L'inferno
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L'inferno

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Stanco della vita, un uomo sulla trentina si rintana in un albergo di provincia in cerca dell'oblio. La monotonia delle giornate viene interrotta quando, per caso, scopre un buco nel muro attraverso il quale riesce a spiare le vite di altri ospiti di passaggio tra miserie, incanti, rivelazioni e depravazioni. "L'Inferno" è caratterizzato da una scrittura e una sensibilità simboliste e decadenti cui si accompagnano temi naturalisti. Pur conservando tracce del cupo pessimismo tipico della narrativa Barbussiana, l'opera tende al suo superamento attraverso uno slancio, se non ancora proiettato verso una salvifica dimensione socializzante, avviato quantomeno a una forma di rigenerante umanitarismo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833463728
Argomento
Literature
Categoria
Classics
VIII.
Li circondava lo stesso ambiente, li ottenebrava la stessa penombra della prima volta in cui li avevo veduti assieme. Aimée e il suo amante erano seduti a fianco, non lontano da me.
Certo conversavano da qualche tempo quando mi chinai fino ad essi.
Ella era dietro di lui, sul canapè, nascosta dall’ombra della sera e dall’ombra dell’uomo. Lui, pallido e impreciso, con le mani sulle ginocchia, è piegato in avanti, nel vuoto.
La notte era ancora ornata di una grigia e setosa dolcezza serale: presto sarebbe stata nuda. Stava per sopravvenire su di essi come una malattia di cui si ignora se si guarirà. Pareva che la presentissero, che cercassero di difendersi, che volessero prendere, contro le tenebre fatali, precauzioni di parole e di pensieri.
Si affrettavano ad intrattenersi di questo e di quello; senza energia, senza interesse. Udii dei nomi di località e di persone; parlarono di una gara, di un passeggio pubblico, di un fiorista.
D’un tratto, ella si fermò, parve oscurarsi, e nascose il volto fra le mani.
Egli la prese pei polsi, con una lentezza triste che mostrava come fosse abituato a quelle debolezze – e le parlò senza saper che dire, balbettando, accostandolesi come poteva:
— Perchè piangi? Dimmi perchè piangi.
Ella non rispose; poi scostò le mani dagli occhi e lo guardò:
— Perchè? Lo so forse?! disse. Le lagrime non sono parole.
* * *
La guardavo piangere, la guardavo abbeverarsi di lagrime. Oh! che cosa grave essere di fronte ad un essere ragionevole che piange! Una creatura troppo debole o troppo accorata che piange fa la stessa impressione di un dio onnipotente che si implora; perchè, nella sua debolezza e nella sua sconfitta, è al disopra delle forze umane.
E una specie di ammirazione superstiziosa mi colse davanti a quel volto di donna bagnato dall’inesauribile sorgente, davanti a quel volto sincero e veridico contemporaneamente.
* * *
Aveva smesso di piangere. Aveva rialzato il capo. Questa volta, senza essere interrogata, disse:
— Piango perchè si è soli.
«Non si può uscire dal proprio io; non si può nemmeno confessar nulla; si è soli. E poi, tutto passa, tutto cambia, tutto fugge; e dal momento che tutto fugge, si è soli. Vi sono dei momenti in cui vedo questo meglio d›ogni altra cosa. E allora, che cosa potrebbe impedirmi di piangere?»
Nella tristezza in cui andava oscurandosi di momento in momento, ebbe una piccola scossa d’orgoglio; sulla maschera di malinconia vidi la smorfia dolce d’un sorriso.
— Sono più sensibile degli altri, io. Cose che passerebbero inavvertite agli occhi della gente, hanno in me una ripercussione grandissima. E in quegli istanti di lucidità, quando mi guardo, vedo che sono sola, tutta sola, tutta sola.
Inquieto di quell’affanno crescente, egli cercò di farle riprendere vita:
— Non possiamo dir questo noi; noi che abbiamo rifatto il nostro destino... Tu, che hai compiuto un grande atto di volontà...
Ma son parole che vengono travolte come festuche.
— A che scopo! Tutto è inutile. Sono sola, malgrado quello che ho cercato di fare. Non è un adulterio – per quanto sia dolce la parola – che cambierà la faccia delle cose!
«Non è col male che si arriva alla felicità. E non è nemmeno con la virtù. E nemmeno con quella specie di fuoco sacro delle grandi decisioni istintive, che non è nè il bene nè il male. Con nulla di tutto ciò si giunge alla felicità; fin là non ci si arriva mai.»
Si fermò e disse, come se sentisse il proprio destino ricaderle sopra:
— Sì, so di aver fatto male; so che quelli che mi amano di più mi detesterebbero in molti modi se sapessero... Come sarebbe infelice mia madre – lei che è così indulgente – se sapesse!... So che il nostro amore è fatto della riprovazione di tutto ciò che è saggio e giusto, e delle lagrime di mia madre. Ma questa vergogna non serve più a nulla! Oh madre mia, se tu sapessi! che pena ti farebbe la mia felicità!
Egli mormorò debolmente: «Sei cattiva...» – parola che cadde senza significazione alcuna.
Ella accarezzò la fronte dell’uomo con un leggero sfiorar di mano, e con voce sovrannaturalmente sicura:
— Tu sai bene, disse, che non merito questa parola. Tu sai bene che io parlo al di sopra di noi.
«Tu lo sai, lo sai meglio di me, che si è soli. Un giorno in cui io parlavo della gioia di vivere e che tu eri illuminato di tristezza come lo sono io oggi, tu, dopo avermi guardata, mi hai detto che non sapevi che cosa pensavo, malgrado le mie parole; che dovevi domandarti se era un belletto vivo il sangue che mi saliva al volto.
«I nostri pensieri, tutti quelli più grandi, tutti quelli più piccoli, non sono che per noi. Tutto ci respinge in noi e ci condanna a noi soli. Quel giorno hai detto: «Vi sono delle cose che tu mi nascondi, e che io non saprò mai – anche se tu me le dici»; mi hai mostrato che l›amore non è che una specie di festa della nostra solitudine, ed hai finito per gridarmi, sommergendomi fra le tue braccia: «Il nostro amore, sono io!». Ed io ti ho risposto la, ohimè!, inevitabile risposta: «Il nostro amore, sono io!».
Egli volle parlare. Ella gli pose una mano sulla bocca con un gesto amichevole e disperato, e, a voce più alta, con più tremante e più penetrante armonia:
— Tieni... Prendimi, stringimi le dita, sollevami le palpebre, appoggia il tuo petto sul mio, frugami con le tue mani o con la tua carne; abbracciami a lungo, a lungo, sino a respirare con la mia bocca, sino a che non ci sia più dato di conoscere le nostre bocche; fa di me quello che vorrai per avvicinarti, avvicinarti... E poi rispondimi: Eccomi qui a soffrire. Ma il mio dolore lo senti, tu?
Egli nulla disse, e nel sudario crepuscolare che li avviluppava, li immergeva invano l’uno nell’altro, vidi il suo capo compiere l’inutile gesto della negazione. Vidi tutta la miseria emanante da quel gruppo che, una volta, per caso, nell’ombra, non sapeva più mentire.
È vero che essi sono assieme e che non vi è nulla che li unisca. Vi è del vuoto tra di essi. Si ha un bel parlare, agire, ribellarsi, sorgere furiosamente, dibattersi e minacciare: l›isolamento vi doma. Vedo che non vi è nulla che li unisca, nulla.
* * *
— Ah!, dice la donna, non parliamo più, non parliamo più mai del dolore e della gioia; suddividerli è veramente troppo impossibile cosa. Ma anche la penetrazione dello spirito a mezzo dello spirito è proibita. Non vi sono al mondo due esseri che parlino il medesimo linguaggio. In certi momenti, senza ragione, ci si avvicina: poi, senza ragione sufficente, ci si scosta l’uno dall’altro. Ci si urta, ci si accarezza, ci si martirizza, ci si mutila; si ride quando si dovrebbe piangere, senza mai poterci nulla. Una coppia è sempre pazza. Anche questo sei stato tu, a dirlo; non sono io che ha inventata questa frase. Tu che hai tanta intelligenza e sapienza, tu mi hai detto che due interlocutori sono due ciechi l’uno di fronte all’altro, e quasi due muti, e che due amanti procedenti insieme rimangono estranei l’uno all’altro come il vento e il mare. Un interesse personale od una diversa orientazione dei sentimenti e delle idee, una stanchezza o, al contrario, una punta temprata di desiderio confondono l’attenzione, le impediscono di essere veramente pura. Quando si ascolta non si ode, quando si ode non si comprende. Una coppia è sempre pazza.
Egli sembrava abituato a quei monologhi tristi, snocciolati su di un unico tono, litanie immense dell’impossibile. Non rispondeva più. La teneva, la cullava un poco, la blandiva con precauzione e tenerezza. Pareva comportarsi con lei come con un bambino ammalato che si cura, senza spiegargli... E così egli era lontano da lei quanto è possibile essere lontano.
Il contatto di lei però lo turbava. Anche abbattuta, sfatta e desolata, ella palpitava caldamente contro di lui; anche ferita, egli agognava la preda. Vidi brillare gli occhi posati su di lei mentre ella si abbandonava alla tristezza, con dono perfetto di se stessa. Si serrò su di lei. Era lei, che egli voleva. Scartava le parole che ella diceva: gli erano indifferenti, non lo accarezzavano. Lei, voleva; lei, lei!
Separazione! Erano molto simili di idee e di anime, e, in quel momento, si aiutavano strettamente l’un l’altro. Ma certo a me non sfuggiva, a me spettatore libe...

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  1. I
  2. II.
  3. III.
  4. IV.
  5. V.
  6. VI.
  7. VII.
  8. VIII.
  9. IX.
  10. X.
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