Postfazione
“Musica a specchio” nasce in un momento di silenzio, quando teatri e sale da concerto in tutto il mondo sono chiusi al pubblico, per la prima volta nella storia. Forse per questo con maggiore intensità si bussa alla porta di dieci grandi del nostro tempo, infrangendo il muro di ghiaccio, chiedendo a ciascuno di loro di raccontare un compositore elettivo. Sempre siamo curiosi di sapere qualcosa di più, vedendoli sul podio o sentendoli suonare o cantare. Li conosciamo nella musica, riconosciamo certe esecuzioni subito dall’attacco, dal fraseggio, dal colore dei dettagli, a volte persino dalla tenuta delle pause. La storia di questi interpreti è chiara. Ma dove affonda le radici? Quale passato cela, andando indietro, agli inizi?
C’è un momento in cui per destino, per scelta, per caso, la storia di un bambino come tanti si stacca dal gruppo e diventa quella di un musicista fondamentale. Ed è lì il punto di partenza dei dieci racconti di “Musica a specchio”: tutti con lo specchio girato alle spalle, al tempo indietro. “Il mio primo... Mozart, Bach, Puccini, Mahler” è diventato il filo per dipanare la trama dei ricordi, fatti di storie germinate con naturalezza, incrociate di incredibili coincidenze. Dove fatali incontri hanno dettato poi svolte decisive: la telefonata di Karajan a Muti, di primo mattino, in un albergo sconosciuto di una sconosciuta città americana; la cassettina col nastro registrato della Quarta di Mahler, che il giovane Gatti ha appena diretto a Venezia e che tiene in tasca, e che per destino finisce nelle mani giuste; Roberto Abbado che trova un biglietto a sorpresa in portineria, mentre esce dal saggio finale di un corso di perfezionamento alla Fenice; una giovane moglie che canta in un ruolo minore, nella Valchiria, e l’ancor più giovane marito che in sala l’ascolta trepidante, avendola preparata al pianoforte, e ancora non lo sa Domingo, ma diventerà lui uno dei più grandi tenori del secondo Novecento.
Le dieci storie di “Musica a specchio” hanno un sentiero di partenza molto stretto: ogni interprete sceglie un compositore, in stretto legame, e guardandolo si racconta. I punti di partenza possono essere le Romanze di Puccini che il ragazzo Pappano trova sul leggio del pianoforte, quando ritorna a casa da scuola, perché tra i suoi compiti del pomeriggio c’è l’aiutare il padre nelle lezioni private di canto, oppure possono essere i Capricci di Paganini, che un altro padre, di professione intagliatore di cammei, vorrebbe sentire subito eseguiti dal figlio, ancora coi calzoncini corti, troppo piccolo per quelle spericolatezze, persino dannose per dita infantili.
Il sentiero stretto si allarga, si dirama, e una quantità imprevedibile di nomi entra nel gioco dello specchio. Nomi di altri musicisti, affratellati sulla medesima scia del sentire musicale. Nomi delle composizioni, così numerosi a volte che alla fine della lettura del racconto sembra di aver compreso come non mai il compositore, in un’alta lezione di storia della musica: succede con Schiff, ad esempio, che illustra Bach. Con Pollini-Chopin. Con Cera-Frescobaldi. Ultimo rimane ancora un filo da srotolare, ed è il più circoscritto, perché sta tutto nel cerchio magico di un Quintetto. Sono cinque amici, ragazzi, che suonano – e sarà solo per quella volta – lo Schubert della “Forelle”, La trota.
Di quei cinque una non c’è più. Allora rappresentava il centro, dell’esecuzione e degli affetti. Jacqueline du Pré, la mitica violoncellista. Mehta le costruisce intorno una trama fine, affettuosa, come solo sa l’occhio indiano che vede e ricorda tutto. Proprio perché dettagliato con umorismo, dove si ricordano le beffe agli adulti che solo i ragazzi sanno compiere, e con quel pizzico di erotismo che in quella fase della vita non manca mai, il ritratto si congeda sulla eco di una malinconia senza fine. Solo la musica ha la possibilità – se scritta secondo certe regole – di essere letta anche per moto retrogrado, diventando altro. «Ma fin est mon commencement», scriveva Guillaume de Machaut. Così succede a loro, Frescobaldi, Bach, Mozart, Paganini, Schubert, Chopin, Wagner, Verdi, Puccini e Mahler, nelle parole dei dieci grandi artisti: a lungo li hanno interrogati, e continuano a farlo.
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