Come foglie nel vento
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Come foglie nel vento

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Come foglie nel vento

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Informazioni sul libro

È l'aprile del 1945, Johnny Costanza è un capitano delle truppe di liberazione che opera nel territorio di Agordo. Ad Alleghe, dove il capitano è ospitato con i suoi soldati, conosce Margherita. La ragazza è giovane, ha la freschezza dei diciassette anni e il profumo dei fiori di montagna. Il capitano si sente attratto e la corteggia, finché Margherita cede alle sue attenzioni: i due giovani arrivano così ad amarsi tra i fiori dell'alpeggio. Le operazioni conclusive della guerra e della pace procedono fino a riportare alla fine il Capitano a casa, a Buffalo USA), la sua città natale, dove peraltro un'altra donna è rimasta ad aspettarlo. Un solo biglietto a Margherita e poi il silenzio. Margherita lo romperà soltanto per avvisare il capitano della nascita di "sua figlia Giovanna". Prende così l'abbrivio il filo del racconto, che si srotola alternativamente in un gioco d'interfacce, dove si susseguono le vicende della famiglia italiana e di quella americana. Con la consueta capacità narrativa, l'Autore tratteggia un viaggio che si snoda lungo mezzo secolo di Storia, dagli anni Quaranta al nuovo Millennio, e percorre un itinerario che abbraccia due diversi Paesi, l'Italia e gli USA. Separati tra loro dalla vastità dell'oceano, nella contingenza della narrazione sono fatalmente resi vicini dal sottile gioco dei destini umani, coi quali pare che "… il vento di marzo, il vento della vita " si diverta a giocare.

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Informazioni

PARTE SECONDA

Figli

15. Maggio 1966 – Treviso

Non aveva alcuna fretta d’arrivare al negozio. Del resto, come al solito, Giovanna era in anticipo. S’appoggiò al muro della chiesa e chiuse gli occhi, lasciando che il sole della bella mattinata di maggio le accarezzasse il viso. Voleva godersi fino all’ultimo istante il tepore di quella prima giornata veramente primaverile. Fino al giorno avanti infatti era stato tutto un susseguirsi di temporali e di repentini cambiamenti del tempo, che non avevano fatto di certo avvertire l’avanzare della stagione. Ma adesso pareva che le cose avessero preso una piega ben diversa.
“Ciao, Giovanna. Oggi non vai al lavoro? Hai deciso di prendere la tintarella?”. La voce a lei cara di Corrado a un tratto la distolse dal suo momento magico. Benché il ragazzo le piacesse un mondo, in quel momento l’avrebbe strozzato.
“Sono in anticipo, perciò me la sto prendendo comoda. Hai qualcosa in contrario?” gli rispose la giovane piuttosto seccata, tornando a chiudere gli occhi.
“Non te la prendere, dai. Però se continui a camminare a occhi chiusi va a finire che ti ritrovi all’ospedale. Vieni piuttosto, che ti offro un caffè”.
Giovanna accettò di buon grado. Sapeva bene che a Treviso non era come al suo paese. Ad Agordo se una ragazza si fosse fatta vedere al bar di primo mattino avrebbe dato il via a un sacco di chiacchiere. In città invece era diverso, nessuno a certe cose ci faceva caso. E poi a lei quello che si diceva sul suo conto non le importava un fico secco. L’aveva sempre pensata così, fin da quando era una ragazzina e aveva iniziato a uscire con le amiche. Sua madre del resto le aveva insegnato a rendere conto di sé soltanto a sé stessa, e così s’era sempre comportata.
Erano numerosi gli avventori, per lo più gente che faceva colazione prima di recarsi al lavoro. Era una consuetudine quella che da qualche tempo a questa parte in città stava prendendo piede, non come faceva lei, che ancora si preparava la colazione a casa con una tazzona di caffelatte e pane, come le aveva insegnato sua madre. Anche da quel punto di vista le differenze con Agordo erano evidenti. Al suo paese a quell’ora nel locale ci sarebbero stati i soliti avventori, quelli abituali, coloro che non avevano niente da fare e che tra un calicino di bianco e l’altro s’industriavano a far venire mezzogiorno.
Il barista salutò con cordialità i due giovani, continuando ad armeggiare attorno alla macchina sbuffante del caffè espresso, senza troppo distrarsi dal lavoro.
“Due macchiati, Antonio, per favore” ordinò Corrado, mentre prendeva il giornale per sfogliare rapidamente le ultime novità della cronaca locale.
“Hai letto? Domenica ci sarà la Festa del patrono a San Crispino. Vuoi venire con me e mia sorella? Potremmo restare fuori a mangiare. Cosa ne dici?”.
“Ci debbo pensare. L’idea non mi dispiace affatto, comunque te lo farò sapere”.
“Va bene, appena hai deciso fammi uno squillo, così mi posso regolare”.
Bevuto il caffè, i due giovani salutarono e uscirono. Adesso per entrambi era venuto il momento di recarsi al lavoro, lei nell’elegante negozio di tessuti dove faceva la commessa, e lui nello studio del geometra Parisi, due piani più sopra dello stesso palazzo, dove il giovane diplomato svolgeva il tirocinio.

La piccola borgata pareva straripare di gente. La festa di San Crispino del resto era molto frequentata, sia da giovani che da quelli d’una certa età. In quell’occasione ci si dava convegno nel piccolo paese, a pochi chilometri dalla città, in primo luogo per partecipare alla funzione religiosa che immancabilmente si concludeva con la processione al Santuario, posto subito fuori dell’abitato, su di un’altura. E poi per fare una scorpacciata di ottima salsiccia. Per la festa del Santo infatti era tradizione che le donne del luogo cucinassero polenta e luganega per tutti gli intervenuti. I grandi paioli fumanti li si potevano incontrare a ogni angolo di strada, ed era lì, attorno a banchetti improvvisati, che, al termine della processione, si dava appuntamento la gente venuta da fuori, dalla città e dai paesi dei dintorni, per gustare quella che era considerata una specialità locale.
Giovanna e Corrado avevano partecipato alla processione, e ora, in fila con gli altri, erano in attesa che venisse il loro turno per essere serviti. Silvana, la sorella di Corrado, con la quale erano venuti stipati nella vecchia “Topolino” del giovane, li aveva lasciati quasi subito per aggregarsi ad alcune amiche incontrate sul posto. Con quelle sarebbe ritornata, loro facessero pure senza preoccuparsi per lei. Lì per lì Giovanna non aveva potuto fare a meno di pensare che quel diversivo fosse stato programmato, per fare in modo che loro due restassero da soli. Comunque fossero andate le cose, quell’imprevisto non le era dispiaciuto affatto. Perciò s’era guardata bene dal sollevare obiezioni.
Mangiarono polenta e luganeghe, bevvero alcuni bicchieri di merlot, poi i due giovani s’avviarono per una breve passeggiata fuori del paese, ripercorrendo lo stradello in salita, adesso quasi del tutto deserto, che portava al Santuario, lo stesso che in processione avevano percorso al mattino.
Arrivati sul sagrato, Giovanna andò a sedersi sul muretto, sotto il quale s’apriva l’ampia vallata. Corrado la raggiunse e le si sedette accanto. Non c’era anima viva nei dintorni. Si sentiva il suono di un’orchestrina venire di lontano.
“Senti? Sono arrivati i suonatori, Adesso si balla fino a notte avanzata. Vuoi che scendiamo?” propose Corrado.
“Perché? Si sta così bene quassù, Senti che pace. Non c’è nessuna fretta”.
Il giovane le s’avvicinò e le prese una mano fra le sue. Lei non si tirò indietro. Così quando lui si sporse per baciarla, lei lo lasciò fare. In fondo era quello che aspettava.


16. Aprile 1968 – Treviso

Pareva proprio che il bambino non volesse venire. Non c’era verso che Giovanna restasse incinta. S’erano sposati, lei e Corrado, il novembre successivo la famosa festa di San Crispino, quella che per loro aveva rappresentato l’occasione galeotta della vita, eppure, dopo più di un anno dal matrimonio, ancora non era successo niente.
Ogni mese era una sofferenza. Per giorni la tensione in casa la si poteva palpare, nell’attesa che succedesse qualche cosa. Ma poi subentrava lo sconforto. Ogni mese era la stessa storia, una vera sofferenza. Finché Corrado, stanco di quel clima impossibile, e soprattutto non più disposto a tollerare l’ansia della moglie e i sensi di colpa inesistenti che andava creandosi, non s’arrabbiò di brutto.
“Adesso basta! Adesso per favore la pianti! Non possiamo vivere in quest’inferno, nell’attesa di qualcosa che non vuole venire. Se resterai incinta tanto meglio, altrimenti pazienza. Ci siamo capiti?”.
Il tono con cui Corrado s’era rivolto alla moglie quella sera non ammetteva repliche. Giovanna dovette riconoscere che il marito aveva ragione, e da quel momento in poi il clima in casa si fece più respirabile. Anche la suocera fece chiaramente intendere d’essere d’accordo col ragazzo. Aveva fatto bene a prendere di petto la questione.
Dopo la tragica scomparsa di Toni, una volta superata la fase delle indagini che inevitabilmente le avevano sconvolto l’esistenza, senza peraltro portare da nessuna parte, Margherita s’era imposta di non mollare. Ce l’aveva messa tutta per far fronte alla situazione in cui s’era trovata, in particolare per tenere in piedi la baracca. In effetti era riuscita nell’intento: in fabbrica ogni cosa procedeva come prima, la Cordevole Corami pareva non aver risentito più di tanto della scomparsa del suo titolare.
Anche le banche, che in un primo momento s’erano fatte guardinghe, già pronte a richiedere il rientro dei prestiti a suo tempo fatti, in breve avevano dovuto riconoscere che la donna ci sapeva fare, e che stava sostituendo egregiamente il marito scomparso. Margherita, benché sola, mostrava di cavarsela benissimo, e l’azienda ben presto aveva ripreso a prosperare.
Quando Giovanna aveva deciso d’uscire di casa e andarsene ad abitare in città, Margherita ne aveva sofferto non poco. Per lei era stato un boccone amaro da mandare giù. D’accordo, le restava Matteo da crescere, il che non era poco, considerate le intemperanze che il ragazzo mostrava, con la sua mania di fare politica. Come il padre, diceva lui.
Ma Giovanna, il frutto del suo primo amore, la figlia prediletta, se ne andava a vivere lontano, e questo fatto aveva creato in Margherita un grande vuoto dentro. Se ne andava lontano, la sua Giovanna, come a suo tempo aveva fatto lei. Questo del resto era un pensiero ricorrente, che veniva ad attenuare, almeno in parte, il magone che si portava dentro.
Ma nel caso suo quella decisione era stata costretta a prenderla, date le circostanze. Erano tempi quelli in cui una ragazza madre in un ambiente piccolo come Alleghe, il suo paese fra i monti, non aveva scampo. Per Giovanna invece il discorso era diverso: nel suo caso nessuno si sarebbe mai sognato d’allontanarla da casa. Era stata una scelta che la ragazza aveva fatto di propria volontà, senza essere in alcun modo costretta da qualcuno, o da qualcosa.
Per fortuna Treviso, la città scelta da Giovanna dove andare ad abitare, non era in capo al mondo. In un’oretta ci s’arrivava comodamente. Adesso poi, da quando Margherita aveva cambiato auto, acquistando una comoda Giulietta che le consentiva di spostarsi da una località all’altra con rapidità, come del resto il suo lavoro richiedeva, una scusa per fare una capatina a casa della figlia la trovava assai spesso.
Se ne guardava bene comunque dall’essere invadente. I due giovani sposi dovevano essere lasciati in pace, ad affrontare da soli i loro problemi. Sapeva bene come Giovanna soffrisse per il fatto che il figlio tanto desiderato si faceva aspettare. Sua figlia ne aveva fatto quasi una malattia, ragione per cui voleva starle accanto il più possibile, nonostante la distanza che le separava.
E bene aveva fatto suo genero a fare quella specie di scenata, l’unica del resto da quando erano sposati, che pareva avere dato qualche frutto. Giovanna mostrava d’aver capito che avanti di quel passo avrebbe finito col mettere in crisi il suo rapporto con Corrado.
“Sì, hai ragione. Bisogna che mi dia una calmata. Però se entro l’anno non succede niente, andremo entrambi a farci vedere da qualche specialista. Sei d’accordo?”. Corrado aveva acconsentito.

Niente lezioni, quella mattina! Il Collettivo si doveva riunire per discutere di cose importanti. Matteo s’aggirava per i corridoi affollati della scuola “okkupata”, sbracciandosi e urlando nel megafono per stimolare i compagni a partecipare numerosi. Ma con quelle teste di cavolo c’era ben poco da sperare! Erano stati tutti contenti quando loro avevano proclamato un giorno di lotta, perché così voleva dire saltare le lezioni. Ma quanto a partecipazione, erano ben pochi coloro che mostravano un qualche interesse. Accanto a lui Diego e Sandro si davano da fare per distribuire i volantini ciclostilati nella notte, ma erano sempre troppo pochi quelli che lo leggevano con un qualche interesse.
Alle nove e mezzo finalmente si poté dare il via all’assemblea. Nella vasta aula di disegno delle scuole superiori di Agordo saranno stati non più d’una cinquantina, i ragazzi presenti, per la maggior parte quelli delle prime classi che avevano aderito più per curiosità che per altro.
Matteo prese la parola per primo, per illustrare i punti all’ordine del giorno e per presentare il compagno Carlo, quello venuto appositamente da Padova “per sensibilizzare la provincia”, come ebbe a esordire, venendo subito sonoramente fischiato dagli astanti. Una frase così infelice se la poteva anche risparmiare, pensò fra sé Matteo, mentre cercava di ristabilire l’ordine.
Si sarebbe dovuto parlare del programma scolastico, della mensa, e naturalmente del “sei politico” da estorcere ai professori per tutti gli studenti. Ma già dopo neppure una mezz’ora l’assemblea aveva perduto ogni parvenza di democratico confronto, trasformandosi in una specie di rissa collettiva, al momento per lo meno soltanto verbale.
Quelli di terza erano andati giù pesante, accusando loro del Collettivo di fare il gioco di qualche oscura forza reazionaria. A Sandro erano saltati i nervi. Invece di rispondere per le rime, era passato subito agli insulti. Poi s’era abbottonato l’eskimo e se n’era andato, lasciando i compagni a cavarsela da soli.
Fatto sta che dopo un paio d’ore erano ancora là a insultarsi a vicenda e a sbraitare, senza che per nessuno degli argomenti all’ordine del giorno si fosse arrivati a una qualche conclusione. L’assemblea in breve s’era come sgonfiata da sola, giacché poco per volta ciascuno s’era preso su e se n’era andato per i fatti suoi, tanto che alla fine Matteo e i suoi compagni s’erano ritrovati soli nella grande aula per il resto vuota.
Seduti sulle scale ora deserte, fra mucchi di cartacce e cicche di sigarette gettate a terra, Matteo e i suoi compagni si sentivano frustrati, mentre senza convinzione mangiucchiavano qualche spicchio d’una pizza fredda e dura. L’atmosfera che li circondava era desolante. L’ okkupazione, che avrebbe dovuto essere il segno tangibile del loro impegno politico, il fiore all’occhiello della loro attività rivoluzionaria, in realtà s’era conclusa in un penoso fallimento. Nessuno, o quasi, li aveva seguiti. Bisognava prendere atto che ad Agordo il movimento era inconsistente.
Matteo, che i compagni consideravano il loro capo, si sentiva direttamente responsabile di quanto era accaduto. La ferita gli bruciava, anche perché la gestione fallimentare dell’intera operazione s’era svolta sotto gli occhi di Carlo, l’uomo mandato appositamente dai collettivi di Padova per rendersi conto di quale fosse la situazione in provincia.
Quando l’assemblea s’era conclusa, o per meglio dire quando s’era miseramente sgonfiata perché tutti se n’erano andati per i fatti loro, Carlo non aveva fatto commenti. Ma prima d’andarsene, s’era rivolto a Matteo e con un tono freddo della voce gli aveva dato un consiglio, che in un certo senso aveva l’aria di un ordine.
“Sarà bene, compagno, che quanto prima tu venga per qualche giorno in città. Hai bisogno di stare un po’ con noi, per farti le ossa. L’indirizzo lo conosci. Quando avrai deciso, mettiti in contatto con chi sai tu”. Poi, senza altre parole se n’era andato per fare ritorno in città.
E per andare a riferire a chi di dovere della loro inconsistenza rivoluzionaria. Era questo il motivo per cui ancora adesso Matteo si sentiva il fuoco dentro, che non la smetteva di bruciare.

Fosse stato per la salutare sgridata di Corrado, o perché le cose così dovevano andare, fatto sì è che di lì a un paio di mesi Giovanna si ritrovò incinta. Quando quella sera riferì la tanto sospirata notizia al marito, entrambi si misero a piangere come due fontane. Soltanto adesso la loro vita di giovani sposi pareva prendere la direzione giusta. Giovanna finalmente si sentiva realizzata.


17. Aprile 68 – Buffalo (New York)

Davanti la vecchia chiesa cattolica di Sant’Antonio fin dalle prime ore del mattino era andato formandosi un assembramento di persone, che poco per volta s’era trasformato in una vera e propria folla la quale ben presto aveva iniziato a manifestare il proprio dissenso. Naturalmente era con la guerra del Vietnam che la gente ce l’aveva, o per meglio dire con il presidente Johnson e con il suo staff di guerrafondai che parevano ostinarsi a commettere un errore dopo l’altro.
Adesso però sembrava che le cose avessero preso una piega ben diversa. Il Presidente finalmente s’era deciso a dare il benservito a quel buono a nulla del generale Westmoreland, che in tanti anni di guerra non aveva saputo fare altro che buscarle di santa ragione, nonostante la disponibilità sempre crescente di uomini e di mezzi che il Paese gli aveva fornito. Ma quel che più contava, era che da qualche tempo a questa parte finalmente s’era iniziato a parlare di pace.
Pareva proprio che questa fosse la volta buona. Lo stesso Presidente aveva riconosciuto le sue non poche responsabilità, e in una recente comparsa televisiva aveva dichiarato di non volersi ricandidare alle prossime elezioni di novembre.
Questo era il momento per la gente benpensante di far sentire la propria voce, alta e chiara come non mai. Bisognava farla finita una volta per tutte con quell’assurda avventura militare che non faceva altro che inviare giovani americani a farsi accoppare lontano da casa, per andare a ficcare il naso negli affari di un popolo che già aveva fatto le sue scelte.
Da anni manifestazioni come quella si ripetevano con puntualità in tutti gli States, prendendo corpo all’improvviso, spesso senza che dietro si potesse scorgere una qualche mente organizzatrice. Negli ultimi tempi s’erano fatte assai frequenti, come se la gente avesse capito che ormai era venuto il momento di farsi sentire, di dire sul serio.
La folla che quella mattina tacitamente s’era data appuntamento davanti alla Cattedrale era costituita per lo più di giovani, studenti delle superiori per la maggior parte, ma anche operai dei cantieri navali e impiegati. Ben presto avevano costituito una specie di lungo corteo e s’erano incamminati verso il palazzo della Contea.
Freddy Costanza naturalmente era fra i primi, come al solito del resto, alla testa del gruppo degli studenti. I suoi compagni ormai lo consideravano un leader. Nonostante la giovane età, già da alcuni anni era fra i primi quando c’era da manifestare il proprio dissenso. Contro la guerra del Vietnam in primo luogo, com’era naturale, ma anche contro qualsiasi altra cosa.
Il dissenso per il giovane era una regola di vita, un modo di essere. Soltanto con lo zio John pareva trovare una via d’accordo. Con tutti gli altri, in particolare con sua madre Mary Belle, qualsiasi cosa dicessero era un motivo per avviare uno scontro. Un ragazzo difficile insomma, da non sapere come prendere.
L’unica era la dolce Jenny, che riusciva a parlargli e a farsi ascoltare. Jenny era una biondina dall’aria trasognata, che andava in giro con lunghe vesti a fiori che arrivavano a lambirle i piedi, spesso scalzi, e con un cappello di paglia a larghe tese come un contadino del Kentucky, che fumava erba quasi fosse una cura contro la tosse, una specie di ricostituente. Quella mattina i due giovani marciavano l’uno accanto all’altra, lanciando slogan collaudati e tenendosi per mano.
Davanti al palazzo della Contea trovarono ad attenderli un nutrito stuolo di poliziotti, in pieno assetto antisom...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. COME FOGLIE NEL VENTO
  3. Indice
  4. Intro
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. Ringraziamenti