Racconti sardi
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Racconti sardi

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Racconti sardi

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Di notte, Il mago, Ancora magie, Romanzo minimo, La dama bianca, In sartu (Nell'ovile), Il padre, Macchiette. Sono questi gli otto suggestivi racconti sardi che la giovane Grazia Deledda pubblicò nel 1894, prima dei grandi romanzi come Elias Portolu (1903) e Canne al vento (1913) che le valsero il premio Nobel per la Letteratura nel 1926. Ne emerge una Sardegna orgogliosa e sanguigna, magica e misteriosa, mitica.

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Informazioni

DI NOTTE

Potevano essere le undici quando la piccola Gabina si svegliò nel gran letto di legno della stanza di sopra, ove dormiva sempre con la sua mamma che le voleva tanto bene.
Ma quella notte la mamma non le stava allato. Perché dunque non c’era? Per quanto Gabina stendesse le sue manine da tutte le parti del gran letto di legno non poteva trovare la sua mamma. Solo le lenzuola fredde come il vento, solo i guanciali di percalle rosso; null’altro!
Dove era dunque la mamma? Gabina si coricava e si levava sempre insieme a lei; mai s’era trovata sola in letto, così, nel gran letto freddo, nell’oscurità della notte spaventosa.
Quello era dunque un grande avvenimento per la piccina.
- Mamma... mamma... - chiamò con un fil di voce.
Ma nessuno rispose. Fuori urlava il rovaio e la pioggia si sbatteva fragorosamente contro i vetri della piccola finestra.
Senza di ciò Gabina si sarebbe forse riaddormentata, ma con quegli urli infernali, nella fonda oscurità della cameretta solitaria, le era assolutamente impossibile nonché riprender sonno, calmarsi.
Temeva tutti i fantasmi immaginabili: la morte, i vampiri, il padre dei venti, le fate nere e l’orco, tutti... tutti...
- Mamma... mamma?... - ripeté a voce alta mettendosi a sedere sul letto. - Mamma, mamma?...
Rimase così quasi un quarto d’ora, alzando sempre più la voce, abituandosi al buio e al fragore del vento.
E siccome la madre non rispondeva mai, Gabina pensò di vestirsi e scendere in cucina per cercarla. Veramente era la mamma a vestirla ogni mattina perché a lei, così piccola, non riusciva ancora infilarsi il giubboncello nero dalle maniche strette; ma poco importava... purché ritrovasse la gonnellina bastava. La lasciava sempre nella sedia ai piè del letto: dunque bisognava scendere per ritrovarla.
Scendere?... Scendere all’oscuro, a piedi nudi, con quella notte, scendere da letto, sola?... Ci voleva proprio un gran coraggio, e Gabina, che tremava forte di freddo e di paura, esitò a lungo. Ma rimanere a letto senza la mamma non le conveniva! Il vento urlava ognor più fragoroso; fra poco sarebbe penetrato nella camera e avrebbe divorato la testa a Gabina... Dunque giù!
Scese e mandò un urlo. Il suo piedino aveva incontrato qualcosa di duro, di freddo, di deforme che certo non era il suolo di tavole levigate dal tempo...
Un rospo, un vampiro forse?
- Mamma mia... mamma mia!... - gridò la piccina a squarciagola, cercando invano risalire sul letto; ma alla fine, visto che il vampiro non si muoveva e che la mamma continuava a non rispondere, si chinò e s’assicurò che quella era una scarpa vecchia uscita per caso da sotto il letto.
Un sorriso le sfiorò le labbra e quella prima avventura le infuse molto coraggio, sicché, risoluta di non temer più nulla pei piedini, si avanzò appoggiandosi alla sponda del letto. Ma laggiù, non trovò punto la sedia con le sue vesti; cominciò a stizzirsi e a imprecare; perché dovete sapere che non era un modello di educazione, e nominava con disinvoltura tutti i diavoli dell’inferno, come li udiva dal nonno, e dagli zii e un po’ anche dalla mamma.
Dove diavolo dunque stavano le sue vesti? Se le aveva prese il demonio? Alla galera la notte e chi l’aveva inventata!...
Ma le scordò un momento e ricominciò a tremare così forte che i dentini pareva volessero spazzarsele.
In un intervallo silenzioso del vento e della pioggia aveva sentito strani rumori salire dalla cucina e voci umane più tetre e spaventose dei gridi della procella.
Che avveniva in cucina? Dio mio, Dio mio, e la mamma sua? C’erano forse i ladri o i diavoli? E il nonno e gli zii mancavano da tre giorni e non c’era nessuno che potesse difendere la mamma, la povera mamma sua!... La curiosità si unì alla paura, e Gabina si rimise a cercare le sue gonnelline, urtando nelle sedie, su tutti i poveri mobili della camera oscura. Riuscì finalmente a trovarle e le indossò a stento, ma quando tutto pareva fatto un altro ostacolo si interpose al disegno della piccina.
La porta che dava sulla scala era chiusa a chiave dal di fuori, per quanti sforzi facesse non poté aprirla, e il silenzio orrendo della mamma continuò quando si rimise a chiamarla, scuotendo la porta con fracasso.
Ritornò verso il letto, disperata, e nascosto il volto fra le coltri in disordine si mise a piangere, ma a un tratto si ricordò che nella stanza attigua v’era un poggiolo di pietre, d’onde, per una scaletta esterna si scendeva al cortile, e sotto cui si apriva appunto la vecchia porta della cucina.
La pioggia e il vento continuavano, ma Gabina era decisa a tutto: entrò nella camera vicina, aprì il poggiolo e scese, sfidando l’acqua che veniva giù furiosa dal cielo basso di piombo, e il rovaio gelato che imperversava nella notte.
Tremava come una foglia, ma aveva completamente scordato i fantasmi e i vampiri. Un’angoscia indicibile le stringeva il cuoricino e un presentimento orribile, superiore alla sua età, le diceva che giù in cucina doveva accadere qualche cosa. Oh, quelle voci che aveva sentito!...
In un attimo fu sotto la scala, al coperto della pioggia, davanti alla porta della cucina. Anche questa era chiusa, ma Gabina non picchiò per farsela aprire, benché vedesse il bagliore del fuoco acceso nel focolare, attraverso la grande fenditura che rigava dall’alto in basso la porta.
Si accoccolò per terra e applicò l’occhio sulla fenditura.
Non temeva più, ma non voleva punto entrare in cucina perché la mamma l’avrebbe certamente picchiata.
Il nonno e gli zii - tre uomini alti, robusti, bruni, il cui costume consunto e sporco rivelava una misera esistenza di lavoro continuo e faticoso, i cui occhi cupi e profondi narravano la triste storia di anime ignoranti non avvilite dalla povertà, ma turbinate da passioni tetre, ardenti e dolorose - erano tornati e stavano seduti intorno al focolare.
La mamma di Gabina, Simona, giovane, bella, di quella strana bellezza araba che si incontra in molte donne sarde, e che ricorda i saraceni dominatori e devastatori dell’isola nel IX e X secolo, rimaneva un po’ nell’ombra, seduta per terra, le mani incrociate sulle ginocchia, scalza e in maniche di camicia, larghe maniche all’orientale, strette sui polsi e increspate negli omeri eleganti.
Mai Gabina aveva visto sua madre così pallida e cupa, sua madre che pure era sempre smorta e triste in viso, mai aveva visto i suoi occhi neri brillare stranamente così.
Sotto il fazzoletto nero calato sulla fronte il volto di Simona assumeva tinte cadaveriche, i lineamenti finissimi e immobili stirati da una tetra e spaventosa serietà, gli occhi illuminati da un riflesso di odio e di angoscia.
Ma chi più attrasse l’attenzione di Gabina, e la costrinse a rimanersene fuori, fu la vista di un estraneo, seduto anch’esso vicino al focolare, legato solidamente con una corda di pelo alla vecchia sedia che ornava da sola la cucina, una sedia grossolana che restava sempre in un angolo, non toccata da nessuno, ma spesso guardata cupamente da Simona.
Gabina non aveva mai, prima d’allora veduto il volto dell’estraneo che pure indossava il costume del villaggio, e l’andava esaminando curiosamente, chiedendosi chi fosse e perché fosse lì, legato, nel folto della notte.
Era un bell’uomo sulla quarantina, i capelli di un biondo rossastro ondeggianti sull’ampia fronte abbronzata, gli occhi grigi acutissimi, e con una magnifica barba rossa cadente sul petto. Un’atroce espressione di spasimo gli sconvolgeva tutto il volto e sulla fronte gli brillavano, al riflesso del fuoco, grosse gocce di sudore, ma non era pallido come gli altri e specialmente come Simona.
Gabina certamente non percepì tutti questi particolari, ma comprese benissimo che là dentro - nella cucina nera illuminata dal fuoco e da una specie di lampada a quattro becchi, di latta annerita dal fumo del lucignolo, posta sul forno e che andava spegnendo - accadeva qualche cosa di misterioso, di straordinario; e incapace di darsi una qualsiasi spiegazione, rimaneva muta, immobile dietro la porta, la fronte incastonata sulla fenditura, gli occhioni grigi, - che rassomigliavano assai a quelli dell’uomo legato alla sedia, - spalancati e avidi.
La piccina tremava di nuovo - svanita la curiosità, la paura angosciosa di prima le gravava nuovamente sul cuore - e si domandava se tutto non fosse un brutto sogno.
Gelidi soffi di vento le percuotevano le spalle mal coperte; i suoi piedini, le sue mani, tutta la sua personcina oramai erano coperte di neve, e l’acqua che invadeva il cortile saliva, saliva, ingrossata sempre più dalla pioggia furiosa. Ben presto l’avrebbe costretta a fuggire od a farsi aprire la porta, ma lei non se ne accorgeva. Provava tanto freddo che sentiva una pazza voglia di piangere, eppure non si muoveva... Un nodo le serrava la gola, e più d’una volta dei singhiozzi aridi, spasmodici, le contorcevano le labbra rese livide dal freddo e dallo spavento.
Perché ciò che vedeva, ciò che sentiva, era una scena così terribile che avrebbe atterrito qualunque uomo, nonché lei, debole animuccia di appena nove anni...

- Elias, Elias! - esclamava il padre di Simona. - È inutile che tu urli chiedendo aiuto. Nessuno verrà, e la procella nasconde il tuo grido. Nessuno verrà! Tu devi morire lì, legato alla sedia ove ti assidevi ogni notte, dieci anni fa, ti ricordi, miserabile? Ogni notte... in qualità di fidanzato leale ed onesto!... Con la sedia che abbiamo gelosamente conservato per dieci anni... che ti aspettava... che getteremo sul fuoco intrisa del tuo sangue vigliacco...
- Difenditi! - diceva cupamente Simona. - Se non ci dai una sola scusa, almeno una, del tuo vile procedere, la tua morte sarà orribile! Difenditi! Scusati, e con una fucilata tutto sarà finito. Se no, guai a te!...
- E sei tu che parli così?... - rispose Elias. - Tu donna, tu che mi dimostravi la bontà in persona? Tu?
- T’odio! Tu mi hai disonorato; tu ch’eri il mio fidanzato, la vita mia, mi hai tradita, mi hai perduta! Il dolore ha ucciso in me ogni sentimento umano: t’odio, e da dieci anni non sogno che la vendetta. E che cosa è, vigliacco, l’angoscia che tu provi stanotte in confronto di ciò che ho sofferto io? È odio, e son io che ho spronato i miei alla vendetta...
- Uccidetemi dunque!... - mormorò Elias. - Ma pensate che v’ha una coscienza... un Dio...
- Ci aggiusteremo noi con la nostra coscienza e con Dio! - esclamò Tanu, uno dei fratelli, con un sorriso crudele e feroce che lasciò vedere due fila di denti bianchissimi, forti, da belva, scintillanti al riflesso del fuoco.
- La coscienza e Dio!... - saltò su Simona come una vipera. - Ne hai tu avuto coscienza, hai pensato a Dio tu?...
Elia chinò il capo.
- In nome di nostra figlia... - disse.
- Dunque sai che ho una figlia?...
- Sì, lo so. Se vuoi io la legittimo. La piglierò meco e un giorno sarà ricca, perché io lo son diventato e con l’altra non ho figli...
- Come parli! - gridò Pietro, l’altro fratello. - Non hai dunque ancora compreso che non uscirai di qui né vivo né morto?...
E accarezzò lungamente la canna del fucile, che teneva sulle ginocchia, dicendo con crudele lentezza: - Ti massacrerò io, io che ero il tuo amico, io che ti ho introdotto nella nostra casa dove lasciasti la sventura e il disonore. Ti ucciderò io e ti porrò io sotto terra, tristo serpente miserabile! Ah, con chi ti credevi tu? Con chi ti credevi? La nostra famiglia ha vendicato sempre le offese ricevute, e noi, stanotte, noi che ti abbiamo cercato per dieci anni in tutti i villaggi di Barbagia, pei monti nevosi e per le gole dirupate, noi laveremo col tuo sangue la macchia impressa al nostro nome.
- Simona, Simona!... - mormorò il prigioniero volgendole, spaventato, uno sguardo supplichevole. - Nostra figlia...
- Taci, non nominarla! È il fiore nato dalla colpa, ma è pura come le nevi del Gennargentu! Tu la profani nominandola perché sei vile, perché sei infame! Tu le sei nulla... Suo padre è Dio!...
- Tu non le vuoi bene, Simona! Se l’ami lasciami vivere!...
Un lampo brillò negli occhi foschi della donna.
- Io adoro mia figlia e vivo solo per lei. Se essa sparisse dalla mia esistenza tutto crollerebbe intorno a me e sarei la più sfortunata fra le donne. Se l’amo! La mia figlia! La povera figliolina mia! È tutto il mio amore, la mia felicità! Ma ti ripeto di non più nominarla. Il suo ricordo, nonché muovermi ad una pietà, impossibile in me dopo tutto ciò che è accaduto, accresce il mio odio, la mia sete di vendetta. E non vedo mai l’ora di saperti sotto terra affinché, quando essa mi chiede di suo padre, io possa dirle, senza più arrossire: «È morto!...».
- Dunque è deciso! - gridò Elias. - Uccidetemi dunque! Vedete che son pronto! Saprò morire perché non sono vile, come voi credete, perché se errai non fu mia colpa, ma del caso e per volontà di Dio! Uccidetemi!...
- Uccidetemi!... - ripeté fuori il lugubre fischio del vento.
I cinque personaggi di questa tetra tragedia rusticana tacquero un momento. Una calma terribile segnava nei loro volti e il fuoco continuava a illuminare la scena con tinte sanguigne, e funebri chiaroscuri; una scena degna del fosco Caravaggio.
- Racconta dunque perché mi hai tradito, senza scusa alcuna, dopo due anni di fervido amore! - disse alla fine Simona, sempre fissa nella sua idea. - Se ti ricordi dovevamo sposarci subito perché io ero madre. Tu partisti con un cavallo carico di castagne, di formaggio e di arnesi di legno che avresti venduto a Nuoro per comprarmi l’anello di sposa e i gioielli... Dovevi ritornare fra quattro o cinque giorni e mi lasciasti quasi piangendo... Son trascorsi dieci anni, dieci anni di angoscia, di lacrime e d’odio, ma mi pare ieri... E non tornasti; e un mese dopo ti seppi sposo a una fanciulla di Fonni!... Racconta! Se hai una scusa, ti ripeto, ti uccideremo con una sola fucilata, altrimenti, come è vero Cristo, come è vero che sei lì, legato, ti abbruceremo vivo!...
L’accento di Simona era così duro che un brivido d’orrore corse per tutto il corpo di Elias. Tuttavia, dissimulando, rispose freddamente: - Non temo né il fuoco, né la palla; pure vi dirò come è accaduto. Non fu mia colpa, vi dico, ma volontà di Dio!... Sentite!...
E cominciò: - Sì, son dieci anni e pare ieri! Io partii pensando a te e disegnando la nostra vita avvenire... ma Dio volle altrimenti! Ero due ore distante da Fonni, ove contavo di passare la notte, per proseguire l’indomani il viaggio verso Nuoro, allorché cominciò a nevicare. Non ne feci caso, abituato com’ero a tutte le intemperie del tempo, e proseguii per il sentiero dirupato, attraverso le gole dei monti, camminando a piedi davanti al mio cavallino tanto carico. E cammina, cammina. Il vento mi batteva la neve sul volto, appiccicandola alle mie vesti, alle mie mani, persino alle ciglia e alle labbra. In breve il mio pastrano ne fu tutto coperto, e le bisacce delle castagne e la groppa del cavallo, tutto, tutto quanto...
Il sentiero sparve sotto la neve, ma io, che mi credevo pratico dei luoghi, proseguii senza turbarmi, in linea retta, gli occhi fissi sull’orizzonte dove di tanto in tanto credevo scorgere il profilo di Fonni. Il vento urlava pazzo per le montagne e la notte piombava, ma la neve cadeva sempre... Cadeva sempre, ammucchiandosi sui miei passi, e nessuna anima viva interrompeva la solitudine selvaggia dei monti. Solo noi, io che cominciavo a perdermi d’animo, bagnato fino alle ossa, cominciando a credere d’essermi smarrito, giacché Fonni non compariva più sul mio cammino, e il povero cavallo che tremava tutto e non poteva più andare innanzi. La neve ingrossava; per ogni passo occorreva un quarto d’ora, e le tenebre si facevano ognora più folte. Mi pentivo di non essermi fermato in un ovile incontrato mezz’ora prima che la neve cominciava e dove il pastore m’aveva invitato a passare la notte, pronosticandomi la vicina bufera e ad un tratto, disperato del tutto, pensai di dar volta e ritornarmene là. Decisi di salire anzi a cavallo, perché m’era impossibile proseguire a piedi, ma siccome l’animale era estenuato più di me, così gravemente carico come si trovava, lo scaricai di tutta quella roba che, mal come potei, misi al sicuro sotto un albero, sperando di ritrovarla l’indomani, lo montai e via!
«Avanti! - dicevo amorevolmente al mio povero cavallino. - Stanotte ci riposiamo laggiù e domani sorgerà un bel sole che ci permetterà di ritornare qui. Ripiglieremo la nostra mercanzia e andremo a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. RACCONTI SARDI
  3. Indice
  4. Intro
  5. DI NOTTE
  6. IL MAGO
  7. ANCORA MAGIE
  8. ROMANZO MINIMO
  9. LA DAMA BIANCA
  10. IN SARTU (Nell’ovile)
  11. IL PADRE
  12. MACCHIETTE
  13. Ringraziamenti