più gravi che incombono sugli Stati. Inoltre, tutti coloro che hanno a cuore la sicurezza umana (gli ambientalisti in primis) devono comprendere l’importanza centrale degli Stati, e della loro forza e legittimità, rispetto a qualsiasi sforzo di contenimento del cambiamento climatico, di tutela della democrazia occidentale e di difesa della vita e del benessere dei cittadini dell’Occidente2.
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO COME MINACCIA ALLA SICUREZZA. Tutto ciò che può mettere fine alla vita umana si configura come una potenziale minaccia alla sicurezza: il primo aspetto da considerare riguardo al cambiamento climatico e ai suoi effetti, dunque, è il numero di vittime che rischiano di provocare. Le minacce poste dal cambiamento climatico dovrebbero essere suddivise in due tipologie, quelle a lungo termine (dopo il 2100) e quelle a breve-medio termine, onde evitare una grande confusione sul piano politico-intellettuale. Nel lungo periodo, se le temperature globali continueranno ad aumentare a ritmo incontrollato determinando un precipitoso cambiamento climatico, la stessa civiltà umana andrà incontro alla distruzione, salvo forse una fortunatissima, ricchissima e piccolissima minoranza di individui, o magari di esseri post-umani geneticamente modificati. La minaccia di lungo termine è dunque esistenziale nel senso più vero del termine.
Nel breve-medio termine, gli effetti diretti del cambiamento climatico nelle democrazie occidentali saranno più limitati, ma pur sempre assai gravi, come già dimostrato dalle ondate di caldo e dai devastanti incendi in Europa meridionale, California e Australia. I soli effetti diretti del caldo faranno quasi sicuramente molte più vittime di una guerra. Nel 2003, quando il cambiamento climatico non era ancora una vera emergenza, un’ondata di caldo ha ucciso circa 35.000 persone in Europa, un numero superiore alle vittime francesi negli otto anni della guerra d’Algeria. Nel 2010 l’ondata di caldo che si è abbattuta sulla Russia, sommata agli effetti dell’inalazione dei fumi degli incendi boschivi, ha provocato almeno 41.000 morti – il doppio dei russi caduti nei dieci anni di intervento sovietico in Afghanistan. Il continuo aumento delle temperature globali da 20 anni a questa parte indica che in molti paesi le ondate di caldo diventeranno ben più gravi e frequenti – non in un futuro lontano, ma nei prossimi due decenni.
Gli effetti indiretti del cambiamento climatico possono essere altrettanto letali. Gli incendi che hanno devastato la Grecia nel luglio 2018 sono costati la vita a 102 persone, e i roghi divampati in Australia nel 2019 hanno fatto – stando al bilancio aggiornato a febbraio 2020 – oltre trenta vittime. Ma le conseguenze dell’inalazione dei fumi ne provocheranno molte di più (a inizio gennaio Canberra ha registrato per una settimana la peggiore qualità dell’aria del mondo). La diffusione di malattie tropicali, inoltre, potrà raggiungere dimensioni epidemiche. Il coronavirus partito da Wuhan, pur non essendo direttamente legato al cambiamento climatico, è un’avvisaglia della portata dei danni che patologie del genere possono provocare anche in società altamente sviluppate.
L’IMPATTO ECONOMICO E SOCIALE. Gli effetti economici, sociali e politici del coronavirus sulla governance e sull’economia cinese dimostrano che una minaccia alla sicurezza non si misura semplicemente con il numero dei morti. Così ha scritto Richard Ullman: “Una minaccia alla sicurezza nazionale è un’azione o una sequenza di eventi che 1) drasticamente e in un arco di tempo relativamente breve minaccia di degradare la qualità della vita dei cittadini di uno Stato, o 2) di restringere in misura significativa lo spettro delle scelte politiche a disposizione di uno Stato o di entità private non governative (persone, gruppi, società) all’interno dello Stato”3.
In Europa, gli effetti diretti più drammatici di un pur relativamente modesto riscaldamento globale si vedranno nel Mediterraneo, dove secondo le previsioni l’estate durerà un mese in più, le ondate di caldo (con temperature sopra i 35°C) si protrarranno di oltre quattro settimane e le precipitazioni diminuiranno anche del 20%. Tra le conseguenze vi saranno gravi danni all’agricoltura e al turismo, una radicale trasformazione degli ecosistemi verso condizioni di semiaridità e un notevole incremento degli incendi. Un cambiamento climatico fuori controllo porterebbe alla completa desertificazione della regione.
Inoltre, il cambiamento climatico è destinato ad accentuare il fenomeno delle migrazioni, soprattutto dalle aree più povere e svantaggiate dell’Africa e dell’Asia verso l’Europa meridionale, anche se non sappiamo ancora in che misura. Certo è che tale fenomeno sta contribuendo a minacciare l’unità politica degli Stati occidentali proprio ora che è indispensabile per l’adozione di iniziative per il clima che richiederanno sacrifici da parte delle popolazioni nazionali. Tutti i sondaggi d’opinione sulle motivazioni dei sostenitori della Brexit, di Donald Trump o dei partiti nazionalisti in Europa occidentale indicano come fattore principale la preoccupazione per l’immigrazione. Ora che il backlash contro l’immigrazione è sotto gli occhi di tutti, resta solo da chiedersi fino a che punto la situazione si aggraverà. Oltretutto, l’esodo di massa verso Occidente coinciderà probabilmente con una massiccia automazione dell’economia e lo sviluppo di varie tipologie di intelligenza artificiale. Se i trend attuali persisteranno, molte forme di lavoro (comprese le più innovative) vedranno senz’altro un peggioramento a livello di salari, sicurezza e status rispetto a quelle distrutte dall’automazione. Non solo le classi più umili, ma interi settori del ceto medio subirebbero pesanti ripercussioni.
Per tanti, troppi migranti non qualificati o con bassa qualifica, i lavori malpagati e insicuri sono l’unica opzione disponibile. Questi lavori tendono a intrappolarli – assieme ai loro figli – in ghetti di miseria caratterizzati da scuole scadenti, criminalità, deprezzamento immobiliare e isolamento sociale: tutti fattori che rendono molto difficile un percorso di emancipazione. Al contempo, i membri autoctoni del nuovo proletariato competono con i migranti per gli stessi lavori di scarsa qualità.
Così, il cambiamento climatico aggraverà le minacce alla legittimità liberaldemocratica in Occidente amplificando i problemi creati dalla stagnazione economica, dalla disuguaglianza sociale e soprattutto dall’immigrazione (forse sarebbe meglio dire: dalla reazione negativa all’immigrazione da parte di alcuni cittadini). Tali problemi non pongono una minaccia esistenziale agli Stati occidentali in quanto tali, ma certamente mettono a repentaglio i loro ordinamenti politici.
“SECURIZZARE” IL CAMBIAMENTO CLIMATICO. La natura esistenziale del rischio per i regimi democratici nel medio termine, e per tutti gli Stati nel lungo termine, fa sì che il cambiamento climatico, a differenza di altri fenomeni ai quali è stata dichiarata “guerra”, possa legittimamente essere considerato una questione vitale di sicurezza nazionale. Barry Buzan e i suoi colleghi scrivevano nel lontano 1998: “L’esigenza è quella di elaborare una concettualizzazione della sicurezza che indichi qualcosa di più specifico di una minaccia o un problema qualsiasi. Minacce e vulnerabilità possono insorgere in molti ambiti diversi, militari e non militari, ma per configurarsi come questioni di sicurezza devono rispondere a rigorosi criteri che le distinguano dalla semplice e ordinaria amministrazione politica. Devono essere presentate come minacce esistenziali nei confronti di un oggetto referente da un ‘attore securizzante’ (securitizing actor) che giustifichi in tal modo l’adozione di misure di emergenza in deroga alle norme altrimenti vincolanti”4.
Non è una novità che gli Stati possano “securizzare” la loro risposta ai disastri naturali, in termini sia di organizzazione delle operazioni di soccorso, sia di adozione di misure per la prevenzione di attività criminali, come lo sciacallaggio. Il ruolo dello US Army Corps of Engineers nelle attività di prevenzione e gestione dei disastri è un caso emblematico.
Come suggerisce la citazione da Camus in apertura, anche le malattie epidemiche sono state trattate come una questione di sicurezza con la proclamazione di uno “stato di epidemia” (di fatto, una forma di legge marziale) per consentire all’esercito e alla polizia di mettere in quarantena intere città e isolare (e presumibilmente curare) i malati. La peste descritta da Camus sarà anche romanzata, ma l’epidemia di coronavirus è fin troppo reale, e lo Stato cinese ha effettivamente imposto la legge marziale nella città epicentro di Wuhan per limitare i movimenti della popolazione e costruire ospedali d’emergenza. Finora, le punizioni per chi ha tentato di aggirare tali misure non sono andate oltre l’arresto. Ma nella Repubblica di Venezia e in altre realtà del passato, i governanti ordinavano alle guardie di uccidere chiunque cercasse di evadere dalla quarantena.
Poiché la diffusione di malattie è molto probabilmente una conseguenza del cambiamento climatico, le liberaldemocrazie occidentali – se vogliono rimanere tali – non possono permettersi di ignorare il rischio che si manifestino tentazioni del genere. L’establishment della sicurezza e i vertici militari occidentali devono dichiarare con molta più forza e coerenza che il cambiamento climatico pone una minaccia potenzialmente esistenziale alle nazioni che hanno giurato di difendere5. Diverse ragioni lo rendono necessario. Primo, le risorse destinate al contenimento del cambiamento climatico sono state finora clamorosamente inadeguate, specie in confronto a quelle per la sicurezza militare. Secondo, i sacrifici richiesti alla popolazione saranno simili a quelli imposti in tempo di guerra. Terzo, non c’è alcuna possibilità di convincere gli elettori conservatori ad accettare sacrifici e cambiamenti economici cruciali, se i vertici militari non sapranno parlare con autorevolezza della minaccia esistenziale. È dimostrato che una comunicazione volta a rafforzare il senso di sé e la fondamentale visione del mondo del pubblico di riferimento favorisce una maggiore apertura all’informazione sul rischio.
UN MESSAGGIO ANCORA TROPPO DEBOLE. Tutto ciò vale più che mai per gli Stati Uniti, dove moltissimi repubblicani hanno ormai fatto della negazione del cambiamento climatico un caposaldo della loro cultura politica, sviluppando anche una profonda sfiducia nei confronti degli esperti scientifici. Solo l’esercito conserva, agli occhi dei cittadini di fede repubblicana, un prestigio tale da poterli convincere che il cambiamento climatico è una minaccia reale per gli Stati Uniti.
Stando alle apparenze, gli “attori securizzanti” dell’Occidente si sono già pronunciati. Tutti i principali eserciti occidentali – persino quello statunitense – hanno identificato nel cambiamento climatico una minaccia alla sicurezza. Perché un’affermazione sia efficace, tuttavia, non basta enunciarla. Occorre parlare in modo abbastanza forte e chiaro da sovrastare il clamore di altre questioni. Gli establishment della sicurezza occidentali hanno lasciato che le loro intermittenti dichiarazioni sul cambiamento climatico venissero sommerse dal dibattito sulle tradizionali minacce poste da Cina e Russia. Non stupisce che i media occidentali ne abbiano seguito la scia.
Quanto all’approccio della NATO al cambiamento climatico, un rapporto della RAND Corporation, redatto da Tyler Lippert nel 2016, ha fatto notare che “gli scenari legati alle armi nucleari, al terrorismo e alle attività cyber presentano maggiori incognite rispetto al cambiamento climatico. Tuttavia, un’enorme quantità di risorse viene stanziata a favore della ricerca, dell’analisi della minaccia e della preparazione alle potenziali conseguenze. È vero il contrario per il potenziale impatto del cambiamento climatico sulla sicurezza [...]. Il deficit di impegno nel quartier generale NATO su questo fronte sarebbe più giustificato se si trattasse di gestire un rischio tollerabile o accettabile, mentre la letteratura suggerisce che il cambiamento climatico presenta rischi probabilmente non tollerabili né accettabili”.
Gli attivisti contro il cambiamento climatico, da parte loro, hanno nella maggior parte dei casi un retroterra culturale di matrice liberal-internazionalista o marxiana, da cui discende una viscerale ostilità non solo verso la “securizzazione” dei problemi, ma anche nei confronti degli Stati-nazione in quanto tali. I loro proclami sono rivolti a comunità transnazionali di simpatizzanti, ma se in quelle cerchie il messaggio viene ampiamente recepito, è ormai tristemente evidente che i destinatari mancano degli strumenti per adottare misure concrete e della capacità di convincere il resto della popolazione ad accettare sacrifici.
SICUREZZA E LEGITTIMITÀ: LA LEZIONE DELLA GUERRA FREDDA. La teoria della “securizzazione”, con la sua enfasi sull’estensione del concetto di minaccia alla sicurezza a problemi che non presentano evidenti risvolti militari, si è fatta strada negli anni Novanta in risposta all’apparente venir meno delle tradizionali minacce alla sicurezza con la fine della guerra fredda. In anni più recenti, tuttavia, la parziale ripresa della Russia e l’ascesa della Cina sembrerebbero aver riportato in auge quelle antiche minacce, dando il via a una “nuova guerra fredda”.
È pur vero che considerare la guerra fredda principalmente in termini di minacce militari tradizionali significa fraintendere il senso profondo di quel conflitto. È stata una guerra fredda, non una guerra incandescente. La minaccia di un conflitto militare diretto tra i due blocchi in Europa si era in realtà drasticamente ridimensionata già a metà degli anni Cinquanta. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che l’Occidente abbia vinto la guerra fredda alla fine degli anni Quaranta, con la mancata ascesa al potere – per via elettorale o rivoluzionaria – dei partiti comunisti in Europa occidentale e il rilancio della crescita economica di quest’ultima con l’aiuto del Piano Marshall. Dopo quegli eventi, come George Kennan aveva saggiamente previsto, si trattò solo di contenere il blocco comunista fino al suo collasso sotto il peso dei suoi stessi fallimenti e soprusi, mentre la superiorità economica e politica della democrazia occidentale e del capitalismo sociale di mercato diventava sempre più incontestabile.
In questo senso, la battaglia più importante della guerra fredda è stata combattuta sul campo della legittimità statuale. Entrambe le parti cercavano di affermare e difendere la credibilità assicurata dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, di incoraggiare l’accettazione della propria ideologia in quanto “superiore” sia in patria sia in terre lontane, e di dimostrare il proprio successo nell’adempiere ai compiti essenziali dello Stato. La guerra vera e propria tra superpotenze era un rischio correlato unicamente a errori di calcolo o incidenti (come nel caso della crisi dei missili di Cuba), non l’esito di una strategia deliberata. Lo scontro tra comunismo e capitalismo si fece invece violento al di fuori dell’Europa, con i blocchi occidentale e comunis...