IV.
Germana spalancò la finestra della sua piccola stanza per bagnarsi al sole e sentirsi rinascere. La sera innanzi al buio, rannicchiata sotto le coltri per farsi piccina e sentir meno il suo dolore, aveva creduto e invocato di morire; ma col tornare della luce un soffio di eroismo era entrato in lei, sollevandola al disopra della propria disperazione che, veduta così dall’alto, le era apparsa misera e deforme. A che cosa le serviva di essersi temprata sotto il maglio della volontà, se la passione riusciva così a travolgerla? No, voleva salvarsi, voleva che la ferita, ora aperta e sanguinante, da cui tutto il sangue delle sue vene pareva scorrere, si restringesse a poco a poco, si rimarginasse e la cicatrice restasse in lei come il segno di una suprema battaglia affrontata, e di una vittoria eccelsa conseguita.
Già riportava il premio del coraggio dimostrato la sera innanzi; il dolore cocente le maciullava tuttavia le carni; ma l’umiliazione se n’era andata e la malvagità non più le snodava in petto gli anelli freddi di piccoli rettili velenosi. Di fronte alla disperazione la giovinezza, circonfusa di raggi, sarebbe insorta a combattere ed il passato fosco si sarebbe sommerso a foggia di scoglio, che scompare agli occhi del navigante ardito, il quale superate le insidie dei vortici, si lancia alla conquista dello spazio, pronto a sfidare nuovi pericoli, pur di tentare l’approdo su lidi nuovi. Ma bisognava fuggire senza indugio, bisognava diffidare di sè. Per questo, dietro la scorta di un annunzio, era corsa all’albergo Exelsior ed aveva assunto impegno definitivo di recarsi a Shanghai, in qualità d’istitutrice, presso una ricca famiglia di commercianti milanesi. E adesso, immersa nel sole, si stringeva al petto le mani intrecciate, per trasfondersi vigore, e contemplava la colonna Traiana, che sotto la fissità del suo sguardo, sembrava innalzarsi lentamente per attingere il cielo, simile all’albero maestro di una nave prodigiosa solcante la vastità dell’azzurro.
La voce di Eva, morbida e piana, risuonò dall’attiguo salottino.
– Zeffira, preparami una limonata; ho sete.
Germana ebbe un brivido. Bisognava fuggire, bisognava fuggire se anch’ella, come gli altri, non voleva morire all’ombra dell’albero venefico, il quale non tollera nelle sue vicinanze nè vita di esseri, nè vegetazione di piante.
Eva la chiamò:
– Germana, Germana!
La ragazza si tolse il cappello e, opponendosi con la volontà agl’impeti del sangue in tumulto, rispose alla cognata entrando in salotto:
– Che cosa vuoi?
Eva la guardò stupita e le disse con sollecitudine sincera;
– Come sei pallida! Ti senti male?
– No, no, grazie. Ma che vuoi?
– Guarda; ti piace? – e spiegò una ciarpa frangiata di seta bianca ricchissima.
– Sì, è bella – Germana disse.
– Prendila, ne ho comperate due. Questa è per te.
Germana dette un guizzo all’indietro.
Di solito ella rifiutava i doni frequenti della cognata; li rifiutava con ira e disgusto; ma quel giorno volle imporsi di accettare per reazione contro la collera da cui si sentiva vincere, forse per la voluttà di assaporare sino alla feccia il calice del suo martirio. Allungò il braccio, prese la stoffa ondeggiante e disse con labbra contratte:
– Grazie.
Una contentezza infantile brillò sul viso bianco di Eva, la quale abbracciò la cognata con espansione.
– Sei gentile oggi, molto gentile – e la baciò sopra le gote, mentre Germana sentendosi agghiacciare, torceva lentamente il capo e chiudeva le palpebre.
Zeffira dalla porta disse:
– Ecco il signor avvocato.
– Quale avvocato? – Eva domandò.
– Il signor Salvatore. L’ho visto dalla finestra che arrivava in fretta.
– A quest’ora? – Eva esclamò con meraviglia e si recò ad aprirgli ella stessa.
Salvatore entrò difilato nel salotto e, vedendo Germana, le impose con fare insolito:
– Vai di là; devo parlare con mia moglie.
Germana uscì e Salvatore si lasciò cadere sul divano, forse per riprendere fiato, giacchè doveva essersi recato a casa a tutta corsa, tanto il respiro gli mancava.
– Che cosa ti è successo? – Eva gli domandò premurosa, appoggiandogli una mano sopra una spalla.
Salvatore sollevò le spalle con violenza per liberarsi dalla pressione, pur così dolce, di quella piccola mano gemmata e si mise due dita fra la gola e il goletto. Voleva parlare, interrogare, gridare, vituperare e non riusciva a staccarsi una sillaba dal palato.
Eva, presa da spavento, temendo un colpo di apoplessia, si avviò per chiamare Germana; ma Salvatore balzò come una tigre, l’afferrò per le spalle, la buttò riversa sul divano e, formidabile, le impose con la muta espressione delle ciglia di rimanere immobile e zitta.
– Misericordia! È impazzito! – Eva pensò e non osava tentare il più piccolo moto per divincolarsi dalla stretta di quelle dita che la tenevano inchiodata e riversa. Lo fissava con pupille dilatate, ipnotizzata dal viso irriconoscibile del marito, poichè il naso gonfio, gli occhi lagrimosi pel raffreddore mischiavano di grottesco la terribilità degli zigomi sporgenti, della fronte convessa, delle mascelle contratte, della bocca screpolata e arida fra le ciocche della barba scomposta. Si guardavano stupidamente, quasi fossero due estranei meravigliati di trovarsi insieme, e infatti si riscontravano a vicenda una fisonomia nuova, rivelazione in ciascuno di loro di una personalità intrinseca da entrambi non sospettata durante anni di convivenza. Ella scorgeva adesso un gigante bruto al posto del suo pacifico e bonario compagno; egli scorgeva un essere ibrido e viscido al posto dell’adorata divinità, eppure, sprofondando le pupille accese nelle smarrite pupille di lei, premendole con le dita adunche la massa cedevole delle carni, provava dalla nuca ai calcagni il diffondersi di un leggerissimo calore, che lo dissolveva. Questo raddoppiò la sua collera.
– Voglio sapere tutto o ti ammazzo.
– Di che? – ella chiese tentando sollevarsi col busto.
– Non ti muovere –– egli comandò. – Voglio saper tutto.
– Ma di che? – Eva chiese ancora con voce di pianto.
– Che cosa facevi con Aldo?
– Io? Quando?
– Sempre.
– Ma quando?
– Sempre; da mesi.
– Non è vero, non è vero – ella esclamò, divincolandosi con forza, poichè cominciava a raccapezzarsi.
– Bugiarda, sta ferma.
– Non è vero.
Salvatore gustò per ogni vena la voluttà di un benessere immenso; rallentò la stretta ed Eva si alzò indignata.
– Per questo ti riduci così che mi sembri pazzo furioso?
Egli si lasciò cadere senza più forze sopra una seggiola; i ginocchi gli si piegavano per l’impeto della commozione suscitata in lui dalla speranza.
– Dunque tu giuri che non è vero? – le domandò supplice, già quasi vinto.
Eva nemmeno gli rispose; la co...