Padri e figli
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Tra le più acclamate opere russe del XIX secolo e la più famosa e importante di Turgenev, "Padri e figli" affronta il nichilismo nella sua accezione atea, materialista, positivista e rivoluzionaria. La tematica verrà ripresa, approfondita, criticata da altri autori russi degli anni Sessanta del XIX secolo in maniera estensiva. L'opera scatenò diverse polemiche in Russia e all'estero, che costrinsero Turgenev a dare spiegazioni e, di fatto, a diradare la sua attività letteraria.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788833467658
Argomento
Literature
Categoria
Classics

PADRI E FIGLI

I.
– Che c’è, Pietro? niente ancora si vede? – domandava il 20 maggio 1859, uscendo senza berretto sulla bassa scalinata dell’albergo sulla strada maestra di...., un signore sui quaranta, in soprabito polveroso e calzoni a scacchi, al suo domestico, ometto giovane e paffuto, dalla peluria bianchiccia sul mento e dagli occhi foschi.
Il domestico, nel quale e le turchine agli orecchi e i capelli fragranti di pomata e il portamento affettato, tutto insomma, rivelava un domestico progredito, si affrettò a guardare. lungo la strada e rispose:
– Niente ancora si: vede.
– Niente? – ripetè il padrone.
– Niente, – tornò a dire il domestico.
Il padrone trasse un sospiro e si mise a sedere sopra un banco, ritirando a sè le gambe e guardando intorno, tutto pensoso.
Presentiamolo intanto al lettore.
Aveva nome Nicola Petrovic Kirsanow, e possedeva un discreto fondo, a quindici verste dall’albergo, di duecento «anime» o, come egli esprimevasi dopo essersi accordato coi contadini, una «fattoria» di duemila ettari. Suo padre – un brav’uomo tagliato alla grossa, burbero e valoroso generale del 1812 – aveva prima comandato una brigata, poi una divisione, vivendo sempre in provincia, dove la mercè del grado era passato per una persona notevole. Nicola Petrovic – come il fratello Paolo, di cui parleremo; appresso – era nato nella Russia meridionale e fino ai 14 anni era stato educato in casa, in mezzo a mediocri pedagoghi e ad ufficiali di varie armi, stato maggiore e intendenza, che, su per giù, si rassomigliavano tutti in una loro disinvolta servilità. La madre, da ragazza Agata Koliezin, apparteneva al numero delle «mamme comandanti», portava vistosi cappellini e fruscianti abiti di seta, precedeva tutti in chiesa al bacio della croce, discorreva molto e forte, ammetteva la mattina i figliuoli al baciamano, li benediceva la sera.... era insomma la sopracciò del capoluogo. Quale figlio di generale, Nicola Petrovic – benchè non fosse il coraggio personificato ed anzi si acquistasse il nomignolo di poltroncino – doveva, come il fratello Paolo, entrare in servizio; ma il giorno stesso della nomina si ruppe una gamba e, dopo due mesi di letto, rimase per tutta la vita un po’ zoppo. Il padre, non avendo di meglio a fare, lo mandò a Pietroburgo perchè frequentasse i corsi universitari. In quel frattempo il fratello Paolo usciva ufficiale nel reggimento della guardia. I due giovani dimorarono insieme sotto la remota tutela di uno zio cugino dal lato materno, un pezzo grosso nelle sfere governative. Il padre tornò alla sua divisione e alla consorte, e solo tratto tratto spedì ai suoi figliuoli certi fogliacci illeggibili, con in fondo tanto di firma pomposa: «Pie tro Kirsanow, maggior generale».
Nel 1835 Nicola Petrovic uscì col titolo di candidato dall’Università, e l’anno stesso il generale Kirsanow, messo a riposo dopo una malaugurata ispezione, venne con la moglie a fissarsi a Pietroburgo. Prese a pigione un quartiere verso il giardino della Tauride e s’iscrisse al circolo inglese. Se non che un colpo apoplettico lo fulminò.
Agata non istette molto a tenergli dietro: non le andava a versi la vita della capitale; il cruccio di un’esistenza isolata la distrusse. Nicola intanto, viventi ancora i genitori e con sommo loro dispetto, s’era innamorato della figliuola di un tal Prepolovenski, impiegato, già loro, padrone di casa. La ragazza era belloccia e, come si suol dire, piuttosto sciolta: basti dire che nei giornali leggeva soltanto gli articoli serii nella rubrica «Scienze». La menò in moglie, non appena scaduto il lutto e, lasciando il ministero delle pensioni dove era entrato la mercè della protezione paterna, visse felice con la sua Masoia prima in campagna presso l’Istituto agrario, poi in città, in un grazioso quartierino dalla scala pulita e dal salottino un p’ fresco; finalmente tornò in campagna e vi si fissò, felicitato di lì a poco dalla nascita di un bambino, Arcadio. Gli sposi se la godevano: leggevano insieme, suonavano a quattro mani il pianoforte, cantavano duetti, nè c’era caso che si bisticciassero. Mascia piantava fiori e badava alla corte; il marito andava tratto tratto a caccia e si occupava della campagna. In mezzo a questa pace veniva su Arcadio. Dieci anni volarono come un sogno.
Nel ’47 Mascia morì. Nicola n’ebbe tal colpo che in poche settimane si fece grigio. Voleva andare all’estero per distrarsi.... e ci sarebbe andato se non fosse venuto il ’48. A malincuore tornò in campagna e, dopo un ozio piuttosto lungo, si dedicò a introdurre delle riforme nella proprietà.
Nel ’55 condusse il figliuolo all’Università; passò con lui tre inverni a Pietroburgo, non uscendo quasi mai e, studiandosi di far conoscenza coi giovani compagni di Arcadio. L’ultimo inverno non era potuto andare, – ed ecco che lo vediamo nel maggio 1859, già tutto grigio, obeso e un po’ curvo. Egli aspetta il figliuolo che ha ottenuto, com’egli stesso un tempo, la sua brava patente di candidato.
Il servo, tra per rispetto, tra per non stare sotto gli occhi del padrone, si allontanò dalla porta e si accese la pipa. Nicola Petrovic, abbassato il capo, fissava i vecchi scalini smussati; un pollastro grasso e screziato, gravemente gli passeggiava davanti, stampando forte in terra le zampe gialle; un gatto sudicio, accoccolato sulla balaustrata, lo guardava di mal occhio. Ardeva il sole; un odor di pane fresco di segala veniva dalla buia entrata dell’osteria. Il nostro Nicola Petrovic fantasticava.... «Mio figlio.... candidato.... Arcadio....» gli ronzavano per la testa; sforzavasi di pensare a qualcos’altro, e da capo quei pensieri tornavano. Gli veniva a mente la buon’anima della moglie.... «Non volle aspettare!» balbettò con tristezza.... Un piccioncello traversò volando la via e andò a dissetarsi frettoloso ad una pozza accanto alla cisterna. Nicola Petrovic si mise a guardarlo, mentre già nell’orecchio gli suonava confusamente un rumore di ruote....
– Chi sa che non sia il signorino, – comunicò il servo, mostrandosi di nuovo.
Nicola Petrovic balzò da sedere e aguzzò gli occhi lontano, in fondo alla strada. Un tarantass apparve, attaccato a tre cavalli di posta; un berretto orlato da studente.... un noto e caro profilo....
– Arcadio! figlio mio! – gridò il padre, correndo ed alzando le mani....
Pochi momenti dopo, le labbra di lui si attaccavano alla guancia imberbe ed abbronzata del giovane candidato.
II.
– Lascia che mi spolveri, papà, disse Arcadio con voce un po’ rauca ma sonora, rispondendo alle effusioni paterne, – io t’insudicio tutto.
– Niente, niente, – rispose Nicola Petrovic con un sorriso di tenerezza, e battendo una e due volte con la mano sul bavero di Arcadio e sul proprio soprabito. – Fatti vedere, fatti vedere, – soggiunse indietreggiando d’un passo; e subito dopo, entrando frettoloso nell’osteria, gridò: – Presto, qua, i cavalli, sbrighiamoci!
Nicola Petrovic se...

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  1. IVAN TURGHENIEFF
  2. PREFAZIONE
  3. PADRI E FIGLI