Una Peccatrice
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Una Peccatrice

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Il romanzo trae ispirazione da un'esperienza autobiografica e narra la storia di un'intensa passione vissuta tra Pietro Brusio e Narcisa Valderi. L'uomo, attratto dalla trasgressione, conquista la donna, liberandola dal suo matrimonio, e si afferma come uno scrittore di grande successo, affrontando persino un duello per difenderla. La colpa diventa il filo conduttore che unisce i protagonisti. Il tema del matrimonio e dell'adulterio non si limita a essere una trasgressione o una conferma dei valori tradizionali, ma assume una sfumatura più complessa. La dualità della figura femminile nell'immaginario letterario di quell'epoca, costantemente associata all'eros, inizia a dissolversi. Adesso è l'uomo a peccare di fatto, mentre Narcisa raggiunge la sua catarsi senza ricorrere al suicidio.
Una peccatrice è un romanzo che va oltre il sentimento romantico, abbracciando un nuovo ideale di passione amorosa che dominava in quegli anni. La storia rappresenta il conflitto eterno tra il cuore irrazionale e la razionalità pratica. Pietro fa una scelta diversa, essendo figlio di una miseria morale, diventa un eroe passivo e opportunista che anticipa il protagonista inetto dei romanzi del Novecento.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788833461915
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
VIII
Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa.
Catania, *** Agosto 186*
Amico mio,
apro oggi soltanto le lettere che mi son pervenute da due mesi per la posta, delle quali alcune tue e di mia madre sono vecchie da più di 70 giorni. Povera madre! che avrà pensato di me?!... Eppure se ella avesse potuto conoscere la felicità del figlio suo, se sapesse i godimenti immensi dei quali mi sono inebbriato, ella sarebbe lieta, quella buona madre, del lungo silenzio del figlio, che le proverebbe ch’egli ha dimenticato tutto onde vivere soltanto per questa vita di cui un’ora vale un secolo, per immergersi tutto in questo sogno febbricitante, in cui i brividi del piacere sono sì potenti da farlo riscuotere gemendo come di spasimo.
Raimondo, se, 15 mesi fa, quando seguitavamo quella sconosciuta, della quale cominciavo a subire il fascino inenarrabile, tu mi avessi detto: «costei, per uno di quei miracoli che provano Dio, avrà una parola, una sola parola per te»... io non avrei osato lusingarmi di questa speranza... io avrei temuto di carezzarla. Ed ora, nel momento in cui ti scrivo, questa donna, che di tutto ciò ch’è leggiadro s’è fatto un corteggio splendido, questa donna che ha il sorriso ammaliatore, gli sguardi inebbrianti col loro raggio pacato, le promesse più affascinanti nel suo voluttuoso abbandono, questa donna mi ama!... me l’ha detto colle sue labbra posate sulle mie!... Questa donna io l’ho posseduta; io la possiedo!... È mia!... Quel cuore del quale mi spaventavo a scandagliare i misteri reconditi, come se gl’immensi tesori d’amore che vi si racchiudono avessero dovuto annegarmi nei loro diletti sovrumani, quella vita ch’è tutta un fremito di voluttà, io l’ho sentito palpitare fra le mie braccia... Essa è vissuta sotto il mio tetto; ha passeggiato al mio braccio; ...e le sue labbra hanno chiuso i miei occhi la sera, per riaprirmeli l’indomani!... Io ho baciato quei capelli, quella fronte, quegli occhi, quelle labbra; io mi son cullata quella testolina sui miei ginocchi, ed ho passato le intiere notti fantasticando cogli occhi fissi in quegli occhi, a leggervi tale amore che mai uomo in terra conoscerà.
Raimondo, sai tu cos’è questa donna?... È l’amore con tutti i suoi palpiti più arcani e misteriosi; è la voluttà con tutti i suoi sussulti più ardenti; è il delirio con tutti i suoi sogni più febbrili. Io non arriverò mai a farti immaginare qual fremito di piacere si provi quando quella mano da fata, colle sue unghie rosee, colle sue dita affilate, colla sua pelle rasata e candida si posa sulla fronte; e quando quegli occhi fanno passare nei miei baleni di quest’amore che al primo urto scintillano come il cozzo di due spade, e che inebbriano come un veleno.
Questa donna che vivea pei piaceri, della quale il lusso era il bisogno come l’aria è il bisogno dell’uomo, questa donna non esce più quasi mai; rifiuta tutti gl’inviti; si alza all’alba, per venire ad appoggiare la sua testa sulla mia spalla, mentre io lavoro; per venire a spargermi il tavolino di fiori ch’ella ha colti per me... per dirmi di quelle parole che ella sola sa dire. È una vita straordinaria che noi facciamo: una vita che c’invidierebbero molti e che molti compiangerebbero come una pazzia.
A Napoli noi uscivamo qualche volta, la sera, verso mezzanotte, in carrozza, e andavamo a Mergellina per la Riviera di Chiaia. Io non ti potrei esprimere le sempre nuove sensazioni che costei mi faceva provare, in quell’ora, seduta accanto a me sui cuscini della carrozza.
Noi lasciavamo il calesse per correre, di notte, come fanciulli, tenendoci per la mano, sedendoci a terra quando eravamo stanchi.
Il sole ci sorprendeva spesso ancora passeggiando, come nelle prime ore della notte; e allora noi correvamo a casa per levarci poi alle cinque.
Qualche altra volta uscivamo a cavallo. Narcisa cavalca come un’amazzone, e noi galoppavamo verso Posillipo. Io mi spaventavo nel vedere con quale audacia piena di grazia quel fragile corpo che sembra soltanto armonizzato per le più delicate carezze, quella giovane nervosa che sembra vivere una vita a metà aerea come quella di una farfalla, sfidava i pericoli della corsa, superando gli slanci impetuosi di Arbek, il mio focoso cavallo, con tutta la disinvoltura di un cavallerizzo.
Quando ritornavamo, coi cavalli anelanti e coperti di spuma, Narcisa si lasciava cadere nelle mie braccia, avvinghiandomi le sue al collo; ed io la trasportavo, come una bambina, sulla sua poltrona accanto al pianoforte.
La sera facevamo della musica insieme. Ella è di un gusto squisito, quantunque non possegga tutte le facilità di un pianista. Quand’ella suona io sto seduto al suo fianco, colle braccia allacciate attorno alla sua vita; ella s’interrompe per guardarmi, per sorridermi; ...e quando mi ha guardato un pezzo, com’ella sola sa guardare, mi chiude gli occhi coi baci. Colle mie mani fra le sue ha voluto ch’io le narrassi tutta la mia vita, colle più minute particolarità... Ha sorriso del suo caro sorriso a ciascuna rimembranza delle mie follie di giovinezza, e mi ha detto: «Giammai tu amerai come hai amato me!...».
E come ebbra del suo trionfo mi ha circondato la testa delle sue braccia.
Ora, da quaranta giorni, noi siamo a Catania, dove ad ogni passo io provo delle emozioni ineffabili. Spesso rimango delle ore intiere a contemplare l’oggetto insignificante che mi ricordo aver veduto quando amavo Narcisa di quel terribile amore senza speranza.
Io ho salito quella scala, ho passeggiato per quelle stanze, ho dormito sotto quel tetto... ho veduto la sua camera... Qual camera! se la vedessi, Raimondo!...
Un uomo che non avesse mai conosciuto Narcisa ne immaginerebbe il ritratto fisico e morale quando avesse soltanto veduta la sua camera.
Dappertutto velluti e sete; e, a renderne meno pesante la ricchezza, meno severo e più diafano il colorito, veli dappertutto, e fiori, e un profumo appena sensibile, ma molle, delizioso; il profumo della sua pelle delicata...
L’altra notte udii rumore nel suo appartamento; mi levai anch’io e la trovai al verone istesso dove io la vedevo qualche volta, cogli occhi fissi sulla strada dove altra volta io passavo parte delle notti.
Mi accorsi che aveva pianto. Come mi vide mi gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi.
«Oh! è l’eccesso della felicità che mi fa male!», mi disse.
E l’alba ci trovò ancora a quel verone, abbracciati.
Raimondo!... Ti svelo un gran mistero del mio cuore, che Narcisa non dovrebbe mai conoscere. In mezzo a questi deliranti piaceri, in mezzo a questa felicità che il Paradiso non mi potrebbe mai dare, ho un pensiero che mi è quasi terrore, che mi agghiaccia il bacio sulle labbra... e ciò quando penso che a forza d’inebbriarmi a questa coppa fatata, i sensi dell’uomo, troppo deboli per la piena di tanta felicità, non si istupidiscano nel godimento;... che io non possa più assorbire in tutti i più squisiti particolari questa rugiada d’amore di cui ella mi abbevera;... che, infine, (ho terrore di ripeterlo a me stesso!) a forza d’immedesimarmi nella vita di lei, a forza di assorbirne tutte le emanazioni quando me la stringo fra le braccia, io non giunga a rompere quel velo aereo, direi, di cui Narcisa si circonda, e che comanda quasi la semioscurità, l’isolamento, per farla meglio ammirare... Raimondo, se ciò avvenisse, sento che mi farei saltare le cervella.
Quando le parlo del suo passato ella mi risponde, inebbriandomi del suo sguardo:
«Ciò che io rimpiango sono i giorni che vi ho passato senza di te, e che avrebbero accumulato tesori d’amori e di ricordi trascorsi al tuo fianco».
Io ti ringrazio, amico mio, delle cure affettuose che prodighi alla mia famiglia. Vicini a te, quei miei cari, io son tranquillo sul loro stato. Dirai a mia madre che non oso scriverle; e che qualche giorno correrò sino a Siracusa per farmi perdonare il mio lungo silenzio fra le sue braccia. Addio, addio! Narcisa mi chiama; domani forse ti scriverò più a lungo.
Il tuo Pietro
Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa.
Aci-Castello. *** Novembre 186*
Signore,
Pietro mi ha parlato sì spesso di lei, che il suo nome è per me quello di un amico. È come a fratello che io scrivo dunque, o signore... come ad un uomo che è l’amico del mio Pietro... E son sola... e non ho nessuno a cui aprire il mio...

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