Mastro Don Gesualdo
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Informazioni sul libro

Mastro Don Gesualdo è tra i più conosciuti romanzi di Giovanni Verga. La decadenza dell'aristocrazia e la contrapposizione tra successo economico e sociale e la perdita degli affetti sono tra le principali tematiche del testo, che offre uno straordinario spaccato della Sicilia di prima metà Ottocento, in pieno periodo risorgimentale

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833462806
Argomento
Literature
Categoria
Classics
III
La signora Sganci aveva la casa piena di gente, venuta per vedere la processione del Santo patrono: c’erano dei lumi persino nella scala; i cinque balconi che mandavano fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo; don Giuseppe Barabba in gran livrea e coi guanti di cotone, che annunziava le visite.
― Mastro-don Gesualdo! ― vociò a un tratto, cacciando fra i battenti dorati il testone arruffato. ― Devo lasciarlo entrare, signora padrona?
C’era il fior fiore della nobiltà: l’arciprete Bugno, lucente di raso nero; donna Giuseppina Alòsi, carica di gioie; il marchese Limòli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso. La signora Sganci, sorpresa in quel bel modo dinanzi a tanta gente, non seppe frenarsi.
― Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Motta, si dice! bestia!
Mastro-don Gesualdo fece così il suo ingresso fra i pezzi grossi del paese, raso di fresco, vestito di panno fine, con un cappello nuovo fiammante fra le mani mangiate di calcina.
― Avanti, avanti, don Gesualdo! ― strillò il marchese Limòli con quella sua vocetta acre che pizzicava. ― Non abbiate suggezione.
Mastro-don Gesualdo però esitava alquanto, intimidito, in mezzo alla gran sala tappezzata di damasco giallo, sotto gli occhi di tutti quei Sganci che lo guardavano alteramente dai ritratti, in giro alle pareti.
La padrona di casa gli fece animo:
― Qui, qui, c’è posto anche per voi, don Gesualdo.
C’era appunto il balcone del vicoletto, che guardava di sbieco sulla piazza, per gli invitati di seconda mano ed i parenti poveri: donna Chiara Macrì, così umile e dimessa che pareva una serva; sua figlia donna Agrippina, monaca di casa una ragazza con tanto di baffi, un faccione bruno e bitorzoluto da zoccolante, e due occhioni neri come il peccato che andavano frugando gli uomini. In prima fila il cugino don Ferdinando, curioso più di un ragazzo, che s’era spinto innanzi a gomitate, e allungava il collo verso la Piazza Grande dal cravattone nero, al pari di una tartaruga, cogli occhietti grigi e stralunati, il mento aguzzo e color di filiggine, il gran naso dei Trao palpitante, il codino ricurvo, simile alla coda di un cane sul bavero bisunto che gli arrivava alle orecchie pelose; e sua sorella donna Bianca rincantucciata dietro di lui, colle spalle un po’ curve, il busto magro e piatto, i capelli lisci, il viso smunto e dilavato, vestita di lanetta in mezzo a tutto il parentado in gala.
La zia Sganci tornò a dire:
― Venite qui, don Gesualdo. V’ho serbato il posto per voi. Qui, vicino ai miei nipoti.
Bianca si fece in là, timidamente. Don Ferdinando, temendo d’esser scomodato, volse un momento il capo, accigliato, e mastro-don Gesualdo si avvicinò al balcone, inciampando, balbettando, sprofondandosi in scuse. Rimase lì, dietro le spalle di coloro che gli stavano dinanzi, alzando il capo a ogni razzo che saliva dalla piazza per darsi un contegno meno imbarazzato.
― Scusate! scusate! ― sbuffò allora donna Agrippina Macrì, arricciando il naso, facendosi strada coi fianchi poderosi, assettandosi sdegnosa il fazzoletto bianco sul petto enorme; e capitò nel crocchio dove era la zia Cirmena colle altre dame, sul balcone grande, in mezzo a un gran mormorìo, tutte che si voltavano a guardare verso il balcone del vicoletto, in fondo alla sala.
― Me l’han messo lì... alle costole, capite!... Un’indecenza!
― Ah, è quello lo sposo! ― domandò sottovoce donna Giuseppina Alòsi, cogli occhietti che sorridevano in mezzo al viso placido di luna piena.
― Zitto! zitto. Vado a vedere... ― disse la Cirmena, e attraversò la sala – come un mare di luce nel vestito di raso giallo – per andare a fiutare che cosa si macchinasse nel balcone del vicoletto. Lì tutti sembravano sulle spine: la zia Macrì fingendo di guardare nella piazza, Bianca zitta in un cantuccio, e don Ferdinando solo che badava a godersi la festa, voltando il capo di qua e di là, senza dire una parola.
― Vi divertite qui, eh? Tu ti diverti, Bianca?
Don Ferdinando volse il capo infastidito; poi vedendo la cugina Cirmena, borbottò: ― Ah... donna Sarina... buona sera! buona sera! ― E tornò a voltarsi dall’altra parte. Bianca alzò gli occhi dolci ed umili sulla zia e non rispose; la Macrì abbozzò un sorriso discreto.
La Cirmena riprese subito, guardando don Gesualdo:
― Che caldo, eh? Si soffoca! C’è troppa gente questa volta..
La cugina Sganci ha invitato tutto il paese...
Mastro-don Gesualdo fece per tirarsi da banda.
― No, no, non vi scomodate, caro voi... Sentite piuttosto, cugina Macrì...
― Signora! signora! ― vociò in quel momento don Giuseppe Barabba, facendo dei segni alla padrona.
― No, ― rispose lei, ― prima deve passare la processione.
Il marchese Limòli la colse a volo mentre s’allontanava, fermandola pel vestito: ― Cugina, cugina, levatemi una curiosità: cosa state almanaccando con mastro-don Gesualdo?
― Me l’aspettavo... cattiva lingua!... ― borbottò la Sganci; e lo piantò lì, senza dargli retta, che se la rideva fra le gengive nude, sprofondato nel seggiolone, come una mummia maliziosa.
Entrava in quel punto il notaro Neri, piccolo, calvo, rotondo, una vera trottola, col ventre petulante, la risata chiassosa, la parlantina che scappava stridendo a guisa di una carrucola. ― Donna Mariannina!... Signori miei!... Quanta gente!... Quante bellezze!... ― Poi, scoperto anche mastro-don Gesualdo in pompa magna, finse di chinarsi per vederci meglio, come avesse le traveggole, inarcando le ciglia, colla mano sugli occhi; si fece il segno della croce e scappò in furia verso il balcone grande, cacciandosi a gomitate nella folla, borbottando:
― Questa è più bella di tutte!... Com’è vero Dio!
Donna Giuseppina Alòsi istintivamente corse con la mano sulle gioie; e la signora Capitana, che non avendo da sfoggiarne metteva in mostra altre ricchezze, al sentirsi frugare nelle spalle si volse come una vipera.
― Scusate, scusate; ― balbettava il notaro. ― Cerco il barone Zacco.
Dalla via San Sebastiano, al disopra dei tetti, si vedeva crescere verso la piazza un chiarore d’incendio, dal quale di tratto in tratto scappavano dei razzi, dinanzi alla statua del santo, con un vocìo di folla che montava a guisa di tempesta.
― La processione! la processione! ― strillarono i ragazzi pigiati contro la ringhiera. Gli altri si spinsero innanzi; ma la processione ancora non spuntava. Il cavaliere Peperito, che si mangiava con gli occhi le gioie di donna Giuseppina Alòsi – degli occhi di lupo affamato sulla faccia magra, folta di barba turchiniccia sino agli occhi – approfittò della confusione per soffiarle nell’orecchio un’altra volta:
― Sembrate una giovinetta, donna Giuseppina! parola di cavaliere!
― Zitto, cattivo soggetto! ― rispose la vedova. ― Raccomandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per arrivare.
― Sì, sì, se mi fa la grazia...
Dal seggiolone dove era rannicchiato il marchese Limòli sorse allora la vocetta fessa di lui:
― Servitevi, servitevi pure! Già son sordo, lo sapete.
Il barone Zacco, rosso come un peperone, rientrò dal balcone, senza curarsi del santo, sfogandosi col notaro Neri:
― Tutta opera del canonico Lupi!... Ora mi cacciano fra i piedi anche mastro-don Gesualdo per concorrere all’asta delle terre comunali!... Ma non me le toglieranno...

Indice dei contenuti

  1. PARTE PRIMA
  2. I
  3. II
  4. III
  5. IV
  6. V
  7. VI
  8. VII
  9. PARTE SECONDA
  10. I
  11. II
  12. III
  13. IV
  14. V
  15. PARTE TERZA
  16. I
  17. II
  18. III
  19. IV
  20. PARTE QUARTA
  21. I
  22. II
  23. III
  24. IV
  25. V