Dimenticando Godot
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Samuel Backett e il Teatro dell'Assurdo

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Samuel Backett e il Teatro dell'Assurdo

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Informazioni sul libro

Ricorre quest'anno (2019) il trentesimo anniversario della morte di Samuel Beckett, il più importante drammaturgo del secondo Novecento. Con la sua opera teatrale d'esordio, Aspettando Godot, Beckett scardinò l'idea di teatro, così come nel primo Novecento uno dei suoi maestri, James Joyce, aveva scardinato la struttura del romanzo. Con questo suo attento, articolato ed esaustivo saggio, Riccardo Roversi indaga Beckett uomo, drammaturgo, narratore e poeta.

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Informazioni

CAPITOLO II. IL TEATRO

Drammi e sceneggiature

Si è detto poco sopra che Samuel Beckett cominciò a scrivere per il teatro dopo il romanzo Mercier e Camier (1946), tuttavia ci sono dei precedenti, sebbene di modesta importanza. Il primissimo lavoro teatrale di Beckett, composto in francese insieme a Georges Pelorson, è Le Kid 23, una parodia del capolavoro di Corneille Le Cid. Lo spettacolo, che intendeva ridicolizzare le convenzioni del teatro classico francese, andò in scena nel febbraio del 1931 al Peacock Theatre di Dublino. Nella parte di Diego recitò anche l’allora venticinquenne autore. Inoltre, nel 1936 Beckett lavorò a lungo alla preparazione di una commedia dal titolo Human Wishes 24 ( Desideri umani), che alludeva alla satira The Vanity of Human Wishes del letterato settecentesco inglese Samuel Johnson, universalmente noto come Dottor Johnson. L’opera non venne però mai portata a termine.
Fra il gennaio e il marzo del 1947 Beckett scrisse, in francese, una commedia in tre atti: Eleuthéria 25. Dopo un fallimentare tentativo di allestimento da parte di Roger Blin, il quale preferì poi optare per Aspettando Godot, l’autore decise che Eleuthéria non venisse né pubblicata né rappresentata. Sulla prima pagina del dattiloscritto originale lo stesso Beckett vi aggiunse la frase prima di Godot. Il dramma tratta degli sforzi compiuti da un uomo allo scopo di sciogliersi dai suoi obblighi familiari e sociali, la scena è divisa in due parti: a destra è l’apatico protagonista disteso su di un letto, a sinistra la famiglia e gli amici discutono il suo caso senza mai rivolgersi a lui. Poi l’azione si sposta dalla sinistra alla destra del palcoscenico e, alla fine, il protagonista raccoglie le energie per liberarsi dalla prigionia delle convenzioni familiari e sociali 26.

Ci sono stati alcuni critici che, data la struttura di Aspettando Godot, hanno sostenuto che Beckett avesse in quest’opera elaborato una griglia espressiva “infinita”, arrogandosi la libertà di deporre la penna in qualsiasi momento. La risposta dell’autore a questa osservazione fu disarmante: «Un atto sarebbe stato troppo poco e tre atti troppo». In effetti i due atti corrispondono a due giorni e, se un singolo giorno potrebbe anche essere irripetibile, due giorni sono per estensione “tutti” i giorni, dunque perché dilungarsi inutilmente nell’arco di tre? La metafora esistenziale è comunque dichiarata, basti pensare a Estragone che a un certo punto sbotta: «Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile». Beckett affermò che non ci furono stesure preliminari di En attendant Godot 27, infatti le correzioni e i ripensamenti sono di modesta entità. La prima pagina del manoscritto porta la data del 9 ottobre 1948 e l’ultima quella del 29 gennaio 1949. Molta parte della critica ha spesso insistito sul fatto che Godot sarebbe Dio, in lingua inglese God, poiché è un nome paragonabile analogicamente ai vezzeggiativi Pierrot (da Pierre) e soprattutto Charlot (da Charles), traendo ulteriore conforto dalla nota ammirazione di Beckett per Chaplin e per le comiche della prima metà del Novecento. Al riguardo l’autore fu come al solito lapidario: «Se Godot fosse Dio l’avrei chiamato così».
La prima celebre messinscena di En attendant Godot ebbe luogo al Théâtre de Babylone nel gennaio del 1953. La regia era di Roger Blin, il quale recitava anche la parte di Pozzo, Estragone e Vladimiro erano interpretati da Pierre Latour e Lucien Raimbourg, Jean Martin impersonava Lucky, l’unico oggetto scenografico era (come da copione) un albero spoglio nel primo atto e coperto di foglie nel secondo. Sull’aspetto fisico dei personaggi l’unica indicazione data dall’autore fu: «Non li vedo, ma portano la bombetta». La critica francese accolse l’opera con grande interesse, su Libération del 7 gennaio 1953 Sylvain Zegel scrisse: «A mio avviso sentiremo parlare a lungo del primo testo teatrale di Beckett, En attendant Godot, che si replica al Théâtre de Babylone. Forse alcuni brontoloni si saranno lamentati del fatto che “è una commedia in cui non capita niente”. [...] o perché, usciti dal teatro, non avranno saputo farne un riassunto, o non avranno saputo spiegare perché avevano riso in modo imbarazzato. [...] Avranno visto dei personaggi che erano felici e che soffrivano, e non avranno capito che stavano guardando nient’altro che la loro vita».
La traduzione inglese, Waiting for Godot, andò in scena per la prima volta a Londra nell’agosto del 1955 all’Ars Theatre Club per la regia di Peter Hall. Commentò Alan Schneider che, in previsione del suo allestimento americano, andò con l’autore a vedere l’edizione londinese per cinque sere consecutive: «In uno dei miei ricordi più belli, vedo ancora Sam [Samuel] che mi stringe di tanto in tanto il braccio e con un sussurro commenta “È tutto sbagliato! Sta facendo tutto nel modo sbagliato!” [...] Tutte le sere, poi, osservavamo attentamente le reazioni del pubblico, una parte del quale immancabilmente lasciava la sala durante lo spettacolo. Ho sempre avuto l’impressione che Sam sarebbe rimasto deluso se almeno alcuni spettatori non se ne fossero andati via» 28. Circa Waiting for Godot, nel Sunday Times del 7 agosto 1955, il critico Harold Hobson osservò: «Cercare di racchiudere il significato [della commedia] in una frase è come cercare di prendere il Leviatano con una retina da farfalle».
La rappresentazione americana di Godot più famosa non è né quella di Miami nel gennaio del 1956 né quella di Brodway nell’aprile dello stesso anno, bensì quella che si svolse nel penitenziario di St Quentin nel 1957. Prima dell’inizio dello spettacolo l’atmosfera era tesissima, dopo poche battute il pubblico dei detenuti era letteralmente conquistato e quando si giunse al monologo di Lucky ci fu una tale ovazione che quasi non fu possibile riprendere la commedia, alla fine la platea era in delirio. Altrove normalmente, dopo le recite, gli intellettuali si barcamenavano in dotti commenti senza senso per camuffare la loro perplessità, quella sera invece i detenuti dissero che sapevano benissimo che cosa fosse l’attesa e che il significato del dramma non poteva essere più chiaro.
Gli spettatori italiani poterono assistere al Godot originale, diretto da Blin, al Piccolo Teatro di Milano nel novembre del 1953, però la prima versione italiana di Aspettando Godot venne presentata dalla Compagnia di Vittorio Caprioli un anno più tardi, per la regia di Luciano Mandolfo al Teatro di via Vittoria in Roma. Caprioli interpretava Pozzo, Marcello Moretti e Claudio Ermelli impersonavano rispettivamente Estragone e Vladimiro, Antonio Pierfederici era Lucky. L’interesse per il testo di Beckett fu così grande da consentire due nuove messinscene nel 1959: la prima diretta da Carlo Quartucci al Teatro Brancaccio di Roma, la seconda diretta da Massimo Scaglione per il Teatro delle Dieci di Torino. La storia successiva degli allestimenti italiani di Aspettando Godot è fittissima, forse meritevole di una specifica e approfondita indagine in merito.
La produzione teatrale permise a Beckett di concretizzare una delle sue astrazioni preferite: l’immobilità del tempo, prova ne sia che Aspettando Godot è la prima opera teatrale che si svolga entro un tempo congelato, una enorme pausa 29. La vicenda è ben nota: “due mendicanti, Vladimiro e Estragone, aspettano in aperta campagna un certo Godot, dal quale sperano di ottenere una vaga sistemazione. I due, non solo non hanno mai visto Godot, ma non sono sicuri né del luogo né del giorno dell’appuntamento. Dopo una lunga attesa arriva Pozzo, un ricco castellano che porta al guinzaglio il suo servitore Lucky. Pozzo si intrattiene per qualche tempo coi due mendicanti e riparte. L’attesa continua fino all’arrivo di un ragazzo con un messaggio di Godot: Godot non verrà più stasera, ma certamente domani. Vladimiro ed Estragone ricominciano ad aspettare. Il secondo atto è quasi identico al primo: l’attesa, l’arrivo di Pozzo e Lucky, l’uno cieco e l’altro stremato, il messaggio del ragazzo: Godot non verrà più stasera ma certamente domani. Il sipario cala su Vladimiro ed Estragone che, immobili, attendono ancora” 30.
Il curioso rapporto “da vecchie zitelle” 31, misto di affetto, abitudine e rimpianti, di Estragone e Vladimiro (che fra di loro si chiamano teneramente con i diminutivi Gogo e Didi), è la prima cosa che affascina lo spettatore. Essi hanno personalità complementari: Vladimiro è pratico, gli piacciono le cose a cui si abitua, è costante, non sopporta i sogni, ricorda il passato, è principalmente lui che esprime la speranza dell’arrivo di Godot, è infatti lui l’interlocutore del ragazzo che porta i messaggi, è protettivo e altruista; Estragone afferma di essere stato un poeta, si stanca in fretta delle cose, è volubile, sogna spesso, ha la tendenza a dimenticare tutto, rimane scettico su un eventuale arrivo di Godot, anzi a volte ne dimentica perfino il nome, è fragile, un po’ mascalzone e simpatico 32. I due clochards esprimono sovente il desiderio di lasciarsi ma, a causa della loro complementarietà, non possono farlo poiché dipendono l’uno dall’altro. Anche Pozzo e Lucky hanno nature simbiotiche ma la loro amicizia è a un livello più primitivo 33: Pozzo è ricco, sadico, vuole liberarsi di Lucky vendendolo al mercato e nel secondo atto, pur divenuto cieco, costringe ancora Lucky a viaggiare senza una meta precisa; Lucky non possiede nulla, è sottomesso, porta non solo i bagagli di Pozzo ma anche la frusta con la quale questi lo batte, danza e pensa a comando, nel secondo atto è diventato muto e si addormenta continuamente per la stanchezza.
L’attesa, il tempo con il suo assurdo scorrere senza che venga mai rivelata alcuna verità, pongono il problema ontologico dell’essere, l’enigma dell’identità. È significativo che il ragazzo che svolge il ruolo di intermediario fra Godot ed Estragone e Vladimiro non riconosca (da un giorno all’altro) la coppia, negando persino di aver mai visto prima i due clochards. Quando nel secondo atto riappaiono Pozzo e Lucky, Estragone non li riconosce, anzi scambia Pozzo per Godot e lo stesso Pozzo, quando Vladimiro gli chiede se si ricorda del fatto che si erano visti il giorno prima, risponde: «Non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi». Più avanti Vladimiro, saputo che Lucky è muto, incredulo chiede da quando e Pozzo si altera: «( Con ira improvvisa) Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? ( Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte». Strano come a molti critici sia sfuggito il riferimento (oppure l’hanno ignorato perché fin troppo ovvio) alla celeberrima poesia di Quasimodo: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera». È paradossale come ogni singolo momento sia in fondo uguale all’altro e, contemporaneamente, ogni minuscolo attimo di vita sia diverso da quello che lo precede e da quello che seguirà. Comunque, alla fine, “ogni giorno è uguale a un altro e, quando moriamo, potremmo non essere mai esistiti” 34.

La prima stesura, ancora in forma embrionale, di Fin de partie 35 è una breve azione mimica per un solo personaggio dal titolo Mime du reveur. In un frammento successivo, che Beckett chiamò avant Fin de partie, i personaggi sono due. Ma solo circa un lustro più tardi, nel 1955, l’autore cominciò la stesura definitiva dell’opera: un primo dattiloscritto, ritenuto insoddisfacente da Beckett, risale all’aprile del 1956 e un altro, stavolta relativamente appagante, al giugno del medesimo anno. Le differenze fra i due testi sono notevoli, va notato inoltre che la prima versione era suddivisa in due atti, mentre quella definitiva si compone di un atto unico.
Siccome l’autore era in ritardo con la traduzione in inglese di Fin de partie, George Devine, direttore del Royal Court Theatre di Londra, propose alla compagnia francese (capeggiata da Roger Blin e Jean Martin) di rappresentare comunque l’opera, seppure in lingua originale, in “prima” mondiale a Londra. E così avvenne, all’inizio di aprile del 1957. Dopo un paio di settimane di repliche, lo spettacolo si trasferì allo Studio des Champs-Elysées di Parigi. La critica inglese reagì per lo più positivamente, Harold Hobson, nel Sunday Times del 7 aprile 1957, ribadì la sua grande ammirazione per Samuel Beckett: «Beckett è un poeta; e il compito di un poeta non è chiarire, ma suggerire, implicare, usare parole circondate dall’aura dell’associazione, che tendono verso una visione, che scavano dentro un’emozione, al di là dei limiti di una definizione esplicita. [...] Accanto al suo dolore tutte le angosce personali e politiche di un Anouilh, di un Osborne, di un Sartre, sono cose del tutto trascurabili. È senza speranza e senza fede. Ma non senza nobiltà; non senza poesia; non senza l’equilibrio e la bellezza del ritmo». Dal canto suo Roger Blin, anche regista oltre che attore nell’allestimento, riassunse così la sua interpretazione del testo: «Ho la sensazione che Beckett vedesse Finale di partita come un quadro di Mondrian, con delle divisioni molto nette, delle separazioni geometriche, una geometria musicale» 36.
Nel gennaio del 1958 Endgame, la versione in lingua inglese di Fin de partie (si noti che in entrambi i casi il titolo si riferisce alla frase comunemente usata per indicare la parte terminale di una partita a scacchi), andò in scena al Cherry Lane Theatre di New York. In una lettera al regista Alan Schneider, in merito alle immancabili richieste di spiegazioni da parte di critici e giornalisti, l’autore consigliò di «insistere sull’estrema semplicità del tema e della situazione drammatica. Se questo non gli basta, e ovviamente non gli basterà, è comunque molto per noi e non abbiamo delucidazioni da offrire per misteri che sono loro a inventarsi. [...] Se qualcuno vuol farsi venire il mal di testa con i significati reconditi, faccia pure, e si procuri un’aspirina. Hamm come specificato, e Clov come specificato, insieme come specificato, nec tecum nec sine te, in quel posto e in quel mondo: questo è tutto ciò che posso fare».
La prima rappresentazione, in lingua inglese, di Endgame in Inghilterra subì qualche ritardo a causa della censura. Il problema era nato intorno a una battuta ritenuta blasfema, nella quale si definiva Dio un «bastardo», anche se per la verità il censore chiedeva semplicemente di sostituire l’insulto con un altro che non comportasse implicazioni “teologiche”. Nella traduzione italiana di Carlo Fruttero, per Einaudi, il frammento è così riportato: «HAMM Silenzio! In silenzio! Un po’ di contegno! Su, cominciamo. ( Atteggiamento di preghiera. Silenzio. Scoraggiato prima degli altri) Allora? / CLOV ( Riaprendo gli occhi) Zero assoluto. E tu? / HAMM Un buco nell’acqua. ( A Nagg) E tu? / NAGG Aspetta. ( Pausa. Riaprendo gli occhi) Un cavolo! / HAMM Che carogna! Non esiste!». Comunque Beckett fu irremovibile. In conclusione, il nulla osta venne concesso ugualmente e Endgame andò in scena al Royal Court Theatre di Londra alla fine di aprile del 1958.
Fra le messinscene successive, meritano di essere ricordate sia quella con Patrick Magee e Jack MacGowran allo Studio des Champs-Elysées nel febbraio del 1964, sia quella diretta dall’autore in persona per lo Schiller Theater di Berlino nel 1967. Quest’ultimo allestimento riveste una particolare importanza, poiché ha permesso di ricavare nuovi spunti esegetici grazie alle note di regia redatte dallo stesso Beckett, nelle quali egli rivela la struttura del dramma così come lo aveva concepito. Per ciò che riguarda l’Italia, dopo una rappresentazione in lingua francese nell’ambito del Festival della Prosa della Biennale di Venezia al Teatro del Ridotto, Fin de partie andò in scena, con il titolo di Il gioco è alla fine, nel settembre del 1958 al Teatro dei Satiri in Roma per la regia di Andrea Camilleri. A questa seguì la produzione diretta da Aldo Trionfo che, sempre con lo stesso titolo, venne rappresentata al Teatro Gerolamo di Milano nell’ottobre del 1959, con l’interpretazione di Paolo Poli, Teresita Zaffra, Vincenzo Ferro ed Enrico Poggi. Nel corso degli anni sono stati realizzati diversi altri allestimenti italiani di Finale di partita, nessuno dei quali tuttavia si è mai concluso del tutto indenne da critiche più o meno motivate.
Finale di partita è il gioco della vita che si conclude. L’azione drammatica è ulteriormente circoscritta e si svolge in un interno claustrofobico: una stanza spoglia con due alte finestre. Ancora quattro i personaggi, ancora due coppie complementari: Hamm-Clov e Nagg-Nell. Hamm è vecchio, cieco e paralizzato e non può alzarsi dalla sua sedia a rotelle, Clov è il suo servitore e non può stare seduto; Negg e Nell, i genitori di Hamm, sono senza gambe e stanno in due bidoni della spazzatura accanto alla parete. Hamm immagina di essere uno scrittore, in passato ha fatto da padre a Clov, è infantile e trasandato; Clov guarda dalle finestre (una delle quali dà sul mare e l’altra sulla terra), osserva fissamente il muro, è fanatico dell’ordine. I genitori di Hamm, affondati nei loro bidoni, “sono imbecilli grottescamente sentimentali” 37 e altrettanto grottescamente hanno perduto le gambe: in un incidente mentre attraversavano le Ardenne su di una bicicletta a tandem! Il mondo esterno è morto, a causa di una “apocalisse” (ma probabilmente più del “senso” che delle “cose” del mondo), della quale i quattro personaggi sembrano essere gli unici sopravvissuti. Clov vorrebbe lasciare Hamm ma non può farlo, poiché morirebbero entrambi, il primo per carenza di provviste e il secondo per mancanza di assistenza. La fine è imminente per tutti, anche se l’inattesa presenza di un bambino sulla spiaggia, «un procreatore in potenza», sembrerebbe rimettere tutto in discussione.
All’inizio di F...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. DIMENTICANDO GODOT
  3. Indice
  4. Intro
  5. BIOBIBLIOGRAFIA
  6. IL SILENZIO E L’ASSURDO
  7. Note
  8. PARTE PRIMA. Samuel Beckett: Opere
  9. CAPITOLO I. LA PRODUZIONE LETTERARIA
  10. CAPITOLO II. IL TEATRO
  11. Note
  12. PARTE SECONDA. Samuel Beckett: Film
  13. CAPITOLO I. LA GENESI E LE RIPRESE
  14. CAPITOLO II. TEATRO, CINEMA O FILOSOFIA?
  15. Note
  16. DIMENTICANDO GODOT
  17. Note
  18. BIBLIOGRAFIA CRITICA CRONOLOGICA
  19. Ringraziamenti