Malombra
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La protagonista indiscussa di questo grande romanzo d'amore e follia è la giovane, oscuramente affascinante Marina Crusnelli di Malombra, ospitata dallo zio, il conte Cesare d'Ormengo, in una magnifica villa sul Lago di Como. Venuta in possesso di un autografo dell'antenata Cecilia, apparentemente portata alla morte dal marito, padre dell'attuale conte, si convince di esserne la reincarnazione e di avere l'obbligo di vendicarne l'assassinio...

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788833460543
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
PARTE IV
Malombra
I. Lo so, lo so, egli è qui ancora
Silla arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di... Il mattino era caldo e ventoso. Le vette dei grandi abeti che nereggiavano lì presso in un giardino, i nitidi profili de’ monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori salivano sul treno, aspettati, salutati da’ loro conoscenti. In tutti i vagoni si chiacchierava, si rideva, si vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato via quegli strepiti con il soffio leonino, parve a Silla, nel silenzio vôto della strada, esser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva immaginato, partendo in ferrovia di notte, che chiudesse inesorabilmente gli sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il treno già lontano, bramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della stazione c’era il giovinotto dell’altra volta con la sua cavallina.
“To’” diss’egli quando vide Silla “è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzo, non è vero, signore?”
“Sei qui per me, tu?”
“È quello che vorrei sapere anch’io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposi, là del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte più. E poi, ieri sera, io dormiva pacifico come un “tre lire”, mica ubbriaco, vede! È l’acqua che mi mette sonno a me. Basta. Si sente un maledetto “toc-toc”, la donna (ce l’ho ancora quell’impiastro) la va ad aprire; cosa l’è, l’è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, vuoto, alle 10. Trovarmi vuoto a quest’ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicché...”
“Basta, basta. E il conte come sta?”
“Sta bene.”
“Come! Non è ammalato?”
“L’ho visto io l’altro giorno. Era un po’ giù, un po’ vecchio, un po’ brutto, un po’ gobbo, che so io! un po’ mezzo andato, ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.”
“Cosa t’hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?”
“M’han detto niente del tutto. C’era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto “piglia!” a quest’altra maniera qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.”
Intanto s’eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.
Il vetturino non poteva tacere a lungo.
“Ah” diss’egli “l’altra sera era bello trovarsi al Palazzo!”
“Perché?”
“Perché la signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la era di sposarsi l’altra sera e poi, lo so io! han come cambiato. Insomma l’altra sera ci fu una casa del diavolo.”
Egli continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminarie, i fuochi, le musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vita, voce, passione; gridava “ti amo; vieni!”. Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente ammalato, o no? Se non era ammalato, perché gli sposi non erano più partiti? La sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quando, in mezzo a dubbi d›ogni sorta, gli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettagli, la immagine del Palazzo, del giardino, del lago, quali li avrebbe veduti fra due ore, fra un›ora e tre quarti, fra un›ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosa, pensava chi avrebbe veduto prima, quali parole avrebbe udite, come si sarebbe comportato con lei. E se il conte non avesse nulla, se fosse un inganno! Ad ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano più forte. Tratto tratto ne balzava fuori, rinnovando il proposito di andar ciecamente, a coscienza muta, là dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le passioni sue libere, oh sì, libere finalmente dopo tante stolte lotte inutili che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella striscia bianca, nitida innanzi a lui, fumante di polvere alle sue spalle; era una furiosa corrente che non risale, una corrente da seguire oramai nel piacere e nel dolore sino a qualunque abisso, tanto più avidamente bramato quanto più profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lì, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini, inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
“Dica un po’ Lei, signore” saltò il vetturino “è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?”
“Non lo so.”
“Ma lo conosce, però, Lei?”
“No.”
“Vedo. Io l’ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev’essere un... Che pazzia, un fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!”
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di case, l’ultima borgata sulla via del Palazzo.
Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un’osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito “calamaio e inchiostro”.
“E così” disse l’ostessa che venne a servirlo “è morto, eh?”
“Chi è morto?”.
“To’, il signore, là del Palazzo.”
“Chi l’ha detto!” esclamò Silla, pallido.
“L’uomo della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L’hanno mica incontrato?”
“Andiamo, presto!” disse Silla.
“Andiamo pure” rispose il vetturino rendendo il bicchiere all’ostessa “ma se è andato avanti lui, per me non gli corro dietro.”
“Presto, ti dico!”
L’altro si strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
“Morto!” disse tra sé Silla. “E io che non ci pensavo nemmeno, a lui!”
Si rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoista, e gli riempì il cuore una dolorosa tenerezza per l’intemerato amico della madre sua, per il vecchio severo che gli aveva aperto le braccia in nome d’una memoria santa. Egli lo aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera ricevutane subito dopo, a Milano. Non ne provava rimorso,...

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  1. PARTE I
  2. PARTE II
  3. PARTE III
  4. PARTE IV