Eutanasia. L'uccisione pietosa
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Eutanasia. L'uccisione pietosa

Medicina - Morale - Eugenetica

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Eutanasia. L'uccisione pietosa

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L'eutanasia (cosiddetta "buona morte") è il procurare intenzionalmente la morte di qualcuno la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, da una menomazione o una condizione psichica. Ma l'eutanasia può essere moralmente considerata una "uccisione pietosa"? La morale afferma che ogni vita è preziosa, sia pure essa miserabile o inutile. Tuttavia, la vita è sempre un bene?

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788829555598

Il principio della Eutanasia.

Comunque si risolva in Fisiologia e Psicologia il problema soggettivo della “buona morte”, cioè se il morire sia penoso o piacevole (qualcuno ha osato dirlo indifferente), gli Uomini di tutte le razze e nazioni, di tutti i tempi, di tutti i gradi di civiltà, - salvo nelle crudelissime sanzioni di certi loro Codici o Usi penali, che per ironia chiamarono Giustizia! - hanno cercato di rendere l’agonia il meno penosa che fosse possibile; e di fronte alle malattie arrecanti sofferenza fino all’ultimo o più a lungo e senza rimedio, hanno meditato e discusso il quesito se non convenga rendere più sollecita quella fine; talvolta l’hanno affrettata, non tanto materialmente parlando, quanto con la propaganda in pubblico, col desiderio in privato. Si tratta insomma di sapere se sia lecito, cioè morale e giuridico, uccidere i moribondi e i malati inguaribili condannati a patire senza speranza. È questo il lato obiettivo più noto della Eutanasia.
L’Eutanasia ha intanto un primo aspetto: essa è la morte volontariamente scelta da chi è stanco di vivere, ed è la facilitazione del suicidio, che ha avuto presso qualche popolo dell’Antichità la sua legale procedura, o almeno era usanza ammessa e ammirata. Soprattutto ai vecchi, che si sentivano addosso il peso degli anni, questa forma di eutanasia era permessa. Se ne ricordano vari esempi fra popoli ancora semibarbari come i Celti, e fra altri ben più inciviliti come gli Egèi (Mediterranei, Elleni).
Fra i barbari eutanatisti Plinio ci dà contezza degli Iperborei, che “per la salubrità del loro clima vivono a lungo, e più vivrebbero, se annoiati della vecchiezza e della vita, non usassero, dopo buoni e allegri conviti, precipitarsi in mare dall’alto di certe rupi destinate a questo orribile ufficio” ( Buonafede).
Sul disprezzo dei Celti per la vecchiaia e sulla loro facilità di troncarne il decorso col suicidio, abbiamo la testimonianza di Silio Italico, tanto più importante che il Poeta stesso vien citato come esempio di spontanea eutanasia:
“Prodiga gens animae et properare facillima mortem;
Namque ubi transcendit florentes viribus annos,
Impatiens aevi spernit novisse senectam;
Et fati modus in dextra est...”.
Nell’isola di Céos, fra le Cicladi, detta ora Zea, narrano Menandro, Strabone, Eliano e Valerio Massimo, che usassero gli abitanti, giunti oltre ai sessanta anni, avvelenarsi, sia per lasciar più mezzi da vivere agli altri, sia per scansare le debolezze e gli acciacchi dell’età, sia perché riconoscessero di essere ormai divenuti inutili alla patria. È dubbio se il suicidio dei vecchi di Céos fosse imposto da Leggi o non fosse piuttosto una usanza locale, secondo che ritenne il Bayle nel suo famoso “Dizionario”. Sappiamo però che a Marsiglia, città di civiltà mista, fra la Greca e la Romana su di un fondo Celtico, il suicidio era autorizzato purché giustamente motivato. Scrive Valerio Massimo: “Si custodiva pubblicamente in quella città il veleno, il quale si concedeva a coloro che mostrassero di avere buone ragioni di uccidersi ai 600 (DC); ché questo era il numero e il nome del Senato... Era vietato uscir di vita temerariamente, e si prestava un celere passaggio a chi desiderava morire sapientemente” (Lib. II, cap. 6).
Recentemente si è scritto che tali racconti non sono forse veridici, almeno a riguardo di una legislazione apposita (Bouquet); però il loro numero troppo grande, le analogie con quello che usavano fare altri popoli dei loro vecchi, come vedremo, la stessa morte di Socrate avvenuta per suicidio comandato e riproducente un costume penale di antica origine, lasciano credere che quegli autori ripetessero nozioni non soltanto leggendarie, ma tradizionali e storiche.
L’Eutanasia, propriamente detta, e che io chiamerei “uccisione misericordiosa” o “pietosa”, è quella che altri procura a una persona sofferente di infermità ormai incurabile o molto penosa; ed è quella che fu proposta per troncare le agonie troppo prolungate o dolorose. A queste sue finalità fondamentali giustificabili col sentimento, alcuni aggiungono l’accorciamento della vita a chi, o per incoscienza assoluta dipendente da malattia cerebrale ingenita o acquisita, oppure per decrepitezza colma di acciacchi e di patimenti, non abbia mai avuto o più non abbia la capacità di godere dei benefizi della vita e di rendersi utile al consorzio civile, e perciò risulti come un carico o come un oggetto di ripugnanza per la collettività. Finalità, come si vede, di carattere razionale e utilitario. Avremo pertanto da esaminare diversi aspetti della questione, ma lo faremo con la maggior possibile brevità.
Pare impossibile che un accenno di questa compassione per i morenti, e dell’impulso ad abbreviarne le pene, ci venga dalla storia e dalla evoluzione della guerra. Presso tutti i popoli primitivi, forse tra i preistorici Heidelbergensi e Neanderthaliani, certamente presso i selvaggi dell’Australia, dell’Africa, dell’America precolombiana e perfino della post-colombiana, e anche presso molti popoli che fanno parte della Storia classica universale, Egiziani, Caldei, Assiri, Ebrei, Greci, Troiani, Persiani, Romani, Galli, Germani, Goti, Unni, per lunghi secoli i feriti, specialmente fra i vinti, non trovavano mercé; ai loro urli e gemiti di dolore, alle loro suppliche di risparmiarli, alle loro imprecazioni, il vincitore rispondeva massacrandoli spietatamente; che anzi, presso i popoli cannibali non si aveva e non si ha riguardo di adoperare i feriti quale “carne da macello”, portandoli senz’altro davanti al fuoco ed esponendoli con feroce indifferenza a lenta cottura!
Lasciamo incerto il significato psicologico del celebre gesto del “pollice verso”, col quale nei Circhi Romani il gladiatore caduto sull’arena era condannato a immediata morte; nei più degli spettatori e delle spettatrici, avvezzi a quelle carneficine, e perciò poco compassionevoli, avrà prevalso il feroce piacere di vedere come si moriva, ma non è escluso che in certi casi la pietà verso gli agonizzanti spingesse ad esigerne una più sollecita fine. Ma in guerra i Romani facevano pochi prigionieri (o schiavi).
Parrebbe che un certo elementare sentimento di pietà dei vincitori o dei combattenti in genere verso i caduti non ancora spirati, si sia propagato nel Medio-Evo, non tanto per il Cristianesimo, quanto per i principi di generosità di cui faceva pompa la cavalleria feudale; almeno io non ho trovato notizia di uccisioni liberatrici prima dei tempi medievali, e anche allora ben raramente, lasciando nascere il dubbio che l’affrettare la fine dei vinti, mezzo dissanguati e gementi sul terreno della lotta, sia stato dettato il più delle volte dalla cupidigia del bottino sulla loro persona resa così incapace di qualsiasi resistenza.
Nel Medio-Evo si chiamavano “misericordie” certi pugnali a lama corta e in forma di foglia di lauro, oppure sottili e affilatissimi, coi quali nei combattimenti collettivi o nei duelli dei “giudizi di Dio” si minacciava l’avversario abbattuto affinché si arrendesse o chiedesse “mercé”; ma il più spesso li si usava per finirlo, introducendoli per gli interstizi dell’armatura, sotto la gorgiera, quando il vinto era mortalmente ferito e la morte tardava a liberarlo dai suoi patimenti. In fondo, dato l’esito allora quasi sicuramente letale di ferite sia pur non gravi, a motivo delle facili infezioni e delle emorragie, perché sui campi di battaglia o negli agoni non esisteva alcun servizio medico valevole a strappare i soccombenti al loro destino, il nome di quelle armi di uso estremo era ben trovato. Tutti coloro che hanno avuto occasione di attraversare un terreno ove sia avvenuto un combattimento, odono con ribrezzo molti dei morenti chiedere che “per misericordia” li si liberi dalle torture dell’agonia; e presso molti popoli questa è una funzione assunta dai compagni medesimi.
Nelle piccole e grosse bande delle Compagnie di ventura, ai tempi del Trecento e Quattrocento, quali furono descritte dallo storico Cibrario, questa funzione, ma non per pietà, bensì per fini di immediata rapina sui morti, era affidata a malviventi assoldati dai cavalieri stessi sotto il nome pittoresco di “scorticatori”. Non ostante i decantati progressi della nostra “Civiltà”, durante le guerre moderne, qualche volta i soldati inferociti dal contrasto, ebbri di sangue fino alla carneficina, hanno finito sul luogo a colpi di baionetta o di calcio di fucile i nemici soccombenti; lo si è veduto perfino nell’ultima guerra! Ben rare volte l’uccisione dei feriti è compiuta per vera compassione; durante la Guerra Balcanica del 1912 si seppe che alcuni ufficiali Serbi avevano fornito i mezzi per suicidarsi a un loro compagno orribilmente mutilato dai Bulgari. Ma per lo più i moribondi sui campi di battaglia, gemebondi e imbarazzanti, sono accoppati dai saccheggiatori.
Ma venendo alle dottrine con cui si giustifica o si vuole giustificare la Eutanasia nella vita civile e non nella militare, è curioso il notare che essa si è affacciata alla coscienza umana nei maggiori momenti della Civiltà; ne accennarono la teoria parecchi grandi pensatori dell’Antichità, fra cui basta Platone, alcuni non men celebri filosofi del Rinascimento, fra cui Bacone e Moro, e in questi ultimi tempi molti scrittori di vaglia in Letteratura e in Scienza.
Da ricordare, in primo luogo, che nell’India antica, già molto avanti nell’Incivilimento e così impregnata di vitalismo religioso, i malati riconosciuti incurabili venivano condotti sulle rive del Gange, quivi soffocati a mezzo mediante l’introduzione di fango nelle narici, indi gettati nel fiume sacro.
Platone, nel terzo libro della Repubblica, fu il precursore più illustre degli eutanatisti; egli lodava Esculapio di avere proposta la cura delle malattie guaribili, ma gli attribuiva anche la intenzione di abbandonare al loro destino i soggetti radicalmente malsani. Lo Stato, egli diceva, ha bisogno di uomini e di donne robuste, di soldati validi, di madri feconde: è inutile sperperarne le risorse a favore dei deboli, degli infermi, degli inutili e dei dannosi alla propagazione dei migliori. Si è perciò detto che Platone patrocinò il libero suicidio, e anche l’omicidio dei vecchi, deboli e infermi, giacché alla propaganda per l’ autochiria lo portavano i suoi stretti rapporti con le Scuole dei Pitagorici: ma non è esatto. Nel suo IX libro delle Leggi, scriveva “colui essere da condannarsi che si uccide quando non lo faccia per decreto della Città, o stretto da qualche intollerabile e inevitabile caso, o vinto dall’ignominia di povera e misera vita”. Qui solo può contenersi anche la motivazione dei mali fisici, come pur quella del decadimento per decrepitezza: ma l’accenno più esplicito è quello del suicidio penale.
Epicuro, a sua volta, insegnava che “si dee aver cura che la vita non ci dispiaccia, né si deve volere abbandonarla, se pure la Natura o qualche insoffribile caso non ci chiami. E allora si dee meditare se sia più comodo che la morte venga a noi, o che noi andiamo alla morte, poiché certo è male vivere nella necessità, ma non vi è necessità alcuna di vivere in essa; vedendosi palesemente che se la Natura, siccome ha dato un adito solo alla vita, così ce ne ha date molte uscite”. Epicuro però, colto da dolori atrocissimi, lasciò far la Natura e non si uccise, quantunque in conformità della sua dottrina giudicasse che bisognava uccidersi ogni qualvolta la somma dei dolori superasse quella dei piaceri.
Un altro dei più antichi eutanatisti fu in sostanza quel filosofo greco di nome Egesia, ma soprannominato Peisithanatos, cioè il “Persuasor della Morte”, che in Cirene verso il 300 prima di Cristo, dopo avere insegnato essere il piacere il solo bene e il dolore il solo male, riconosceva irraggiungibile la felicità in questo mondo, e perciò predicava che la sola vera saggezza era di rinunciare alla vita. Plutarco narra che spinti dalla sua eloquenza pessimistica, molti suoi ascoltatori si suicidavano, e che Tolomeo fece chiudere quella Scuola così perniciosa allo Stato. Quando si sostituisca la inaccessibilità del piacere perfetto con la intollerabilità del dolore, Egesia Pisitanato viene pur esso a collocarsi fra i vaticinatori dell’odierna Eutanasia.
L’Epoca Romana fu, come ognun sa, contrassegnata da un grande numero di suicidi politici e comandati; e nei classici Latini si trovano chiari accenni alla necessità di procurarsi la morte ogni qualvolta la vita non valesse più la pena di essere vissuta, o per disinganno a riguardo delle sorti della patria, dolore acerbissimo per quegli antichi, o per stanchezza vera e propria del vivere: su di che torneremo.
Ma il diritto di uccidere i sofferenti non fu considerato durante l’Antichità in tutta la sua dipendenza dalle leggi naturali e in connessione con le leggi sociali; bisogna attraversare tutto il Medio Evo, bisogna giungere al poderoso risveglio degli spiriti nei secoli del Rinascimento Occidentale per vedere riapparire il concetto platoniano ed egesiano della morte eliminatrice o liberatrice. Tommaso Moro e Francesco Bacone si fecero allora gli apostoli della eutanasia: nel loro pensiero, l’agonia sarebbe tale spaventevole tormento da giustificarne l’affrettamento, non soltanto libero, ma altresì obbligatorio.
Tommaso Moro ha patrocinato nell’ Utopia (Lib. II, 5) il costume dell’eutanasia. In quel suo paese ideale i magistrati e i sacerdoti saranno incaricati di presentare colle migliori maniere agli incurabili e sofferenti il loro obbligo di andarsene da questo mondo, in quanto essi son divenuti di carico o di insoffribile spettacolo ai sani e robusti: e gli infelici si lasceranno persuadere a morire di fame o ad essere eliminati durante il sonno.
E Francesco Bacone nel 1621 scriveva: “Io reputo che ufficio del medico sia di rendere la salute e di alleviare le sofferenze e i dolori, non solo quando questo sollievo può condurre alla guarigione, ma anche quando può servire a procurare una morte dolce e calma... Al contrario i medici si fanno una specie di scrupolo e di religione di tormentare ancora il malato allorquando la malattia è senza speranza; a mio avviso invece, essi dovrebbero possedere tanta abilità da addolcire colle loro mani le sofferenze e l’agonia della morte”.
La tesi della libertà dell’eutanasia, almeno in astratto, è stata ripresa nel corso del secolo XIX in Europa da parecchi, fra cui il medico francese Billon fin dal 1820, più presso a noi da Lionello Tollemache nel 1873, dal dott. Gregory poco dopo, e più arditamente, appena qualche anno fa, nel 1919, dal professore Binet-Sanglé dell’Istituto Psicologico di Parigi. In Germania, il Munck nel 1887, e l’alienista Paolo Naecke di Lipsia nel 1903, le si sono dichiarati favorevoli. Anche in Inghilterra s’è udita qualche voce di medico non respingere in modo assoluto l’eutanasia; sul più autorevole periodico britannico di Medicina, la “Lancet”, un insigne chirurgo, Direttore di un grande Ospedale di Londra, si chiedeva esitante se le nostre troppo assidue cure verso alcune categorie di infermi in preda a dolori indicibili e fatalmente votati a morte, non siano dovute a un senso errato di carità e umanità. Fra i medici italiani, il professor Ughetti di Catania, brillante scrittore su argomenti vari di Deontologia medica, sembra avere adottate le medesime idee rinnovatrici, o, almeno, esservi propenso.
Ma sono specialmente i poeti, i romanzieri, i pubblicisti, che con più o meno aperta parola ne hanno patrocinata la causa. Il Wells e il Benso in Inghilterra, coi loro romanzi avveniristici Anticipazioni e Il padrone della Terra; Guy de Maupassant nella sua novella L’addormentatrice, e il Binet-Valmer nel romanzo La Creatura in Francia; Edoardo Rod nel racconto La Sacrificata in Svizzera; Maurizio Maeterlink nel suo libro famoso La Morte in Belgio, hanno rivestita di bella forma l’idea dell’omicidio per compassione.
Un valente diplomatico francese, che ha avuto in questi ultimissimi tempi post-bellici incarichi delicatissimi in Oriente e che è anche uno scrittore fornito di non comuni doti letterarie, Maurizio Paléologue, ha introdotto in un suo bel romanzo il personaggio di un medico eutanatista, il “ Dottor Mordac” al quale mette in bocca queste parole: “Quale inganno non è la nostra Terapeutica! Quante teorie e sistemi non dovremo esaurire prima di comprendere che noi non possiamo guarire?... Perché non ci basterebbe l’alleviare le sofferenze dell’uomo, l’abbreviare la sua agonia, l’anestetizzargli le ultime ore, l’agevolargli il passaggio al Niente, a quel Niente che egli tanto paventa, mentre invece lo dovrebbe tanto desiderare?”. E ricordando quell’Egesia cirenaico che persuadeva i suoi uditori a troncare la vita, lo scrittore continua: “Eccola, la vera nostra missione!... Dire al vecchio, all’infermo, al degenerato, il tuo male è incurabile; l’età, la diatesi, l’eredità ti angustiano; tu non puoi ormai che trascinare una esistenza dolorosa, dolorosa per te, repugnante per gli altri: scompari adunque, eccotene i mezzi; ti assicuro la insensibilità perfetta”. - “ Pisithanatos”: qual bel titolo!”.
Tutti questi eutanatisti comprendono benissimo gli ostacoli che tuttora si opporrebbero all’adozione pratica della loro tesi, ma sostengono che è soltanto questione di una riforma nelle idee e nei sentimenti nostri rispetto alla malattia, al dolore e alla morte. Il Binet-Sanglé è il più esplicito: bisogna, egli scrive, riconoscere che è giunta l’ora di far mutare la pubblica opinione in fatto di filantropia male intesa e di umanitarismo eccessivo. Oggidì - così si dice da tutti questi riformatori futuristi - la pietà e la carità si sono trasformate in un sentimentalismo sbagliato; se un allevatore di cavalli strapazzasse i suoi migliori stalloni e le sue più belle giumente per lasciar riposare le rozze, noi lo diremmo pazzo; ebbene, esclama Giulio Régnault, non è quello che facciamo noi uomini lottando contro la inesorabile legge di selezione? Non sarebbe meglio che sopprimessimo tutti i soggetti deboli, fisiologicamente miserabili, i così detti “aborti”? Perché imporre ai sani e robusti un compito di lavoro, reso ancor più arduo per il mantenimento di tanti individui destinati a lasciare imbastardire la razza?
Nella filosofia di Nietzsche questa selezione alla spartana è assunta a regola di condotta in una Società sempre più eletta; il “Superuomo” nascerà tanto più facilmente quando gli avremo tolto dalla ascendenza ogni elemento degenerogeno o minorativo. Anche il grande romanziere Wells descrive la sua Società ultra-civile dell’avvenire preparata ad applicare senza batter ciglio la legge crudele della soppressione dei malformati, dei gracili, degli incompleti. L’usanza spartana del Taigeto tornerebbe in onore, e si rimetterebbe a nuovo il costume antichissimo di eliminare gli inetti, gli inutili, e tutti gli involontari parassiti del corpo sociale. Progresso o ritorno atavico?
Bisogna però rilevare che in Europa, da prima la Giurisprudenza, poi la stessa Medicina ufficiale si sono mostrate, in maggioranza, poco favorevoli all’adozione del principio eutanatistico. In un suo ottimo volume sull’ Omicidio-Suicidio, dove viene incidentalmente toccato il nostro tema, Enrico Ferri, fino dal 1884, rammentava parecchi casi di uccisione pietosa caduti sotto il giudizio di Tribunali e Corti francesi durante la prima metà del secolo scorso, e quasi sempre giudicati severamente. Un solo esempio di indulgenza giudiziaria riguarda quel colonnello Combes che sul campo di battaglia (non è detto quale), diede una pistolettata a un suo commilitone ferito mortalmente e quivi abbandonato, che lo pregava di por termine alle sue sofferenze; il caso viene citato dal giurista Dalloz nel suo celebre “ Répertoire”, in quanto il Tribunale assolse l’impietosito soldato; ma ciò non implica, per le circostanze particolari del fatto, del momento, delle persone, nonché per la competenza giurisdizionale, la accettazione giuridica dell’atto omicida. Sta invece che il Ferri ci dà notizia di altri casi, questa volta di borghesi, ben diversamente giudicati, ma nei quali però alla mente dei magistrati non pare si sia presentato in tutta la sua valorizzazione etico-giuridica il principio attualmente discusso dell’eutanasia. Un caso, del 1815, concerne certa Caterina Lemillier, che aveva procurato il veleno al marito, ridotto a disperazione da malattia incurabile; l’altro, del 1816, relativo a certo Lefloch, che aveva ucciso un amico dietro l’espressa sua richiesta e per sola compassione. La Lemillier aveva, dunque, semplicemente aiutato il suicidio di un infermo, ma venne egualmente punita; il Lefloch fu per giunta ritenuto colpevole di omicidio e condannato a morte.
Non conosco esempi più recenti, nei quali almeno siano intervenuti la Magistratura o il Giurì; forse quella per ragioni puramente giuridiche condannerebbe anche adesso, sebbene in forma più mite; e forse i giurati assolverebbero o concederebbero tutte le attenuanti, o anche opinerebbero in Italia per una “infermità di mente” (secondo l’uso invalso, dopo la promulgazione del nuovo Codice di procedura penale, di ammetterla, pur senza intervento dei periti e per sola suggestione della Difesa!), giacché i così detti giudici popolari si lasciano dominare preferibilmente da motivi sentimentali. Quando l’assoluzione dell’uccisore pietoso diventasse generale, segno sarebbe che la Legislazione al riguardo dovrebbe essere modificata: e si avrebbe il trionfo pratico del principio finora astratto della eutanasia. Ma su questo possibile avvenire del problema tornerò più avanti.
Non meno contraria è generalmente, fino a ora, la Medicina ufficiale, sebbene anche fra i medici la tesi abbia trovato qualche raro propugnatore. Fra i medici francesi, al solito i più chiari e precisi, permangono in vigore le grandi idee umanitarie conservatrici. In questi ultimi anni, dopo che il quesito dell’eutanasia, almeno propinata dal sanitario, si è presentato alla coscienza medica, le si sono dichiarati sfavorevoli, sia in astratto, sia in concreto, il Sicard, il Bouquet, il Guermonprez; anzi, questi, che ha credenze cattoliche, ha dato al suo libro un titolo espressivo di formale condanna...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. EUTANASIA. L’UCCISIONE PIETOSA
  3. Indice
  4. Intro
  5. LA TESI
  6. Il Dolore nella Vita e nella Morte.
  7. Il principio della Eutanasia.
  8. Morte liberatrice.
  9. Morte eliminatrice.
  10. Morte... economa!
  11. La procedura dell’Eutanasia.
  12. L’ANTITESI
  13. La scusante del dolore.
  14. Il terrore dei trapasso.
  15. Il dubbio criterio della “inguaribilità”.
  16. Il presunto criterio della “inutilità”.
  17. Scarso valore psicologico del “consenso”.
  18. Dubbio valore giuridico della “pietà”.
  19. La responsabilità medica.
  20. LA SINTESI
  21. Eutanasia ed Eugenetica.
  22. “Principiis obsta”.
  23. Non demoralizziamoci!
  24. Ringraziamenti