La schiavitù volontaria
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La schiavitù volontaria

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La schiavitù volontaria

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Questo breve ma coltissimo, raro e prezioso libro francese di epoca rinascimentale esamina con intelligenza e acutezza (e numerosi esempi) la "propensione" degli uomini alla schiavitù volontaria. Nella presente edizione il testo tradotto è stato inoltre prudentemente revisionato per facilitarne la lettura, quantunque molto lievemente, per non snaturare l'originale forma cinquecentesca.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788828375586

DISCORSO DI STEFANO DELLA BOETIE DELLA SCHIAVITÙ VOLONTARIA O IL CONTRA UNO

Servir a più signori è gran follia
Ch’un sol sia il re, ch’un sol signor vi sia [1]

Così disse Ulisse in Omero in una pubblica concione. S’egli altro detto non avesse, se non che: Servire a più signori è gran follia: avrebbe detto a meraviglia bene. Ma in vece di dire, come per parlare ragionevolmente avrebbe dovuto, che la signoria di molti non può esser buona, da che anche l’impero d’un solo, tosto che acquista il titolo di signoria, diventa immantinente irragionevole e ferreo, egli volle anzi soggiungere tutto al rovescio. Ch’un sol sia il re, ch’un sol signor vi sia.
Pur tuttavia può per avventura Ulisse essere in ciò degno di scusa, perché eragli forse mestieri allora di usare un tal linguaggio per servirsene ad acchetare qualche ribellione dell’esercito laonde io suppongo la di lui sentenza più conforme alla circostanza del tempo, che alla verità. Ma ragionando da senno è massima sventura l’essere sottoposto ad un padrone, il quale non v’è chi possa in conto alcuno assicurarsi, ch’ei, sia per esser buono, restando sempre in di lui balia l’essere malvagio quando il voglia. L’aver poi più d’un Padrone è quanto dire essere altrettante volte estremamente sventurato quanti Padroni s’hanno a servire. Non intendo io già di agitare per ora cotesta questione già tanto discussa; cioè se le altre maniere di Repubbliche sono migliori della monarchia. Che se pur mi risolvessi di venirne a siffatta discussione, pria di mettere in problema qual luogo tra le Repubbliche occupar debba la monarchia, vorrei sapere s’ella vene debbe aver alcuno di sorta. Imperocché egli è molto malagevole il credere, che possa esservi qualche cosa di pubblico in un governo, dove il tutto appartiene ad un solo. Ma una tale questione ce la riserbiamo a miglior tempo, e sarebbe ben degna ella sola d’un trattato particolare, o piuttosto strascinerebbe seco tutte le politiche dispute. Io bramerei soltanto di sapere per ora s’egli è possibile, e in qual modo può accadere, che tanti uomini, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un solo tiranno, che non ha alcun’altra autorità fuori di quella che gli vien conferita né altro potere di nuocere, se non in proporzione di quanta volontà hanno eglino di tollerarlo: che in fine non potrebbe lor fare alcun male, se non allorché essi preferiscono di soffrire piuttosto, che di contraddirgli. Gran cosa per verità (e pure sì ordinaria, ch’è forza di tanto più dolersene, e di meno meravigliarsene) di vedere un milione di milioni d’uomini servire miserabilmente sottoponendo il collo al giogo, non già costrettivi da una forza superiore, ma sembrando in certa maniera incantati, ed ammaliati al solo nome di uno, del quale non avrebbero in conto alcuno a temer la possanza, essendo solo, né ad amare le qualità, essendo egli a loro riguardo barbaro, ed inumano. Tal è la debolezza di noi altri uomini, che spesso è necessità d’obbedire alla forza, fa d’uopo allora di temporeggiare, giacché non si può sempre essere il più forte. Per la qual cosa una Nazione è costretta talvolta dalla forza della guerra d’obbedire ad un solo, come la Città d’Atene ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi, ch’ella serva, ma compiangere un sì funesto caso; o piuttosto non dovrassi né stupirsene, né dolersene; ma soffrire una tanta calamità con pazienza, riserbandosi ad una miglior sorte in avvenire. La nostra natura è sì fatta, che i comuni doveri dell’amicizia n’involano una buona porzione del corso della nostra vita. È ragionevolissimo di amar la virtù, di pregiare le grandi gesta, di riconoscere d’onde il bene ci è provenuto, ed anche di scemare spesso i nostri propri comodi, per accrescere l’onore, e gli agi di colui, che si ama, e che lo merita. Per la qual cosa adunque se gli abitanti d’un paese hanno trovato qualche grand’uomo, che abbia loro con prove dimostrata una grande provvidenza per la loro conservazione, un gran valore per difendergli, una grande diligenza nel governargli, se d’allora in poi essi si addomesticano ad obbedirgli, ed a fidarsene tanto di accordargli qualche superiorità, io non saprei ben dire, se in ciò la facessero da saggi, poiché si verrebbe a toglier colui da quel luogo, ove faceva il bene, per collocarlo in un altro ove potrebbe far male; ma certamente non potrebbe negarsi che non fosse indizio d’una certa bontà di cuore il non temere del male da colui, dal quale non hassi ricevuto se non del bene.
Ma, oh potentissimo Iddio ! Che mai può esser questo? Come diremo noi, che ciò si appelli? Quale sventura è cotesta? Anzi qual vizio di vedere un numero infinito d’uomini non già obbedire, ma servire, non già essere governati, ma tiranneggiati, senz’aver più a loro disposizione né beni, né figli, né parenti, né la loro vita medesima? Soffrire i saccheggi, le libidini, le crudeltà non già d’un’annata, non d’un barbaro campo, contra li quali avrebbesi a cimentare per difendersi il sangue, e la vita, ma d’un uomo solo; non già d’un Ercole, né d’un Sansone; ma di un solo omicciattolo, per lo più fra tutta la Nazione il più codardo, ed effeminato: non già assuefatto alla polvere delle battaglie, ma soltanto, ed anche a mala pena all’arena de’ tornei: non già da tanto da comandare agli uomini per la forza, ma tutto occupato a servire vilmente la minima femminuccia. Chiameremo noi ciò virtù? Diremo noi, che coloro che servono siano pusillanimi, e codardi? Se uno, se due, se tre non difendonsi da un solo ben strana cosa, ma pure possibile: avrassi allora buon dritto di dire che ciò accade per mancanza di coraggio. Ma se cento, se mille tollerano l’ingiuria d’un solo, non avrassi già, ch’è per codardia, che non vogliono, né ardiscono di attaccarlo, ma piuttosto per dispregio, e per disdegno? Se si vedono poi non già cento, non già mille uomini, ma cento provincie, ma mille città, ma un milione d’uomini astenersi di assalire un solo, di cui il meglio trattato ne ritrae schiavitù, e servaggio, qual nome daremo mai ad una sì fatta cosa? È ella viltà di cuore? Ma ogni vizio ha naturalmente un limite oltre il quale non può passare. Due, ed anche dieci possono paventare d’un solo: ma mille, ma un milione, ma mille città se non difendonsi da un sol uomo non è sicuramente codardia: ella non giunge fino ad un tal segno; al pari del valore, che non estendesi fino a fare, che un solo dia la scalata a una fortezza, assalga un’intera armata, e conquisti un regno. Qual mostro di vizio dunque mai cotesto, che neppur merita il titolo di codardia; che non trova un nome bastantemente vile, che la natura nega d’aver prodotto, e la lingua schifa di nominare? Pongansi cinquanta mila uomini armati da un canto, ed altrettanti a rincontro a questi dall’altro, si schierino in battaglia, vengano ad attaccarsi gli uni liberi, combattendo per la loro indipendenza, gli altri per spogliarneli; a qual de’ due partiti potrassi con maggiore probabilità prometter la vittoria? Quali di costoro supporrassi, che siano per entrare più vigorosamente nella mischia, quelli che per guiderdone della loro fatica sperano la conservazione della loro libertà, o quelli, che null’altro debbono aspettarsi in ricompensa delle ferite, che vi riceveranno, o vi daranno, se non la schiavitù de’ vinti? I primi hanno sempre avanti agli occhi la felicità della loro vita passata e la speranza d’un egual bene per l’avvenire. Non rammentano tanto ciò, ch’hanno da soffrire nel breve tempo, che dura una battaglia, quanto ciò che converrà soffrire in perpetuo ad essi, a’ loro figliuoli, ed a tutta la loro posterità. I secondi altro non hanno, ché gl’inanimi, se non un leggiero stimolo d’avara cupidigia, che spuntasi immantinente contra il pericolo, e che non può mai eccitare in loro tanto ardore, che non debba necessariamente estinguersi nella minima goccia di sangue, che scorra dalle loro piaghe. Nelle famose battaglie di Milziade, di Temistocle, di Leonida, che già da due mille anni fa furono date, e vivono ciò non ostante ancor fresche oggi giorno ne’ libri, e nella memoria degli uomini, come se seguite fossero l’altr’ieri in Grecia pel bene di lei e per esempio di tutto il mondo, qual cosa credesi mai, che abbia dato ad un così piccolo numero d’uomini non già il potere, ma il coraggio di sostenere la forza di tante navi, che lo stesso mare sentivasene sopraccaricato, e di sbaragliare tante Nazioni, sì numerose, che tutte le greche Squadre non avrebbero potuto, se fosse stato d’uopo, compier il numero de’ Capitani di tutti gli eserciti nemici, se non che sembra, che in quelle gloriose giornate non che le battaglie de’ Greci contra i Persiani, ma fossero state le vittorie della libertà sopra la dominazione, e dell’indipendenza sopra la cupidigia?
Ella è sorprendente cosa l’udire ragionare del valore, che la libertà ispira ne’ cuori di coloro, che la difendono. Ma ciò che avverasi in ogni paese di tutti gli uomini, e in tutt’i giorni, che un uomo solo dilania trenta mila città, e privale della loro libertà, chi crederebbelo se soltanto l’ascoltasse degli altri, e nol vedesse cogli occhi propri? Che sì fatta cosa si vedesse soltanto in estranee, e remote terre, e venisse a noi rapportata, chi non crederebbe piuttosto essere ciò una finzione inventata, che una verità? Più ancora: codesto unico tiranno neppure hassi a combattere, non fa bisogno difendersene, egli è disfatto da se medesimo, purché la Nazione non consenta spontaneamente a servire. Non è mestieri di togliergli qualche cosa, basta di non dargli nulla. Non fa d’uopo, che la Nazione si affann...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. LA SCHIAVITÙ VOLONTARIA
  3. Indice
  4. Intro
  5. Prefazione
  6. DISCORSO DI STEFANO DELLA BOETIE DELLA SCHIAVITÙ VOLONTARIA O IL CONTRA UNO
  7. Ringraziamenti