Oberon
I nani più famosi per la loro forza, per la potenza, la ricchezza e la bellezza sovrumana hanno parte importante in parecchi poemi del Medioevo; e pare che i loro poeti si siano compiaciuti nel delinearne le figure strane, così diverse da quelle degli eroi, per i quali s’accesero d’amore le castellane di Francia e di Germania, o le Saracene che rinnegarono per essi la fede dei loro avi. Questi nani, siano essi padroni di tesori o di regni meravigliosi sotto il triste cielo dell’Islanda e della Scandinavia, nell’ignoto paese dei Nibelunghi, sui monti del Tirolo, o sulle sponde del nostro lago di Garda, hanno fra loro relazioni strettissime. Così avviene che il Laurino del vecchio poema tirolese, del quale è il personaggio principale, non sia meno bello del famoso Oberon francese. Entrambi, poi, hanno ricchezza pari a quella dell’Andvari e del Regin dell’Edda, dell’Alberico dei Nibelunghi, e dell’altro Alberico divenuto cittadino d’Italia nel vecchio poema Ortnit, appartenente al ciclo longobardo.
Quante volte nelle sale dei castelli o sulle piazze, dove la gente credula, amante delle avventure portentose, si radunava intorno allo skaldo, al giullare, al minnesinger, questi avranno ripetuto il verso facile, il racconto dilettevole nella sua semplicità, narrando della bellezza di Oberon, «le roy faés», e del dolore di Laurino, il re dei nani del Tirolo; della forza di Alberico e dell’anello incantato di Andvari; o avranno descritto le meraviglie dei tesori che i nani custodivano nelle loro città sotterranee, e le lotte da essi sostenute contro eroi famosi! Sarà parso allora agli ingenui uditori di vedere quei nani alti tre piedi, o più piccoli ancora, con le splendide corazze tempestate di gemme, i piccoli berretti incantati, le spade sfavillanti e gli scudi che nessuna forza umana poteva rompere.
Poi gli ultimi skaldi, i giullari, i minnesinger sono discesi nella tomba. Nessuno ha raccontato più le gesta dei nani nelle sale dei castelli e sulle piazze affollate. La canzone epica, il romanzo d’avventure hanno perduto ogni valore per la gente colta, allettata in Francia ed in Germania da una fiacca e tardiva imitazione della poesia classica, e non hanno più commosso il popolo travolto in nuove guerre e divenuto indifferente alle gesta dei padri, al sorgere dell’Evo moderno. I vecchi manoscritti, che erano stati la gloria dei poeti in tanta parte dell’Europa medioevale, ed avevano procurato ai cantori popolari il pane quotidiano, furono dimenticati o distrutti; e soltanto alcuni di essi, salvi per caso, ci hanno conservato il racconto delle imprese dei piccoli nani, riapparsi innanzi a noi in questo secolo forse per opera della loro magica potenza, fulgidi e belli, coperti d’oro e di gemme, vicino alle pagine vetuste e polverose,
Vedremo che sono comuni le origini mitiche e lontanissime di questi nani, nei quali possiamo trovare una grandezza epica, se osavano combattere contro il Siegfried dei Nibelunghi, contro Teodorico di Verona e il longobardo Ortnit. Ma sarebbe più opportuno discorrere prima di quelli che più si avvicinano a queste origini. Sono, senza dubbio, l’Andvari ed il Regin dell’Edda, e l’Alberico dei Nibelunghi, più antichi nell’aspetto, mentre le figure degli altri ci vengono presentate con maggiori ornamenti, con parvenza più bella e dilettevole, da poeti già avvezzi a lavorare con amore intorno ad una figura nota, ignari del valore mitico che questa ebbe in altri tempi. Ma fra tutti i nani la gloria maggiore spetta ad Oberon, il piccolo re «du pays de féerie», che ha tanta parte nel vecchio poema francese Huon de Bordeaux. Egli ha ispirato allo Shakespeare ed al Wieland pagine immortali, e ride nel Fausto di Goethe. A lui dobbiamo l’opera bellissima di Weber che porta il suo nome; per lui il popolo di Francia ha sempre avuto una predilezione singolare, e durante parecchi secoli si sono moltiplicate le edizioni popolari di un rifacimento moderno dell’Huon de Bordeaux.
Più bello del sole, destinato alla gloria del Paradiso dove si trova il suo seggio; re di un paese incantato; potente a tal punto da compiere tutto ciò che brama con la sola forza della sua volontà, forse Oberon ha anche voluto che l’arte della parola e quella dell’armonia, nella loro perfezione maggiore, rendessero più durevole e fulgente quella fama, che gli aveva già data l’ingenua e semplice parola dell’ignoto suo poeta medioevale.
Credo dunque che fra queste pagine il posto d’onore spetti a colui che rise accanto al gran tragico inglese nel dolcissimo Sogno di una notte d’estate; che fece discendere nel cuore di Weber le note del suo corno incantato, dolci nel suono come la lira di Orfeo; che dettò forse al Wieland i versi armoniosi nei quali venne esaltata la sua gloria, e che appare fra le pagine che ricordano l’amore ed il pianto di Margherita.
Da quale vecchio poema il cantore di Huon de Bordeaux trasse l’immagine luminosa del piccolo re selvaggio, figlio di Giulio Cesare e della fata Morgana? Come potè il trovèro francese presentarci Oberon, re di Monmur e di tutta la «féerie» della vecchia Bretagna, con certe qualità soprannaturali che lo congiungono strettamente ai più illustri nani della Germania e della Scandinavia, al Laurino tirolese, ed all’Alberico del poema longobardo, Ortnit?
La creazione poetica della figura di Oberon, che protegge Huon e la sua bella sposa Esclarmonda, è anteriore o posteriore a quella dell’Alberico che aiuta il re Ortnit a conquistare una sposa nel lontano Oriente? È ardua cosa trovare risposte soddisfacenti a queste domande, e pare che non sia bastata ad Oberon, dopo i suoi trionfi medioevali, la nuova gloria acquistata fra l’arte moderna. Egli ha pure costretto illustri eruditi, fra i quali vanno ricordati specialmente Gaston Paris, il Grimm, il Rajna, il Graf, il Guessard, il Lindner, lo Hummel a meditare sul mistero che lo circonda. Ma dirò più tardi, brevemente, delle loro ricerche; ora ascoltiamo il poeta che presenta il piccolo Oberon ai suoi uditori.
Questi sono riuniti intorno a lui nella vasta sala del castello, alla luce rossastra delle lampade ed ai bagliori del fuoco, che arde nell’immenso camino. Sfavillano gli occhi delle giovani castellane e dei paggi, che aspettano con ardente curiosità la storia d’amore. Raccolti nell’avito castello, mentre lasciano riposare, fra una battaglia e l’altra, le spade e gli ardenti corsieri, anche i cavalieri aspettano con ansia il racconto, richiamerà spesso un sorriso sulle loro labbra con la sua barbara franchezza, o farà battere il loro cuore celebrando la bellezza di qualche donzella accesa d’amore e la gloria di cavalieri valorosi, ed il poeta dice: – Udite, o signori, e che Gesù vi faccia del bene, Gesù il glorioso che ci creò a sua immagine. Udite una buona canzone, in cui si narra di Carlomagno da «l’aduré coraige», di Huon e di Oberon, il piccolo re selvaggio, «que tant ot segnoraige». Sappiate che Oberon era figlio di Giulio Cesare (Juliien Cesare), governatore d’Ungheria, terra selvaggia, e d’Austria, e signore di Costantinopoli, dove fece costruire sette leghe di mura che ancora si trovano presso il mare selvaggio. Giulio ebbe per moglie una dama molto savia, che si chiamava Morgana ed aveva il viso bellissimo. Ella fu la madre di Oberon il selvaggio.
Qui il poeta prende a raccontare la storia lagrimevole di Huon de Bordeaux, il giovane barone che solo con l’aiuto di Oberon potrà compiere quanto gli è stato imposto dall’odio di Carlomagno, e che dovrà un giorno succedere al nano nel governo del suo regno, divenendo signore di Monmur. Le dame, i cavalieri, i paggi si commuovono, le lacrime velano gli sguardi, l’accesa parola del poeta o del giullare toglie ai barbari versi la monotonia del suono; la rima lungamente ripetuta carezza gli uditori intenti. Cessa il gran bagliore del fuoco, che nessuno si cura di alimentare, e non s’ode più il crepitio allegro delle fiamme, finché il poeta stanco tace, per riposare brevemente, e beve il vino spumante nella coppa ricolma, come i vati divini ricordati da Omero.
Allora i servi gettano sugli alari nuovi fasci di legna, l’allegra fiammata offusca la luce rossastra delle lampade. Le dame tacciono, pensando alla bella figura di Huon, e tacciono i cavalieri ed i paggi, sognando avventure portentose in lontani paesi, dove le giovani saracene innamorate sorridono ai cavalieri cristiani.
Ma potrebbe oggi un uditorio colto e gentile passare lunghe ore intento, ascoltando i casi del Sire di Bordeaux? Vero è che la parola del suo cantore, nella quale si trova tanta semplicità fanciullesca, può anche allettare noialtri moderni, e riposare la nostra mente. Ma siamo troppo avvezzi a lasciarci avvincere l’anima dalle seduzioni della grande arte classica. Non invano sono risorti per noi i vecchi maestri dell’arte antica, e quella moderna ha aggiunto uno splendore meraviglioso alla gloria antica della parola e del pensiero. A noi è concesso di ascoltare il canto divino delle Sirene, che invece di condurci alla morte c’inebria l’anima e dà nuova forza al nostro pensiero. Non possiamo dunque compiacerci a lungo della nenia fanciullesca, del rozzo canto che risuona nell’aperta campagna, o fra le anguste stradicciuole del villaggio. Per questa ragione lasciamo che il giullare canti per le dame cortesi del Medioevo, per i cavalieri ed i paggi, se il piccolo Oberon ha anche il potere di evocare i loro fantasmi nei castelli abbandonati, perché odano ancora la «buona canzone» che celebra la sua glor...