L'esclusa
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Informazioni sul libro

Un libro che tocca dinamiche sociali ben descritte nei loro pregiudizi e nelle loro sanzioni, cui Pirandello affianca una vicenda che rimanda ai paradossi del dramma esistenziale, del contrasto tra sostanza e apparenza. Tra i cardini della letteratura pirandelliana, L'esclusa richiama anche la letteratura verista: senz'ombra di dubbio tra i capolavori assoluti di Pirandello.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833462660
Argomento
Literature
Categoria
Classics
Parte 1,1
Antonio Pentàgora s’era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.
Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia.
Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s’erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt’e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po’ avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d’appassito.
Finalmente, Rocco apparve sulla soglia, cupo, disfatto. Era uno stangone biondo, di pochi capelli, scuro in viso e con gli occhi biavi, quasi vani e smarriti, che però gli diventavano cattivi quando aggrottava le sopracciglia e stringeva la bocca larga, dalle labbra molli, violacee. Camminando sulle gambe aperte, si dimenava sul busto e seguiva con la testa e con le braccia l’andatura. Ogni tanto aveva un tic alle corde del collo che gli faceva protendere il mento e tirare in giù gli angoli della bocca.
- Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! - esclamò il padre fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci.
Rocco stette un po’ a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi.
- Oh, e àlzati! - riprese il Pentàgora. - T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola d’onore, fino alle dieci... no, più, più... che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato, qua, come prima.
E chiamò, forte:
- Signora Popònica!
- Epponìna, - corresse Niccolino a bassa voce.
- Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso?
Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:
- Chi è Popònica?
- Ah! una signora caduta in bassa fortuna, - rispose allegramente il padre. - Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge.
- Romagnola, - aggiunse Niccolino, sommessamente.
Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccare la lingua:
- Buono! - disse. - Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l’occhio... Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio!
E tracannò il resto in un fiato.
- Non vuoi cenare? - domandò poi.
- Non può cenare, - osservò piano Niccolino.
Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch’empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole, sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita a mo’ di grembiule. La tintura dei capelli, l’aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.
Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe’ cenno d’andar via: non c’era più bisogno di lei, poiché Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando.
- Ricòrdati, oh! che te l’avevo predetto, - uscì a dire finalmente il Pentàgora.
Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell’insalata, ghermì un tozzo di pane, e scappò via, a finir di cenare in un’altra stanza.
Antonio Pentàgora la seguì con gli occhi fino all’uscio, poi guardò Niccolino e si stropicciò il capo con ambo le mani, aprendo le labbra a un ghigno frigido, muto.
Ricordava.
Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire davanti, tradito e pentito.
- Te lo avevo predetto! - ripeté, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro.
Rocco si alzò, smanioso, esclamando:
- Non trovi altro da dirmi?
Niccolino allora tirò, sotto sotto, la giacca al padre, come per dirgli: “Stia zitto!”.
- No! - gridò forte il Pentàgora su la faccia di Niccolino. - Vieni qua, Roccuccio! Lèvati codesto cappello dagli occhi... Ah, già: la ferita! Lasciami vedere...
- Che m’importa della ferita? - gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento.
- Sì, guarda come ti sei conciato... Acqua e aceto, subito: un bagnolo.
Rocco minacciò:
- Ancora? Me ne vado!
- E vàttene! Che vuoi da me? Parla, sfògati! Ti prendo con le buone, e spari calci... Mettiti il cuore in pace, figliuolo mio! La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte nello sportello dell’armadio. Ma basta: sciocchezze! Denari ne hai quanti ne vuoi; femmine, potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze!
SCIOCCHEZZE! era il suo modo d’intercalare e accompagnava ogni volta l’esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia.
Si levò di tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela; staccò, per dare a vedere ciò che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto; poi l’accese e sospirò:
- E ora, con l’ajuto di Dio, andiamo a dormire!
- Mi lasci così? - esclamò Rocco, esasperato.
- E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi... Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua...
Soffiò su la candela e sedé su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle.
Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva.
Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l’indice pallottoline di mollica.
- Non hai voluto darmi ascolto, - riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. - Hai... ehm...! sì...

Indice dei contenuti

  1. Parte 1,1
  2. Parte 1,2
  3. Parte 1,3
  4. Parte 1,4
  5. Parte 1,5
  6. Parte 1,6
  7. Parte 1,7
  8. Parte 1,8
  9. Parte 1,9
  10. Parte 1,10
  11. Parte 1,11
  12. Parte 1,12
  13. Parte 1,13
  14. Parte 1,14
  15. Parte 2,1
  16. Parte 2,2
  17. Parte 2,3
  18. Parte 2,4
  19. Parte 2,5
  20. Parte 2,6
  21. Parte 2,7
  22. Parte 2,8
  23. Parte 2,9
  24. Parte 2,10
  25. Parte 2,11
  26. Parte 2,12
  27. Parte 2,13
  28. Parte 2,14
  29. Parte 2,15