Viaggio di un ignorante
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Viaggio di un ignorante

Ricetta per ipocondriaci

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Viaggio di un ignorante

Ricetta per ipocondriaci

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Quest'opera è la più ampia, più esilarante nonché l'ultima pubblicata Giovanni Rajberti. Vi si narra di un viaggio a Parigi. Il libro si apre con un elogio all'ignoranza, in cui emerge l'opinione dell'autore su alcune scienze da lui reputate superflue. Si descrive la Francia con tono apparentemente scherzoso: «Fra tante Belle che ho veduto in Parigi, volete sapere quale, a mio giudizio, fosse la più bella? una nostra Milanese, la signora E. Th. nata C., che nel luglio 1855 si trovava là in villeggiatura». In questa edizione il testo è stato prudentemente revisionato e normalizzato.

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Informazioni

VI.

Vi ho detto che l’occupazione mia principale era quella di andare a spasso ora a piedi, ora in omnibus. Oh, se sapeste che sublime scoperta è stata quella dell’omnibus! Bisogna credere che il suo perfezionamento sia opera di molto tempo e di molti uomini, come quello dell’orologio: altrimenti, l’inventore starebbe in linea di celebrità con Archimede, Gutenberg, Newton, Copernico, Galileo e Volta. (Notate bene che quest’ultima parola non significa già volta pagina ma ci fu proprio un conte Volta, famoso per aver inventato la macchina da fare il butirro, come si capisce osservando il di lui monumento marmoreo in una piazza di Como, sua patria. Ebbe anche un figlio parimenti famoso per essere riuscito a ritardare di quattordici o quindici anni la costruzione della strada ferrata da Milano a Como, che doveva chiamarsi Strada Volta, e che poi diventò volta strada.)
Gli abitanti di città non molto vaste né molto popolate né troppo affaccendate (per esempio, Milano) dove l’omnibus è oggetto di non generale né urgente necessità, ma quasi un affare di lusso, se non hanno visitato una grande metropoli, è impossibile che con la propria fantasia si innalzino a tutta l’altezza del concetto omnibus. Da noi, sono pochissimi di numero: servono quasi esclusivamente per condurre o ricondurre dalle strade ferrate: ora sono quasi vuoti, ora vi si insacca dentro la gente fino al pericolo della soffocazione: hanno ronzinacci abilissimi nel fingere il trotto e lasciarsi passare avanti tutti i pedoni: ogni momento fermate e riposi (e fanno benissimo: chi ha fretta, e di che cosa si ha fretta, in Italia?). Sono capaci di consumare un’ora e un quarto dal dazio di Porta Ticinese a quello di Porta Comasina: cosicché a nessuno conviene servirsene per corse in città, anche per l’incertezza delle ore del loro passaggio. E questo si dice non tanto per criticare gli impresari degli omnibus che, poveri diavoli, fanno anche troppo per la miseria degli affari e dei lucri loro, quanto per farvi capire che il vero omnibus non lo potete capire.
Una mattina, sentite questa: io entrava in Milano pel dazio di Porta Comasina; quando fummo al Passetto, l’omnibus si ferma; nessuno vi abbada come a cosa solita; ma dopo qualche minuto, non essendoci persona che esca o che entri, né ostacoli nella strada, si comincia a sussurrare e a chieder conto della fermata: il conduttore era scomparso. Si aspetta, e poi ancora si aspetta, e tutti gridavano: infine si venne a scoprire che essendo mattina di giovedì, il conduttore era entrato in una bottega di lotto affollata a giocare un ternetto. Vi lascio immaginare se la mosca salisse al naso di tutti, e quanto strepitassero. Urlavano al vetturale che andasse avanti, ma costui faceva il sordo. Alcuni si rivolsero a me che tacevo, domandandomi il mio parere. E io risposi: - È così grossa, che la trovo perfino bella: e in quanto a me, vorrei che dopo andasse anche dall’amorosa, che starei qui volentieri ad aspettarlo un’altra mezz’ora: sarebbe più magnifico l’aneddoto da raccontare. Queste parole voltarono la furia in buon umore: e quando finalmente il conduttore ritornò al suo posto con la polizza in mano, nessuno gli dedicò un calcio nel muso, e si riprese allegramente la corsa.
In Parigi gli omnibus servono al bisogno che ha moltissima gente di accorciare le distanze di una immensa città, per i propri affari. Dunque rappresentano la doppia necessità di risparmiare le gambe e di guadagnare il tempo. Perciò sono in numero grande, di molte centinaia: perciò intersecano come rete tutta Parigi, in tutte le direzioni, per tutto il giorno e gran parte della sera: perciò l’itinerario loro è sempre quello, e l’orario dei loro passaggi è sempre l’eguale dovunque, a rigore di minuti. Per ottenere tanta esattezza, il servizio è fatto non da stracchi e mal pasciuti ronzini, ma da robusti cavalli interi, che hanno i loro cambi fissi, e che a stento si frenano nei limiti del buon trotto. Corsieri di Normandia per lo più bianco-grigi, dal forte zoccolo, dal collo arcato, dall’occhio ardente, che vi richiamano alla memoria la quadriga dell’Aurora di Guido.
Le fermate sono brevissime, perché non si ricevono che persone alla portata di entrar subito; e appena salito il gradino, si trotta; perché nel salire, il conduttore vi avverte di afferrar tosto la spranga cilindrica d’ottone che decorre in alto dal principio al fine del veicolo. Fra noi si attende comodamente un podagroso che faccia segno dal fondo della contrada di voler entrare: c poi quando è entrato bisogna aspettare ancora finché adagio adagio sia andato in fondo a sedere: mettendosi in moto prima, lo si manderebbe lungo e disteso addosso agli altri.
Un giorno, trovandomi sulla porta del mio hôtel a ciarlare col portiere, gli domandai come meglio potessi recarmi fino alla Rue du Havre. Egli mi rispose - Ogni dieci minuti passa qui un omnibus che mena colà. - Ogni...? - Ogni dieci minuti: eccolo. Non ho potuto approfittarne perché c’era inalberato il complet; ma questo mi accomodò per la voglia di verificar subito l’asserzione dei dieci minuti. Difatti passarono altri omnibus per diverse destinazioni; ma al punto dei dieci minuti, fu lì quello per me, con una esattezza e una fedeltà non dirò da sposa fedele, ma da stelle, che nei loro giri in cielo sono ancora più fedeli di tutte le spose.
Indovinate adesso i corollari di tanta abbondanza e puntualità di veicoli a così buon mercato? La persona affaccendata in casa, non perde tempo, ma al momento giusto scende nella strada e trova il fatto proprio. La sarta, la modista, il sensale, il maestro di piano-forte, ecc., possono aver pratiche lontane e disparatissime. Il medico può vedere anche ripetutamente in un giorno ammalati a grandi distanze senza il bisogno della costosissima carrozza. L’impiegato si accomoda di casa ove gli è più vantaggioso, anche tre miglia discosto dall’ufficio, dove lo stesso numero di stanze costi 800 franchi meno di annua pigione, perché è tranquillo nella certezza che ogni giorno a ogni ora con 30 centesimi si reca al telonio, e con altri 30 ne ritorna, senza contare il piacere delle allegre trottate, feconde spesso di comici aneddotini. Insomma, con questi mezzi la sterminata Parigi ha il talento di stringersi tutta quanta e impiccolirsi di due terzi per chiunque abbia bisogno di percorrerla molto e in fretta.
L’organizzazione del servizio degli omnibus riesce complicata al punto da costituire una scienza, della quale basta conoscere alcuni elementi per giugner tosto alle più vaste applicazioni pratiche. Gli abituati ne sanno il ramo spettante al loro quartiere: trovandosi poi in quartieri lontani, assumono tosto le indicazioni relative al sistema di corse colà in vigore. Per esempio, io sono pressato dal tempo, e trovo il complet sull’omnibus che mi abbisogna? Passo a una contrada vicina dove ne colgo tosto un altro: o anche entro in un omnibus che corra in direzione opposta perché so che dopo 200 passi si arresta a un bureau de correspondence, dove i veicoli s’intersecano e si scambiano fra loro gli avventori, ecc. Per non sapere io nulla di queste cose, mi accadde nei primi giorni il seguente fatto. Ma no: aspettate un momento. A sfogo, non fosse altro, della mia ammirazione, ho bisogno di parlare ancora un poco di questo tema. L’omnibus ha sempre lo stesso itinerario, andata e ritorno, e non altro mai: comincia da un bureau de correspondence, e a un altro finisce. Chiunque voglia, per soli 30 centesimi, può utilizzare non solamente tutta una andata d’omnibus che dura circa mezz’ora, ma anche di buona porzione d’una corsa precedente d’altro omnibus; sempreché entrando nel primo, all’atto di pagare il conduttore, ne ritiri il riscontro di correspondence. Arrivato al bureau (che è una bottega al servizio dell’impresa), entra e scambia il riscontro col biglietto regolare di continuazione. Allora, o c’è immediatamente l’omnibus per la vostra destinazione e ve ne andate: o tutt’al più l’attendete per pochi minuti, e consegnate al nuovo conduttore il biglietto per pagamento. Tutti gli omnibus sono muniti d’un campanello al quale corrisponde una macchina, che è come un orologio chiuso a chiave, o marcatore del numero degli avventori. Ogni volta che entrano persone il conduttore dà tanti colpi di campanello quante esse sono: il che rende impossibile qualsisia frode in faccia a tanti testimoni. Alla sera poi, finite le corse, nell’ultimo bureau si apre la macchinetta, si riconosce il numero totale degli avventori: e il conduttore paga in ragione di 30 centesimi per testa, parte in denaro, parte in biglietti di corrispondenza.
Ma, replico, la storia degli omnibus è una complicata scienza che io appena intravidi a lampi, lontanissimo allora dal pensare che mi sarebbe venuto il ticchio di darvene adesso notizia. Dunque, se mi spiego in modo confuso e pieno di omissioni importanti, vi prego di correre a Parigi a completare le mie idee, a rettificarle, a prepararmi gli errata-corrige, e io ve ne sarò infinitamente obbligato.
Ogni omnibus ha un numero fisso di piazze o di stalli, divisi da spranghe di ferro che ne formano altrettante poltroncine: perciò non v’è mai occasione a diverbi sopra il largo o lo stretto, o sullo starcene di più o di meno. Quando il numero è compiuto, il conduttore innalza il complet: e allora, a nessuno e per nessun bisogno non viene mai nella mente di voler salire, perché non si riceverebbe nemmeno il papa. Per carità, raccontatelo a quei nostri birboni che dalle stazioni delle strade ferrate sono capaci di stivare a forza 24 persone negli omnibus per 16, addossando le une alle altre, e lasciandone alcune in piedi curve e rattrappite a minacciar di cascare addosso a tutti, ogni qualvolta il moto s’arresta o ricomincia.
Unica eccezione a questa regola indeclinabile è l’omnibus monstre, di divertimento, capace perfino di 100 persone, perché là ve n’entrano finché ne può capire, anche in piedi su tutti i gradini. Ne ho veduti almeno quattro, e sono specie di casette a tre piani, portate da ruote poggianti su raili: strade ferrate parallele che incominciano alla piazza della Concordia e vi menano fino a Saint-Cloud. Due cavalli bastano, e pare che basterebbe uno solo, tanto camminano speditamente. Finita l’andata, l’enorme cocchio (che sta agli altri come l’elefante al somarello) non si volta; ma se ne leva il timone e lo si attacca al di dietro che pel ritorno diventa il davanti. Nell’estate del 1855 credo fosse questa una novità, tanta era la furia del popolo nel salire quelle baracche, e tanto lo schiamazzare durante le corse.
Per finire in qualche modo questo schizzo incompletissimo, aggiungerò che nei giorni festivi, quando tutto il mondo è in giro, gli omnibus se non si raddoppiano di numero, si raddoppiano di capacità, adoperandosi quelli a due piani, con altrettante piazze al di sopra e allo scoperto, quante sono quelle coperte al di sotto. A onta di ciò riescono ancora scarsi, e è appunto in quei giorni che a certe ore accadono remore, difficoltà e piccoli affollamenti ai bureaux de correspondence per attendere il proprio turno. Difatti, una sera di domenica io mi trovava all’estremità dei Boulevards, vicino alla Maddalena... che non è, vedete, né una servotta, né una servetta, né tampoco una padrona; ma una gran chiesa. La folla era immensa: e qui colgo l’occasione per dire che è difficile il farsi una idea adeguata dei colpi d’occhio che dà la gran capitale quando tutti sono a passeggio, anche senza un motivo che li chiami piuttosto qua che colà: perché allora poi c’è grave pericolo di schiacciamenti e massacri orribili, come avvenne alcune volte. Si impiegano un paio d’ore a far due miglia, tanto si procede adagio, per essere stivati come quando la moltitudine esce da un teatro. Siete nei Campi Elisi? vi pare che tutta Parigi sia là. Girate per la Rue Rivoli, o pei portici del Palais Royal? credete che il meglio della città convenga tutto fra quelle parti. Dei Boulevards non vi parlo: là, oltre alla folla sterminata sui marciapiedi, larghi come buone contrade, c’è nella larghissima strada la folla incredibile dei veicoli grandi e piccoli, pubblici e privati che sommano a non so quante dozzine di migliaia, e che corrono e s’intersecano con mirabile destrezza in tutti i sensi. Allora, il passare da un marciapiedi all’altro diventa una operazione seria, difficile, da cogliersi a istanti sfuggevolissimi: perché bisogna essere tutto occhi e tutto gambe per non farsi disfare.
In una delle migliori Guide, stampata nel 1855, è scritto che a poter mettere avvicinati l’uno dopo l’altro tutti i veicoli che possiede Parigi coi loro rispettivi cavalli, terrebbero la lunghezza di leghe 75. Calcolo un pochettino alla Balbi, ma che dà l’idea d’una grande idea. Lo stesso libro dice che la popolazione stabile di Parigi è di 1.200.000. Aggiungete la popolazione avventizia dei forestieri, che suole oscillare abitualmente tra i 100 e i 200.000: e fate conto che Roma, Bologna, Firenze, Livorno, Genova, Torino, Milano e Venezia non arrivano a dare tutte insieme la sola popolazione stabile di Parigi. Ora pensate che diavolìo indescrivibile debbano essere quelle folle. Ma io ho detto poco. È difficile indovinare cosa diventerà quella capitale con le strade ferrate, e soprattutto a quali incredibili aumenti possa arrivare la sua popolazione avventizia. Bisogna immaginarsi che Parigi sia come un gran ragno che con le sue lunghe e molteplici zampe (le strade ferrate) va a toccare i confini della Francia tutt’all’ingiro. Figuratevi quale inferno di gente le si può versare addosso rapidamente in certe straordinarie occasioni, come nel settembre 1855, quando vi andò la regina Vittoria. Allora si videro tante mila persone passar la notte negli omnibus e nelle carrozze, perché Parigi voltata tutta in hôtels non aveva più letti a dar loro: e scappavano via a miriadi, perché Parigi tutta voltata in osterie non aveva né spazio né tempo per dar loro a desinare. Insomma, Parigi è sempre un grandioso spettacolo a sé stessa e molte volte è uno spettacolo pauroso e tremendo.
Dunque, in quella domenica a sera... A proposito lasciatemi dire quattro parole su Parigi di sera: mi spiccio in un minuto, e poi vi racconto subito quel bell’esempio che vi ho promesso. Parigi, vedete, meriterebbe cento pagine per ognuna delle sue fasi o trasformazioni. C’è Parigi dell’estate, Parigi dell’inverno, Parigi della neve, Parigi della pioggia, ecc. (Quest’ultima è la più incomoda di tutte perché basta un quarto d’ora d’acqua a ritornarla in Lutezia, o città del fango: una poltiglia che minaccia di farvi cadere ogni momento, che vi rovina gli abiti, che vi si incolla fino sulle ossa. Ora sperano di rimediare a questo inconveniente macadamizzando tutte le strade: cioè pavimentandole con un durissimo intonaco inventato dall’ingegnere scozzese Mac-Adams. Però, dalle prove che ho vedute sui boulevards, mi pare che il fango si generi ancora: ma credo che la grande operazione continuerà, perché, dicono i maligni, lo scopo principale ne è di sostituire il macadams ai pezzi quadrati di pietra onde è tutta selciata Parigi: e questi si porteranno via, affinché il buon popolo in certi accessi di esuberante vivacità non possa più svellerli e servirsene per barricate.)
Parigi di giorno, è bella e allegra quando splende il sole: ma il sole è oramai cosa tanto comune e volgare, che ne possediamo uno perfino noi poveri Lombardi: anzi, oso dire che il nostro sia più lucido e infuocato di quello là: solamente ha il difetto di essere alquanto più dormiglioso e poltrone; tanto è ciò vero, che si alza più tardi alla mattina, e si corica più presto al dopo pranzo, che quello di Parigi: dove ho verificato io la cosa cogli occhi miei, nel mese di luglio. Se poi nell’inverno si diporti egualmente o con metodo inverso, non lo so: perché in quella stagione sto sempre a Monza. Ma un tale che se n’intende assai di queste cose, perché fa i conti al cielo coll’abbaco, mi assicurò che in paesi lontani lontani girano soli stravagantissimi. Taluno scotta tutta la gente, e le fa diventar negra la pelle: tal altro la lascia crepare dal freddo: e ve n’ha di quelli capaci perfino di far sempre giorno anche nelle ore di notte per molti mesi: e poi per altrettanti mesi fanno sempre notte anche di giorno: oh che stramberie! Dunque non lamentiamoci del nostro, che tra i soli è dei più galantuomini e regolati. Ma Parigi di sera, oh! è veramente la città più illuminata del mondo. Che importa a lei della visibilità delle stelle, o delle fasi della luna? Parigi splende, brilla, sfavilla per virtù propria: e più il cielo è nero, meglio cresce la prepotenza della luce artificiale. Noi Milanesi crediamo conoscere la luce a gas, perché l’azienda pubblica e la speculazione privata ne danno quanto basta per vederci male. Eh, via! andate a Parigi se volete ammirarla a effetti centuplicati. Quelle piazze, quei passages, quegli stradoni diritti e lunghi come tiri da cannone sono spettacoli indescrivibili. Oltre alla illuminazione pubblica, ogni bottega fa a gara per abbarbagliarvi la vista con cento fiaccole raddoppiate da specchi o da lastre metalliche. Negozi d’orefici, d’argentieri, di chincaglieri, di orologiai, di cristallerie, ecc.; caffè, birrerie, ecc.; magazzini di stoffe, di tappeti, di mobilie, di ninnoli, e d’ogni oggetto di lusso, vanno tutti a fiamme. I passages (sono contrade coperte di vetro, come la Galleria De-Cristoforis, e ve ne hanno tante! e molte dopo un tratto si biforcano, e poi si suddividono ancora e si anastomizzano, quasi labirinti: fate conto che siano come alberi da spalliera sdraiati per terra) i passages, che in buona parte sono un po’ tetri di giorno perché loro manca il sole, se ne vendicano la sera che è il loro trionfo, quando attirano la folla a quella serie di elegantissime botteghe coi più stupendi giochi di luce rutilante.
Bisogna mettersi di sera (parlo in estate) nel mezzo della piazza della Concordia, e guardare il gran viale che mena all’Arco dell’Étoile, lungo due miglia. L’infinito numero di lampade a gas; le migliaia di carrozze che ritornano dalla trottata al Bois de Boulogne, tutte coi fanali accesi, e che corrono parallelamente a sei, a otto, a dieci; le mille baracche illuminate fra le piante dei Campi Elisi, circhi, caffè-teatri, ingressi a balli pubblici, ecc.; tutto ciò dà un complesso di sensazioni indefinibili. Al confronto, diventano puerilità anche le famose illuminazioni per S. Gennaro a Napoli, da me vedute quando andai là nel 1845 a fare il dotto da Congressi scientifici (misericordia!). Si resta per un’ora estatici, e quasi imbecilliti, concludendo che è uno spettacolo féerique: parola che non si può adeguatamente tradurre, perché fu inventata dai Parigini per la sola Parigi. In quanto a questo però, anche Milano ha le sue parole intraducibili, perché significano cose di suo monopolio quasi esclusivo; per esempio: el risott col cervellaa.
Ma finiamola una volta con queste digressioni che potrebbero andare all’infinito, e veniamo all’aneddotino. Dunque, quella tal sera di domenica, come vi diceva, io mi trovava alla Maddalena. Ero stracco come un asino o, per dir meglio, ero un asino molto stracco. Ma in cambio d’aver voglia d’andare a casa a dormire, aveva quella di fare una buona trottata a buon mercato. C’era lì a fianco un bureau de correspondence che mi rinvigoriva tal desiderio. Ogni minuto o due arrivavano omnibus pieni di dentro e di sopra; e si vuotavano, e si ricaricavano, e via! Io che non aveva scopo in quanto alla direzione, aspettava solo che una qualunque baracca avesse una piazza disponibile, per occuparla: cosa difficile perché c’era tanta gente che attendeva e faceva coda per tutte le direzioni che si proclamavano. (Del fare la coda parlerò altrove; sempre inteso, se me ne ricorderò.) Quando a un tratto, forse per distrazione di chi doveva occuparlo, vedo un posto vuoto; e già era dato il fischio della partenza: e io, salto dentro, e si va.
Reso certo di mantenermi sul cuscino, esclamai con tanto di polmoni larghi: Ah, très bien: j’y suis! e per la contentezza mi venne in bocca una tale parlantina francese, che attaccai ciarle con tutti i vicini: cosa insolita, perché io sono molto laconico, in francese: e, senza necessità, non fo mai torto alla lingua nativa. Più si andava, e più me ne consolava: e guarda di qua, e guarda di là, per esaminar parti tutte per me nuove di Parigi, che nella sua vastità ha sempre parti sconosciute anche dai vecchi suoi cittadini. E pensava, fregandomi le mani: Arrivati al fine della corsa, io non discendo nemmeno: ma pago altri 30 centesimi, e ritorno alla Maddalena. (Sì, eh? me lo saprai dire a momenti, bestia infelice.)
Tutt’insieme la trottata fu di una buona mezz’ora, passando verso la fine per contrade man mano più deserte e taciturne. All’ultimo, si giunse a un gran cancello di ferro che ho capito essere una Barriera. E là c’era un bureau de correspondence con circa duecento persone che attendevano coi loro biglietti. La corsa era al termine, e si doveva discendere: e io che era entrato per l’ultimo, mi trovava al posto da discendere pel primo. Ma fedele al mio programma, stetti fermo, e solo mi rattrappii un poco nei ginocchi per lasciar passare gli altri meno incomodamente: i quali passando mi guardavano tutti con una cera, come se volessero dire: - Perché mai questo imbecille in cambio d’uscire sta qui a fare ingombro?
Quando fui solo, e già accalcata la gente intorno ai gradini per entrare (nessuno entra se non sono discesi tutti), il conduttore mi invitò a uscir tosto. - Non: je reste ici pour rebrousser chemin. - E la gente a gridare: A bas, vite, à bas! Allora io mi levai in piedi per arringare quel popolo irragionevole: ma non ottenni la parola. A bas, à bas, à bas! Lo credereste? urlavano à bas perfino coloro che non ci avevano alcun interesse, perché erano discesi per non più rientrare. Già, la vile moltitudine è sempre fatta così: grida per contagio, per aiutare a far baccano, anche senza sapere il motivo, nella speranza di godere una scena. Ma io per castigarli non ho voluto farcela godere: e siccome indovinai che, se avessi tardato due minuti secondi, mi avrebbero tirato giù per i piedi; io, spontaneamente, e per pura compiacenza a quel desiderio generale, discesi, tutto ilare in volto, ma bestemmiando come un turco, e maledicendo quella canaglia con ogni sorta di jurons... però in dialetto milanese.
Né state a pensare che io lo facessi per paura: oibò! era solo per non lasciarmi capire. Difatti, sarebbe stato conveniente che un par mio si mostrasse così male educato in faccia a quella plebaglia? Ma scopro in questo momento la più bella ragione di quel mio modo di operare. Gran filosofo che sono io, senza saperlo! Per legge di natura, quando si bestemmia, lo si fa non solo nella lingua della propria nazione, ma nel vernacolo speciale del proprio paese. Le parolacce e gli improperi essendo proprietà dell’energica plebe, stanno di preferenza nei dialetti che possiedono una tavolozza più ricca e calda che non le lingue illustri. Studiando una lingua straniera, non se ne impara mai il saporito sugo delle frasi vituperose, che anche là sta in fondo ai parlari specifici del poetico volgo. Un Milanese che sia a Londra da quarant’anni fini...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. VIAGGIO DI UN IGNORANTE
  3. Indice
  4. Intro
  5. PREFAZIONE
  6. IL VIAGGIO DI UN IGNORANTE
  7. I.
  8. II.
  9. III.
  10. IV.
  11. V.
  12. VI.
  13. VII.
  14. VIII.
  15. IX.
  16. X.
  17. XI.
  18. XII.
  19. XIII.
  20. XIV.
  21. XV.
  22. Ringraziamenti