Il libro dei morti
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Il libro dei morti

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Informazioni sul libro

Nei capolavori di Alfredo Panzini, come il romanzo Il libro dei morti, riecheggiano reminiscenze e citazioni storico/letterarie che costituiscono punti nodali della sua scrittura. Ne Il libro dei morti un misterioso G. Giacomo «… in una notte lunata e gelida d'inverno, ottenne di levarsi dal suo sepolcro: sorse e si avviò verso quella che fu la sua casa…». In questa edizione il testo è stato filologicamente normalizzato nella forma.

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Informazioni

CAPITOLO VIII

Quando vide passare presso di sé quella enorme macchina, corrusca di fuliggine, di scintille e di ottoni, che si trascinava dietro il profumo dei campi e dei monti attraversati la notte, provò un sussulto al cuore e come un fremito di cosa nuova e paurosa: quel mostro, opera de l’uomo, gli sembrava aver forza propria e nemica; come il demone della favola che il boscaiolo invocò ne la sua ignoranza e poi vorrebbe mandar via perché lo spaventa e gli ha tolto ogni pace.
Ma quegli risponde: – Tu mi hai voluto, tu mi hai concepito e chiamato!
La macchina s’era fermata, ma non cessava per anche di fremere d’un rombo sordo e impaziente che pareva dire: – Affrettatevi, affrettatevi!
Una guardia gli prese la tessera, la forò; gli aperse lo sportello d’una carrozza e ve lo ribatté con violenza; e il buon uomo ebbe appena tempo di salutare il figliolo, che il treno si era mosso con aneliti e fremiti: poi leggero, sonante, rapidissimo fuggiva divorando il piano, fuggiva con gran disprezzo del sole che lento, immenso s’alzava nel cielo, laggiù dietro i campi brinati.
Già radeva la campagna in piena corsa, quando poté G. Giacomo ravvisare i suoi compagni di viaggio: gente sonnolenta, vestita di strane fogge, che dopo la sosta a la stazione, si erano di nuovo rincantucciati e distesi sotto le grosse loro coperte, come incresciosi della luce viva del giorno.
Si pose a sedere compostamente in un angolo e guardava i lunghi filari delle viti e dei pioppi che, segnando grandi rettangoli del terreno arato per la seminagione, gli giravano in semicerchio vorticosamente e scomparivano.
In fondo si perdevano in una tinta azzurra i colli e le montagne del suo dolce paese; davanti si stendevano terre di un’Italia per lui inesplorata.
Quella macchina che si sentiva ansimare col suo convoglio nero e breve, rimbombava fuggendo dinanzi a le stazioni dei piccoli villaggi e delle borgate, attraversava rotaie con fragore violento e sicuro, si lasciava dietro di sé lunghi traini di merci e gli occhi spalancati dei buoi, sporgenti il muso e le corna fuori de gli sporti dei carrozzoni ove erano stivati. Bombava sui ponti, sibilava strisciando in vicinanza delle stazioni maggiori e vi si arrestava per pochi minuti, come sdegnosa e impaziente di proseguire la sua corsa.
Il nuovo viaggiatore si sentiva, a poco a poco, i pensieri confondersi in un vago assonnamento e come vinto dal piacere di essere trasportato a furia per lande, su per erte, giù per declivi tortuosi, o entro gallerie cupe e sonanti.
Passò la mattina, il meriggio breve: il sole piegava verso occidente.
Gente nuova montò: parlavano nuovi dialetti e quei suoni gli facevano venire in mente il suo paese con gran desiderio.
Verso le tre, l’aria si fece pungente e il sole, sino allora luminoso, cominciò a disparire dietro una cortina di nebbie dense: ma la macchina che s’intravedeva ne le curve, rompeva quelle caligini e vi s’immergeva furente.
Attraverso le brume crescenti appariva un paesaggio nuovo e una campagna coltivata in modo strano: non filari di viti, non colline in lontananza, non olivi cinerei e sacri; ma una pianura uniforme si stendeva a perdita d’occhio e scompariva ne le nebbie. Ogni tanto boscaglie, fiumi d’acqua verdastra e cupa, praterie, su cui filari di giunchi e di pioppi contorti e nani disegnavano figure geometriche smisurate e monotone. Il treno valicava le pianure, echeggiava su i ponti di ferro sospesi su quelle fiumane, faceva tremare le immote fronde dei pini delle boscaglie vicine.
Ogni rumore del giorno era cessato, e per quelle lande si sentiva quasi crescere il silenzio, perché più fragoroso e monotono era il rombo del treno. Non pareva che s’avvicinasse a la città, ma che si sprofondasse entro le tenebre verso spiagge ignote.
– A quest’ora a casa mia diranno le preghiere della sera! – pensò G. Giacomo; e la sua anima si restrinse in un desiderio mite e lacrimoso del suo seggiolone, ne la sua stanza, fra la sua famigliola. Le tenebre montano, ma il lumicino della Madonna arde come un faro e la buona Madre sorride più dolce in quel raccoglimento silenzioso della sera.

Da qualche ora il treno correva ne le tenebre, quando un lontano chiarore nel cielo, poi un attraversar ripetuto di rotaie, un sibilo continuato e lamentoso annunziarono l’avvicinarsi della città immensa. Allora fu ne lo scompartimento un destarsi di sonnolenti, quasi increscioso. Era pur dolce cosa l’essere trascinati così attraverso tutta la notte, lasciare che la macchina seguisse la sua via e dormire intanto, o almeno stare lì assopiti, ritardando l’ora dei nuovi dolori e delle nuove fatiche! Giù le valigie da le reticelle, addosso i pastrani e gli scialli!
Uno scotimento improvviso di piattaforme stridenti a l’urto del treno, un rimbombo sotto una galleria di vetri, in mezzo a una luce scialba che toglieva la vista; e il convoglio s’arrestò quasi di colpo. Si era giunti.
G. Giacomo scese. La macchina era lì a pochi metri davanti, ansimante, fumida di fuliggine, sempre pronta a ripigliare la sua corsa.
La folla dei viaggiatori lo travolse ne la discesa dai vagoni, nel marciapiede d’asfalto sino a la sala d’uscita.
Si trovò sotto una grande tettoia, dinanzi a uno spiazzale, su cui batteva la stessa luce bianca da certi globi immoti in alto, lontani, fra la nebbia. Una fila di omnibus, un incrociarsi di grida aspre dei famigli de gli alberghi, più lungi un’altra fila di carrozzelle coi lumini fiochi, i cavalli curvi, i cocchieri fermi a cassetta: si riempivano di quella fiumana di gente e via di galoppo.
Montò in un omnibus, vi si rassettò in un angolo, e poi si partì con gran fragore su l’acciottolato.
Passavano palazzi superbi, alti di cinque o sei piani, vie ampie, mirabili: e ogni tanto bagliori di quella luce bianca e viva così che si vedeva cadere giù di traverso la nebbia, sottile e continua: su i marciapiedi un luccicare abbagliante di vetrine, due file nere e confuse di gente; accanto, un roteare di carri, un balenare di cocchi gentilizi, un inseguirsi di carrozzelle: uomini, veicoli, tutti in fuga, curvi, sotto le ondate della nebbia gelida e della luce gelida.
L’omnibus si fermò davanti a un albergo. Una porta a vetri, un grosso tappeto per terra, un cameriere in abito nero che gli toglie la valigia e l’accompagna da un signore che sta in un gabbiotto di cristalli a viva luce, davanti uno sportello.
Detto nome e cognome, segue il cameriere su per una scala di marmo bianco, il tappeto rosso, le pareti scialbe: da per tutto manifesti, orari, quadri di fotografie, tabelloni con chiavi, tessere, numeri. Si attraversa un corridoio – una camera è aperta. Il cameriere accende due candele, domanda se il signore ha bisogno di qualche cosa e, avutane risposta che no, augura la buona notte e se ne va.
Era un albergo signorile e la camera non poteva essere migliore – non diceva nulla assolutamente. Molte stanze d’alloggio per lo meno ragionano a la fantasia con quel po’ di sudiciume che i viaggiatori precedenti vi hanno lasciato: spalliere di poltrone unte e consunte, mozziconi di sigari, qualche pettine o giornale dimenticato nel comodino, e altre piccole miserie della nostra immondizia. Quella invece era assolutamente pulita; le poltrone e le sedie coperte di mussola candida, il lavamano di marmo, il letto alto, bene imbottito, le lenzuola fresche, il bottone elettrico, il soppedaneo largo, denso. Però tutti quei mobili parevano arcigni e seccati di dovere servire quell’ospite esotico e mandavano un lezzo di vernice e di roba nuova.
G. Giacomo levò da la sacca un mezzo pollo che gli era rimasto della colazione fatta in treno, una bottiglia di vino, un po’ del suo pane e si mise a mangiare: gli piaceva mangiare di quella roba sua. Il pollo era stato cotto la sera prima della partenza da la sua buona vecchia; aveva cotto anche quattro uova, poi aveva tutto avvoltolato ben bene ne la carta e legato il cartoccio con lo spago; e anche v’era un cartoccetto col sale e un piccolo bicchiere. Mangiò lentamente pensando, e nel pensare si commoveva: il rumore della via giungeva confuso, soffocato dai cortinaggi grevi della finestra; le due candele bruciavano sopra il comò di marmo; gli origlieri del letto formavano una pila incomoda a quell’ospite malinconico.

L’indomani dopo mezzodì andò dal notaio. O povero studio del suo povero babbo, come ci avrebbe sfigurato al paragone! E gli veniva a mente quella stanza a pian terreno, laggiù ne la sua casa deserta, con quei scaffali di legno greggio, rosi dai tarli, il seggiolone di cuoio dove il vecchio era morto. Lì invece era un luccicare di mobili fini, bei scaffali di noce, tavoli foggiati ad arte, tappeti, scrivani molti.
Evidentemente era aspettato, che, appena detto il nome, fa introdotto. Il notaio, uomo ancor giovane, fine ne la parola, nel vestire, nel gesto, lo accolse con molta affabilità.
Certo in quell’ora era oppresso da affari; pure disse aver modo di conferire col nuovo cliente; e ciò fu per più tempo che non avesse immaginato, però che G. Giacomo, per quel po’ di esperienza che aveva fatto col babbo, volle di molte cose sincerarsi; e, benché ne la voce del notaio sentisse già fremere qualche nota d’impazienza, pure ebbe forza di resistere, e volle vedere documenti e di molte questioni avere chiara risposta. In verità era giunto assai inopportuno quel provinciale, e il notaio si domandò poi perché non gli venne di dirgli così pressappoco: – Vede, caro signore, oltre ai suoi affari, ho anche quelli de gli altri: venga in altra ora, domani; oggi non ho tempo.
Ma il vecchio ragionava con parole così pacate, senza timidezza né presunzione, con così schietta urbanità, come uomo parla a uomo, che quel degno signore lo stette ad ascoltare mal suo grado, come colui che era abituato a ben diverso genere di favellare e di porgere.
Inoltre e ne le frasi e ne lo sguardo e nel muoversi era quel non so che di umano che s’impone per dignità, sopravanza al mutarsi dei costumi e farebbe sì che uomini anche di diversi tempi e di lontane nazioni bene si potrebbero intendere fra loro.
Il notaio ne fu vinto e lo fornì di tutti quegli schiarimenti che furono chiesti. Le cose, d’altra parte, erano a buon punto e più liquide che non accada in simili affari di eredità: poche pratiche ancora da sbrigare, due o tre sedute con gli eredi, insomma una settimana di tempo a far molto. E come lo vide alzarsi dal seggiolone e avviarsi verso la porta, lo accomiatò con bel modo; e, come seppe che era nuovo della città e solo, così gli diede il recapito d’un albergo ove egli soleva recarsi per l’asciolvere: gli avrebbe tenuto compagnia e, se il tempo lo avesse concesso, pur gli avrebbe fatto un po’ da cicerone per la città.

Il vecchio uscì e si trovò impigliato in una grande via, in mezzo a molta gente, che era l’ora vagabonda del vermouth e de l’assenzio!
Quel morente sole d’autunno rinfrangeva i vividi raggi su le guglie, su le cupole, su le grandi vetrine e chiamava a passeggiare una folla compatta di gentiluomini e di dame. Andavano lentamente come chi adempie a solenne funzione della vita.
L’acciottolato scintillava sotto la zampa di cavalli frementi, guidati da cocchieri gravi ed eccelsi. Seguivano carrozze sospese a grandi cinghie, lucide di argenti e di raso; e fuori sporgevano mani di microscopica finezza, volti di donna, pallidi come perla, con occhi grandi, capelli, o fulvi come bronzo o neri come ala di corvo. E innanzi a lui e ai fianchi e dietro fluiva un’interminabile fiumana di gente elegante: uomini con pastrani di fogge peregrine, cappelli a tuba, baffi irti, cravatte e goletti smisurati: framezzo donne che vibravano da tutta la persona profumi ebbri di sensualità.
Vestivano tutte pressappoco a una maniera in quella loro abituale manifestazione della moda trionfante: abiti da passeggio corretti, piedi esili, calzati ne le scarpine di capretto lucido, la caviglia ben lineata da la calza di seta nera, cui una freccia d’oro tagliava: sotto, la sottana incontaminata e mirabile di pieghe e di merletti; sopra, la veste guarnita con parsimonia e ben dipinta a la vita; il boa, il cappellino chiuso, le mani serrate entro guanti di camoscio, l’una entro il manicotto, l’altra a rialzarsi la veste.
G. Giacomo non distinse la gentildonna da la cortigiana; ma quella pompa di donne andanti gli s’impresse tristamente a la fantasia come una mostra di carni lussuriose, di forme opime, snaturate e rilevate sotto la pudicizia di quell’andar grave e di quegli esotici indumenti.
E poi tutta quella gente aveva per G. Giacomo l’aspetto d’un non so che d’automatico e d’innaturale: andavano a spasso e non ridevano; e di quel loro gestire forzato, strano; di quelle vesti in cui erano come costretti e rigidi, parevano, a vedere, assai superbi e soddisfatti. Se egli, pensava, avesse parlato loro, non sarebbe stato inteso, né loro lo avrebbero inteso. In verità non avrebbe mutato la sua vita col più ricco e col più felice di quanti erano in quella folla, e l’opprimeva un bisogno di libertà come di levarsi da quella calca, di sorgere dal fondo di quelle vie per quanto magnifiche e dove coloro parevano vivere così bene.

Imbruniva: e allora in alto lo sorprese un balenare di lampo, poi i globi della luce elettrica si accesero diffondendo raggi come di luna. Allora si mosse in cerca d’un albergo dove cenare; ed era sì confuso e smarrito che imboccò nel primo che gli si parò dinanzi.
Era una sala grande, con vetriate altissime, lievemente appannate. Colonne di marmo reggevano il soffitto tutto a stucchi e a dorature. Alcune pareti erano coperte da specchiere che rinfrangevano lo scintillare dei lampadari, del vasellame, delle tovaglie: in uno di quelli specchi vide avanzare timidamente la sua povera figura di vecchio; ma un cameriere fu lesto a levarlo da l’imbarazzo.
Gli tolse il pastrano, gli porse una seggiola presso un tavolino appartato, e postogli innanzi un cumulo di stoviglie, cominciò con rapidità e con fare imperterrito a sfilare una lista di vivande dai nomi più eterocliti che egli avesse udito mai.
G. Giacomo, levando l’occhio in su, oltrepassò lo sparato abbagliante di colui, fissò per un momento quel viso scialbo, e accennando con la mano di cessare, disse: – Mi porti semplicemente una zuppa e un po’ di bollito.
Venne poi un altro cameriere arrecando una bottiglia; l’avvolse in un tovagliolo, lo stappò, ne forbì l’orlo e con molta gravità ne versava il liquore entro una coppa, sottile come velo di cipolla. Poi venne la zuppa in una terrina d’argento, fumante e odorosa.
Egli avrebbe desiderato un semplice brodo, di quello che maturava per lunghe ore nel bel pentolone di coccio presso i ceppi candenti: bel brodo limpido e pieno di stelle. Quella invece era una mistura di un liquido denso e scuro, pieno di vari ingredienti. A ogni modo era buona al palato, ancor che non avvezzo a simili salse, e il vino si lasciava bere; ma non era il suo vino, che profumava di tralcio e di vendemmia.
Quei primi bocconi ingollati, che aveva fame, quel tepore denso che lo ravvolgeva, lo ebbero alquanto confortato e volse l’occhio a l’intorno. Che malinconici commensali! Sedevano impettiti, toccavano appena le vivande con la punta della forchetta e del coltello; gesti e parole parche e misurate.
Anche qui, pensava, gente che mangia e che non ride; e gli veniva a mente la sua tavola a casa sua: le stoviglie capaci, le posate col manico di corno, il pane ferrigno ma saporoso, i bei pollastri a lo spiedo, aulenti di rosmarino, la minestra semplice e molta. Il gatto attendeva immoto, il cane da l’altro lato sbadigliava ingordo. Egli impartiva la benedizione, poi si sedevano e si mangiava ridendo e conversando. Lì invece tutti stavano gravi; e nel trinciar le vivande e ne l’usar le stoviglie adempivano moti così compassati che per lui sarebbe stato un supplizio doversi cibare a quel modo. E poi pensava: perché manipolare le vivande con tante salse e in tante forme? come può fare buon pro un simile mangiare? Forse è per questo che hanno quelle facce pallide e sdegnose.
Quando uscì, la folla turbinava più che mai. Incerto del luogo, montò su d’una vettura e si fece condurre a l’albergo dove aveva posato la sua valigia. La carrozza si mosse rapida, svoltò, attraversò un dedalo di vie con gran fragore di ruote.
Vedeva i palazzi elevarsi altissimi, con terrazze sorrette da cariatidi sporgenti fuor delle tenebre e appena segnato il profilo grottesco da la luce dei fanali. In alto, in una sottile striscia di cielo, pendeva la luna. Ma chi la guardava la bella luna che addormenta le biade e fa i grilli cantare?
Quando fu nel letto e si riebbe dal primo gelo delle coperte umidicce, incrociò le mani sul petto e pregò Dio che lo facesse ritornare a casa sua. Un senso di sgomento l’opprimeva, pensando di trovarsi solo e ignoto in quella metropoli; e quella gente gli pareva d’altra umanità, d’altra fede, di altri tempi. Cento e cento miglia lontano esisteva ancora la sua villetta fra i vigneti e le biade? Quasi gli pareva d’esser stato trasportato in un paese fuori della terra! Finalmente il sonno fece cadere su le palpebre del vecchio la sua polvere d’oro e lo addormentò placidamente.

Il signor notaio fu una cara e gentile persona, che, oltre al suo tempo prezioso impiegato a definire presto gli affari della eredità di G. Giacomo, gli tenne compagnia quasi due ore al giorno, a l’albergo indicato, dopo mezzodì, appunto come aveva promesso.
Mangiava copiosamente e lautamente e si compiaceva di ordinare quelle vivande e quei vini che maggiormente eccitavano le osservazioni del suo modesto compagno. Il quale lo interrompeva sovente, dicendo: – Ma perché, signore, tutti quegli intingoli? ma mangi meno in fretta! È forse perché è sempre agitato? Creda, a la mia età non ci arriva certo! – e somiglianti parole.
Non era privo d’ingegno il signor notaio, ma un ingegno di tal natura che non eccede in dolorose solitudini, ma sa più forse per istinto che per raziocinio, adattarsi ai tempi e a le circostanze, cercando anzi il modo di volgerle a suo profitto: né credente ne scettico, prendeva allegramente la vita; e allora si divertiva a intessere con fare scherzoso o paradossale, la cronaca della città, perché ora lo stupore, ora lo sdegno, ora la pietà si dipingevano con sì viva sollecitudine sul volto del vecchio che era un piacere il proseguire.

Un giorno G. Giacomo pregò assai vivamente il suo nuovo commensale perc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL LIBRO DEI MORTI
  3. Indice
  4. Intro
  5. CAPITOLO I.
  6. CAPITOLO II.
  7. CAPITOLO III.
  8. CAPITOLO IV.
  9. CAPITOLO V.
  10. CAPITOLO VI.
  11. CAPITOLO VII.
  12. CAPITOLO VIII
  13. CAPITOLO IX.
  14. CAPITOLO X.
  15. Ringraziamenti