Italo Balbo. Una vita ribelle
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Italo Balbo. Una vita ribelle

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Italo Balbo. Una vita ribelle

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Chi era il vero Italo Balbo? A distanza di tanti anni dalla sua morte, tragica e insieme beffarda nonché ancora avvolta nel mistero, questo libro riporta scrupolosamente e meticolosamente l'autentica storia del ferrarese di Quartesana, i caratteri della sua evoluzione politica e maturazione umana. Da ras squadrista a ministro dell'Aeronautica, da devoto a Mussolini a fomentatore di un suo rovesciamento, da Maresciallo dell'Aria a Governatore della Libia. Un personaggio popolare e discusso, contraddittorio e imprevedibile, scomodo e temuto, amato e odiato. In appendice, il famoso Dialogo immaginario con Italo Balbo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788827529393
Argomento
History
Categoria
World History

LA CULTURA DURANTE L’EPOCA DI BALBO

Iniziale disdegno e successiva rivalutazione, da parte del fascismo, dell’arte e della letteratura nel ventennio

«Contrariamente a quanto avvenne per le masse lavoratrici che, individuate ben presto le radici degli interessi di classe del regime, iniziarono una battaglia dura ed efficace contro il fascismo proprio creando “quadri” ed “organici” della lotta clandestina, i ceti intellettuali non esercitarono una opposizione di struttura atta a influire sulla nuova realtà politica italiana. Fin dall’inizio, anche coloro che maggiormente dovevano poi avversare il regime, tarderanno poi a rendersi conto del pericolo che il nuovo “movimento dell’ordine” rappresentava anche per la loro libertà. E questo ritardo fu tale che - quando alcuni riuscirono a comprendere confusamente di cosa veramente si trattava - le strutture reazionarie, illiberali e oscurantiste dello stato totalitario si erano già consolidate» (F. Solmi, L’arte in Emilia dal fascismo alla Resistenza).
Significativo, in proposito, è l’atteggiamento tenuto da Benedetto Croce: egli votò la fiducia a Mussolini dopo la “marcia” su Roma e la ribadì pure dopo il delitto Matteotti, giustificò pubblicamente la violenza usata dai fascisti nelle elezioni del 1924, ritenendo il fascismo innocuo in quanto privo di una sua fondata ideologia. Solo più tardi, allorché il regime superò il momento di grave crisi provocato appunto dal delitto Matteotti, il filosofo reagì bollando come onagrocrazia (governo di asini selvatici) il governo fascista, per poi diventare in sostanza la vera e propria bandiera dell’antifascismo intellettuale. Comunque fu un bell’abbaglio, non c’è che dire.
Fino al 1925 il fascismo si disinteressò degli intellettuali e della cultura, era nato come movimento d’azione e la sua dottrina sosteneva che la volontà umana può alimentarsi solo di miti impossibili: «Noi abbiamo creato il nostro mito... - ebbe a dire Mussolini in un discorso del 1922 - il mito è una fede, una passione. Non è necessario che sia una realtà» (Napoli, 24/10/1922).
Una dottrina che giustificava anche la violenza ( Les reflexions sur la violence, di Georges Sorel, fu uno dei libri prediletti dal futuro Duce), affermandone il valore morale, nel senso che questa non sarebbe rimasta distrutta dall’atto violento bensì trasformata e trasportata sul piano dell’entusiasmo e dell’eroismo. La parola di Mussolini era divenuta il vangelo di un gruppo politico dalle caratteristiche ormai quasi “religiose”, in qualche modo fideistico.
Il Duce peraltro, nei suoi discorsi, sosteneva che «Nel Fascismo il fatto ha preceduto la dottrina» (Roma, 22/06/1925), che «Al cattedratico impotente preferisco lo squadrista che agisce» (Roma, 22/06/1925), che «La penna è un grande strumento, ma la spada è uno strumento migliore» (Roma, 26/05/1925), inoltre che «Non ho mai letto una pagina di Benedetto Croce... I filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita» (Roma, 22/06/1925). Insomma, la sottovalutazione e un certo “disprezzo” della cultura furono sin dai primi anni del ventennio una caratteristica peculiare del regime.
Finché, nel 1929, Mussolini ritenne che il fascismo dovesse «provvedersi di un complesso dottrinale» e affidò a Giovanni Gentile, concedendogli solo un paio di mesi di tempo, l’incarico di organizzare l’evento. Ma quello non fu il primo tentativo al riguardo, in precedenza si era già allestito, nel marzo del 1925, il “Convegno per le istituzioni fasciste di cultura”, che si svolse a Bologna e al termine del quale venne decisa la stesura del Manifesto degli Intellettuali del Fascismo. Il manifesto, pubblicato il 21 aprile dello stesso anno, era suddiviso in cinque argomentazioni: Le Origini, Il Fascismo e lo Stato, Il governo Fascista, Stato e sindacato, L’opposizione al Fascismo. Immediata fu la risposta del mondo culturale capeggiato da Croce. Il primo maggio, festa del lavoro e dei lavoratori, venne pubblicato sul “Mondo” il cosiddetto “contromanifesto” crociano con il titolo Una risposta degli scrittori, professori e pubblicisti italiani, al manifesto degli intellettuali fascisti, seguito da due appendici, il 10 e il 22 maggio, consistenti negli elenchi dei firmatari che esprimevano la loro adesione.
La stampa dell’epoca diede notevole risalto alla colta diatriba e ne scaturì un interessante e non violento dibattito. Si legge ad esempio sulle pagine del “Mondo” del 23 aprile: «Se vi è chi attendeva dal manifesto agli intellettuali la definizione - finalmente - del movimento fascista, rischia di provare un’assai grande delusione. Il manifesto ha tutti i caratteri di un manifesto elettorale... In un paese che ha bisogno di un buon bagno di antiretorica, il manifesto gentiliano rievoca e sfrutta tutti i motivi retorici che hanno infiorato i proclami ed i meetings di tanti altri partiti... Ma negli altri partiti vi è un nucleo di idee e di aspirazioni, vi è un contenuto di programma, che qui manca».
Ancora, il giorno successivo, la medesima testata incalzava: «Il buon italiano dopo aver letto il manifesto degli intellettuali fascisti agli uomini di pensiero di tutto il mondo, ha respirato largamente, pieno di soddisfazione, perché ha finalmente saputo una notizia che ha ridato una certa tranquillità al suo spirito. La cosiddetta rivoluzione fascista è finita da un pezzo... Ma voltando la pagina dello stesso giornale ufficioso, il cittadino pieno della migliore volontà di appagarsi ad ogni spiegazione, buona o cattiva, s’imbatte nel resoconto d’un discorso, pronunciato da quell’on. Italo Balbo, ch’ebbe il noto infortunio giudiziario con la “Voce Repubblicana” e attualmente è generale fuori quadro della milizia. L’oratore afferma che “la rivoluzione (fascista) ha bisogno del suo ciclo e questo è ancora agli inizi”. Ma, allora, è finita o è al suo inizio, codesta benedetta rivoluzione?».
E il 3 maggio lo stesso giornale ironizzava: «Come il raglio rivela l’asino anche a distanza, così la prosa pubblicata iersera in un giornale fascista in risposta al Manifesto degli intellettuali antifascisti rivela il suo autore: Giovanni Gentile». Intanto, il 25 aprile, Giuseppe Saragat aveva commentato sulle pagine de “La Giustizia”: «Bisogna fare un brusco salto indietro nei secoli per dare alla lotta la sua fisionomia reale, al di fuori dei travestimenti letterari e filosofici, in cui troppi sono interessati a camuffarla. Il manifesto di Gentile agli intellettuali, spogliato del formulario cabalistico, può ben guidarci in questa passeggiata archeologica fra i fantasmi delle età passate».
E “Il Popolo d’Italia”, in data 2 maggio, replicava: «Ormai siamo abituati al mostruoso accoppiamento di cattolici e massoni, di spiritualisti e di positivisti, di germanofili e di francofili, di interventisti e di neutralisti, di conservatori e di sovversivi, tutti uniti nel grottesco tentativo di negare il Fascismo e di arrestare il magnifico stellone d’Italia che ascende... Il manifesto, che sembra doversi attribuire a Benedetto Croce, è un documento negativo, che non offre alcun nuovo verbo all’Italia... Se si vuole interpretare e difendere l’intelligenza, bisogna condannare il movimento del sovversivismo contro la cultura, bisogna cioè fare ciò che ha fatto il Fascismo». E in un altro articolo lo stesso giorno: «Ma il Croce è stizzito forte contro il Fascismo. Ed egli, quando è in preda alla stizza, corre e vola nei suoi giudizi e fulmina e tuona dall’alto di un orgoglio intellettuale inverosimile contro gli avversari e anche contro la verità che non ha in pugno»; quindi ancora: «A Bologna il Fascismo ha detto che anche la cultura deve avere uno spirito e una funzione nazionali. Che anche la cultura ha una responsabilità politica e che la concezione della vita che è politica nel senso aristotelico, è autoritaria».
“Il Popolo”, dal canto suo (a presumibile firma di Giuseppe Donati), aveva osservato il 23 aprile: «Il “gentilismo” tende a divenire, ove non lo sia di già, la filosofia del fascismo; e di tale tendenza abbiamo avuto proprio ieri un nuovo eloquente documento, da quel “manifesto degli intellettuali” in cui, con dialettica prettamente “attualistica”, si spiega “il metodo di lotta seguito dal fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22” - leggi: manganello, rivoltella, olio di ricino - addirittura “col carattere religioso del fascismo” stesso!... Tenete conto che i capi del fascismo, da Mussolini a Farinacci, sogliono ripetere di sovente che il fascismo stesso è “una nuova religione allo stato nascente”, e che tutti i ras, da Balbo a Barbiellini, esaltano nelle loro concezioni furibonde “lo slancio mistico” e l’intolleranza domenicana dello squadrismo, fiore di tutto il fascismo. Gli addentellati tra questo atteggiamento dei capi fascisti e la filosofia politica dell’on. Gentile li trovate oggi diffusi per tutto il “manifesto agli intellettuali”, dove si parla del “carattere religioso e perciò intransigente” del fascismo; dove si afferma che l’idea fascista è “un’idea religiosa”; dove, finalmente, la concezione fascista della vita vien definita senz’altro “serietà religiosa”, opposta implicitamente alla concezione cristiana, in quanto è detto che il fascismo “non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo”, come, in questa nostra povera Italia dell’anno giubilare 1925 continua a fare... solo, diciamo in mezzo a tanti “idealisti” del paradiso in terra, il Cattolicesimo».
Ben presto tuttavia, sebbene il “contromanifesto” rappresentasse un innegabile atto di coraggiosa autonomia, gran parte degli intellettuali e degli artisti passarono, per convinzione o per convenienza, armi e bagagli al fascismo. Benedetto Croce e pochi altri mantennero la loro posizione di resistenza passiva, mentre gli “irregimentati” vennero un po’ dovunque esaltati con roboanti affermazioni di (spesso immeritata) grandezza. La stampa proseguì il suo processo di fascistizzazione, le libere lettere quasi collassarono su loro stesse e, soprattutto, l’arte figurativa celebrò i fasti dell’impero e del suo Duce.
In pittura, scultura e architettura, si utilizzò l’archeologismo novecentista per tradurre iconograficamente le concezioni nazionalfasciste e il mito imperiale: ci fu così una sequela ininterrotta di aquile romane, di fasci littori, di aeroquadri, di sintetici ritratti del Duce, di glorificazioni della guerra e del colonialismo, di sguardi intensamente rivolti agli alti destini della patria, di vittorie alate.
Insomma, se è vero che l’avvilimento artistico, dovuto a ridicole commistioni e ad aride accozzaglie di sterili motivi stilistici, fu generalizzato ma per fortuna non tutto succube del conformismo, è anche vero che persino la grande avanguardia futurista, che in passato aveva elargito straordinari frutti creativi, si abbassava ora con i suoi mediocri epigoni a una mera apologia del potere (Cfr. F. Solmi, L’arte in Emilia dal fascismo alla Resistenza).


Fascismo e futurismo, la cultura del regime e il regime della cultura

Innanzitutto, è bene ricordare che il futurismo precedette di circa un decennio i primi “sintomi” dell’avvento del fascismo. Infatti la data di nascita del futurismo è il 1909, anno nel quale il fondatore Filippo Tommaso Marinetti pubblicò a Parigi su “Le Figaro” (precisamente il 20 febbraio) il primo celebre Manifesto.
Al cui interno vi sono affermazioni programmatiche di questo tenore: «Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia... Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno... Non v’è più bellezza, se non nella lotta... Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo -, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî... Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie... Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa...».
La temperie che pervaderà, di lì a due lustri, le prime azioni fasciste è facilmente riconoscibile. Del resto, durante le elezioni dello stesso 1909 Marinetti lanciò il suo primo manifesto politico, rivolto al conseguimento di una rappresentanza parlamentare «sgombra di mummie, libera da ogni viltà pacifista».
E quattro anni dopo, il “crogiolo” futurista alimenterà ancora l’embrione del fascismo. «Alle elezioni del 1913 il Programma Politico Futurista, enunciato da Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo, venne ulteriormente precisato. Espansionismo coloniale, irredentismo, anticlericalismo, antisocialismo ne sono i cardini. Culto dello sport e dell’eroismo, predominio della ginnastica nell’educazione, privilegio della tecnica ed esautoramento dell’insegnamento accademico, modernizzazione violenta delle città “passatiste”» (M. Verdone, Il futurismo).
Ma è del febbraio 1918 il Manifesto del Partito Futurista Italiano (da distinguersi, almeno in teoria, dal Movimento Artistico Futurista), organizzatosi in “fasci” politici futuristi in diverse città italiane. Il manifesto, fra le altre cose, propose: l’educazione patriottica, la lotta all’analfabetismo, la viabilità, le scuole laiche, l’abolizione dell’insegnamento classico, l’insegnamento tecnico nelle officine, l’educazione sportiva, l’apertura ai giovani in Parlamento, l’anticlericalismo, l’abolizione dell’autorizzazione maritale, il divorzio, l’avvento del libero amore, l’efficienza dell’esercito, la socializzazione delle terre, la libertà di sciopero, di riunione e di stampa, l’abolizione della polizia politica, la giustizia gratuita, il massimo di lavoro giornaliero a otto ore, la creazione dell’assistenza e della previdenza sociale. Com’è evidente, nel futurismo esisteva paradossalmente anche un’anima in qualche modo “di sinistra” o se si preferisce populista.
Marinetti proclamò che «il fascismo nato dall’interventismo e dal futurismo si nutrì di principi futuristi» (F.T. Marinetti, Futurismo e Fascismo), Croce ribadì che «Per chi abbia il senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo» (“La Stampa”, 15/05/1924), Mussolini stesso espresse in più occasioni il suo apprezzamento per il futurismo.
Il 3 luglio del 1923, ne “Il Secolo”, Giuseppe Prezzolini commentò: «Evidentemente nel Fascismo vi è stato del Futurismo. Lo dico senza alcuna prava intenzione. Il Futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel Fascismo dal Futurismo». Ma, più avanti nello stesso articolo, Prezzolini anche confutò con acume: «Senonché, è permesso chiedere schiarimenti e avanzare dei dubbi?... Il Fascismo, vuol essere, se non erro, gerarchia, tradizione, ossequio dell’autorità... si compiace di rievocare Roma e la classicità... vuol mantenersi nelle linee segnate dai grandi italiani e dalle grandi istituzioni italiane, compreso il Cattolicismo... Il Futurismo è protesta contro la tradizione; è lotta contro i musei, contro il classicismo, contro le glorie scolastiche... è l’arte del verso libero, della frase libera, della parola in libertà... Il Fascismo invece rinvigorisce la scuola, introduce ovunque il latino, invita a commemorare De Amicis e Manzoni... è uno sforzo politico essenzialmente italiano... Invece il Futurismo è un movimento di carattere internazionale».
I futuristi parteciparono in massa al già citato “Convegno per le istituzioni fasciste di cultura”, tenutosi a Bologna nel 1925, naturalmente capeggiati dal loro “duce” letterario: Filippo Tommaso Marinetti. Da quel momento, come si è detto, l’arte (in specie figurativa) del regime si trasformò, man mano che il futurismo perdeva la sua energica spinta propulsiva, sempre più in arte di regime, con esiti ormai lontanissimi dalle innovative opere delle origini.
Quattro anni dopo, nel maggio del 1929, Marinetti e i suoi seguaci uscirono dai “fasci”, nei quali non trovavano più posto le loro convinzioni antimonarchiche e anticlericali. Divennero così i cantori di personaggi, di eroi (commentò riassuntivamente Piero Gobetti) squallidi, privi di confidenza e di intimità, che predicavano la violenza per timore della solitudine, per non dover fare i conti con se stessi.


Balbo uomo, giornalista e letterato

Nella sua tragica solitudine di Salò, in uno dei giorni che precedettero la resa definitiva, Benito Mussolini confidò a un camerata: «Balbo? Un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace d’uccidermi».
Non sembra una frase di circostanza: il Duce era alla fine del proprio dominio e Balbo morto da cinque anni. Del resto, senza un pubblico, Mussolini sembrava un involucro vuoto, come lo sarebbero state le sue parole senza la propria voce, ritornava ad essere l’uomo solitario e insicuro che in fondo si nascondeva dentro di lui. Tuttavia, un simile giudizio da parte sua nei confronti di colui che in qualche modo, negli ultimi anni, gli era stato anche avverso non è cosa di poco conto. Insomma, chi era davvero Italo Balbo? Un capitano di ventura con baffi e pizzetto alla moschettiera o un ambizioso opportunista? Era solo un mitico trascinatore e organizzatore o aveva anche doti politiche? Un eroe romantico oppure uno spietato squadrista? O ancora, il giovane di animo gentile che scriveva, nel 1933 alla vigilia della seconda “crociera” atlantica, in una lettera alla madre: «Cara mammina e cara sorellina, tutto va bene, benone, benissimo. Aspettiamo il bel tempo per partire. Sono contento e sicuro [sic]. Tanti bacioni affettuosissimi, vostro Italo».
Intanto, da ragazzo, Balbo fu un fervente idealista mazziniano ( Il pensiero economico e sociale di Giuseppe Mazzini è il titolo della sua tesi di laurea, sostenuta il 29 novembre del 1920), nonché iscritto alla Massoneria e, dopo la laurea, un semplice impiegato di banca. Ma il suo temperamento, di certo non comune, lo portò ad accettare la proposta degli agrari di diventare segretario del “fascio” di Ferrara. Come abbia potuto, da un giorno all’altro, rinnegare gli ideali repubblicani che erano sembrati essere una sua ragione di vita è questione controversa e difficilmente interpretabile. In quel periodo modificò persino il suo “look”: da bel giovane quasi efebico e scapigliato, con lunghi capelli spettinati e una espressione da “artista maledetto” alla Modigliani o alla Rimbaud, passò a un aspetto da “duro”, da capobanda e da crudele esecutore di ordini.
I risultati non si fecero attendere: «Mesola, Copparo, Massafiscaglia, Portomaggiore, Goro, non c’è paese dove Balbo non giunga a imporre alle cooperative e alle leghe la volontà dell’Agraria con il bastone, il fucile e la benzina. Assalta il Castello Estense, depone amministratori, disperde comizi, incendia case del popolo, bastona, saccheggia, spara. Anche i cronisti più diligenti hanno perso il conto delle sparatorie, delle distruzioni, delle incursioni in 18 BL dei fascisti sulle bianche strade del Delta» (G. Nozzoli, I ras del regime).
Oppure, forse, la storia di Italo Balbo «è la favola realizzata dell’uomo della strada che dice “se comandassi io” e arriva davvero a comandare» (G.B. Guerri, Italo Balbo). La fantasia divenuta realtà in un uomo che nutriva una vera e propria adorazione per gli affetti familiari, tanto da confessare, lui che era uno dei prototipi del superomismo fascista, all’amico De Bono: «Vedi, a cominciare dal periodo dell’interventismo fino alla marcia su Roma, io avevo sempre attraverso il cuore la mia mamma; mi studiavo di fare le cose in modo che essa non dovesse essere troppo in pensiero per me» (De Bono, Rievocazione di Italo Balbo). Ed era inoltre simpatico, come testimoniò un suo compagno di ginnasio, generoso con gli amici, sempre disponibile e ricco di idee, né si irritava quando lo prendevano in giro perché il suo unico abito nero da “mazziniano” gli si accorciava di giorno in giorno durante la sua crescita di adolescente.
Ma tracciare un profilo credibile e quanto più possibile veritiero su Balbo è una impresa piuttosto difficile, soprattutto a causa del fatto che, dopo la sua morte, i suoi biografi (di regime) hanno in sostanza tessuto su di lui solo delle propagandistiche apologie. Basti pensare che, ad esempio, “il Resto del Carlino” del 30 giugno del 1940, nell’articolo che annunciò la sua tragica scomparsa, non fece nei titoli o nei titoletti il benché minimo accenno al disgraziato (nonché paradossale, assurdo e pure misterioso) incidente di cui egli rimase vittima, cioè all’abbattimento del suo aeroplano da parte della nostra medesima contraerea, titolando invece con: “Gloria eterna ai caduti per la Patria”, “L’eroica morte di Italo Balbo, aviatore combattente nel cielo di Tobruch”, “Il supremo olocausto”, “Al posto di combattimento in vita e in morte” e così via.
Per non parlare della tronfia retorica con la quale venne infarcito l’omaggio tributatogli, sempre sulle pagine del locale “Resto del Carlino”, in occasione delle celebrazioni in sua memoria a un anno dalla morte. Il lungo articolo, dal titolo “Eroe antico”, si apre così: «Chissà perché giungono ogni tanto sulla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. ITALO BALBO. UNA VITA RIBELLE
  3. Indice
  4. Intro
  5. Balbo ribelle e trasvolatore
  6. Introduzione
  7. LA LOTTA DÀ RAGIONE AI PIÙ FORTI
  8. L’IRRESISTIBILE ASCESA DEL RIBELLE DI QUARTESANA
  9. LA CULTURA DURANTE L’EPOCA DI BALBO
  10. SPERANZE, GLORIA E DELUSIONE NELL’ULTIMO DECENNIO DI VITA DI ITALO BALBO
  11. APPENDICE
  12. Ringraziamenti