Il mio Carso
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Il mio Carso

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Informazioni sul libro

Il mio Carso è l'opera principale - nonché suo unico romanzo - dello scrittore triestino Scipio Slataper. Lo stile è riconducibile al frammentismo lirico tipico dei "vociani", il periodare è secco, asciutto e la lingua è piuttosto varia e manipola spesso il periodare con "invenzioni" grammaticali. Questa edizione è stata interamente controllata ma, al di là di qualche lievissima normalizzazione, il testo conserva intatto il singolare "slang" semidialettale dell'autore e la sua peculiare e bizzarra scelta lessicale.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788834114544

PARTE TERZA

Ho ritrovato il mio Carso in un periodo della mia vita in cui avevo bisogno d’andar lontano. Camminavo spesso, lento, alle rive per veder la gente che partiva. Studiavo l’orario dei piroscafi lloydiani, e se avessi avuto qualche centinaio di corone sarei andato in Dalmazia, a Cattaro, poi mi sarei arrampicato su fino a Cettigne, poi chissà? nell’interno della Croazia dove c’è boschi immensi e bisogna cavalcare lunghe ore per arrivare a una casipola di legno bigio. Il pater familias è ancora l’antico ospite. Di notte, quand’uno non può dormire, sente un canto triste che lo culla. Forse piuttosto sarei andato nell’Oriente.
Guardavo i bragozzi ciosoti che con una gran spinta si staccavano, gonfi e carichi, dalla riva. Il padrone della barca si levava la camicia per non infradiciarla di sudore, s’arrampicava sull’albero, e agganciandosi con la gamba sulla scala a corda sbrogliava la vela, giallastra a macchie mattone. Tutta la notte avrebbero corso l’Adriatico col borino, e poi un altro giorno, e un altro sotto il sole. Specialmente mi desideravo la piena calma marina, se il vento fosse cessato improvvisamente.
Avevo bisogno di star solo. Andavo per le strade poco frequentate, nell’ombra degli alti casamenti rettangolari, e mi guardavo intorno spiando di lontano il viso dei passanti. Temevo d’esser conosciuto, d’esser salutato, di dover salutare. Un amico mi mandò una cartolina: perché non gli scrivevo? “Poiché non vuoi, non vengo. Ma non è bello che tu sia così scontroso ed egoistico nel tuo dolore. Proprio ora l’amicizia ti farebbe bene.” Tutte buone care persone: ma io ero in cerca di lontananza.
Stavo solo, nella mia stanzetta, e ogni sera sentivo battere lente le nove, poi le nove e mezzo, poi le dieci, poi le dieci e mezzo... Il tempo camminava come si va nei pomeriggi domenicali, portandosi addosso la noia di tutti gli uomini. E ogni notte sentivo passare una carrozza nella via, poi la voce di tutti i nottambuli che gridavano alla moglie o alla mamma per la chiave.
Ecco - pensavo - ora mi metto a leggere, piglio appunti, studio. Ma calavo la testa sulle braccia raggomitolate - e non potevo piangere.
Non potevo dormire. Ero sotto l’incubo di un’afa grave. E uno usciva di casa nella notte e camminava con passi stanchi. Sognavo di una lunga notte di bora, che i pochi viandanti camminano curvi contro di essa, senza pensare. Mi sognavo soprattutto di cedri infissi nel fondo del mare, che a poco a poco impietravano. Avevo bisogno di sassi e di sterilità. E mi ricordai del Carso, e dentro ebbi un piccolo grido di gioia come chi ha ritrovato la patria.
Quante storie mi raccontai quella notte! M’ero sdraiato sul materasso poggiando la testa sul braccio destro, e ero un bimbo che aspettava con occhi aperti un po’ di lume alla fessura della porta e la mamma entrasse: “Non dormi? È tardi. Dormi, dormi. Ti racconto una storia”.
Avevo pietà e tenerezza per me stesso. E mi raccontavo a voce alta una storia del Carso: “Molti anni prima di noi una donna del Carso con capelli biondi, aveva partorito un piccolo che tremava anche sotto la pelle d’orso. Allora lei poiché il suo fiato non bastava, accese il fuoco per la prima volta. Il piccolo crebbe e non andava a caccia. Mangiava carne cotta e le notti d’inverno quando si svegliava d’improvviso e non vedeva la fiamma, l’oscurità e il freddo entravano in lui, ed egli pensava strane cose, rabbrividendo. Dalla volta della grotta stillavano gocce, più lente del battere del suo sangue, e come cadevano sullo strame del giaciglio egli sentiva camminare fuori della grotta. Ma molto lontano; chissà dove, chi era?
“Pascolava le capre; si ficcava dentro un cespuglio e guardava il cielo tra le frasche. Un cervo passava annusando, un uccello fischiettava, e quei suoni entravano in lui e si intricavano. Poi dormiva un poco. Poi tornava al calar del sole, e raccontava con parole chiare come le foglie dopo la piova. La sua famiglia l’ascoltava.
“Un giorno, mentr’egli raccontava, vennero uomini, il torso come macigno spaccato dal ghiaccio; ammazzarono la famiglia, rubarono il fuoco, e condussero lui in servitù.”
Anche altre storie mi raccontai. Ma poi fui stanco, e non potevo dormire. La mia testa erano tanti pensieri rotti che nascevano e svolavano via da tutte le parti, portandomi in mille posti contemporaneamente. Sudavo. Allora m’alzai, mi vestii in furia, intascai il mio coltello a serramanico, e andai. In via Chiadino c’era ancora una coppia d’amanti, e la donna giocava con le dita del compagno che la teneva avvincolata a sé. Io pensai: “Quella donna gli può benissimo morire proprio questa notte”. I cani abbaiavano. Appena su, verso Kluch, dopo la stanga giallonera della dogana, io fui solo e respirai. Camminavo senza pensare.

Anche questa mattina s’è alzato il sole. E come al solito i muratori camminavano nella strada silenziosa, con i loro grossi tacchi. Ho visto una donna dirimpetto alla mia finestra spalancare le imposte e chiamare il figliolo ch’era ora di scuola.

Dentro di noi s’accumulano molte nausee e schifi, e un giorno escono e ci appestano l’aria che respiriamo. Secca assai vestirsi, mangiare, alzarsi dalla sedia, ed è inutile; ma è meglio non turbare le abitudini e mettere un piede davanti all’altro perché ci hanno insegnato a camminare. Soltanto non porre ostacoli alla noia, perché allora il pensiero s’agita e fa patire; ma se no, la vita procede calma, senza scosse né sussurri.
Silenzio e pace. Si cammina per le strade senza far rumore. Non bisogna svegliare. La gente dorme, male, bene, ma dorme. Nessuno ha diritto di svegliare il sonno di nessuno. Passa qualche nottambulo, e una guardia di pubblica sicurezza piantona a passi larghi. Vicino ai fanali senti il fruscio del gas ch’esce dal beccuccio. Un tratto di luce; la tua ombra cammina davanti a te, poi si smarrisce un poco; una seconda ti segue; si fa piccola, s’avvicina, eguale a te. Ti puoi fermare, sdraiarti su lei, nel lastricato della città, e dormire anche tu. Ma puoi anche andare avanti, svoltare a sinistra o a destra, è indifferente. Ora sei in mezzo a una puzza di petrolio bruciato; poi, quando questa zona finisce, comincia la ventata calda di grasso dalla cucina d’un albergo. Tu puoi camminare fino all’alba per la città zitta, mentre la polvere cala lenta per terra.

Piove. È una giornata lunga. Il campanello suona: entra Guido, lascia cader l’ombrello nel portaombrelli, va in camera sua, butta giù i libri, va a mangiare. Mamma passa piano vicino la mia porta, perché spera io riposi.
Il giorno s’allunga eguale e infinito.
Un carro traballa lento per la strada. Odo picchiare su ferro. I colombi tubano sul cornicione della casa. Non so che sarà della mia vita.

Due uomini passano vicino e si salutano levandosi il cappello. Uno ha un viso triangolare, tutt’ossi, con occhi stanchi e erranti; l’altro cammina a piccoli passi svelti, tutto contento. È contento d’aver appetito. È contento della sua casa, della giovane sposa che lo aspetta alla finestra. Ha il Piccolo ripiegato in tasca e porta un cartoccio di ciliege per il pranzo. - Perché si sono salutati? Che rapporto vi può essere tra questi due uomini? Tutta la vita è intrecciata così ridicolmente. Nessuno può capire l’altro, ma s’infinge d’amarlo e d’odiarlo. Perché? L’altro fa un atto e allora si dice che ha fatto bene, che ha fatto male. In nome di che cosa?
Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un forestiero. Io sono qui perché in questo momento cammino per questa strada e vedo un orologiaio curvo su un panchetto svitare una molla con una piccola punta di acciaio. Tiene stretto nell’incavo dell’occhio una lente a tubo, naturalmente, senza increspare un muscolo per lo sforzo. Nella bottega mille pendoli dondano ritmicamente e mille lancette segnano l’ora identica e gl’identici minuti. Tornano da scuola le bimbe del Liceo, a frotte, tutte vestite di turchino, e cianciano occhieggiando di straforo i giovanotti che fanno l’aspetta.
Un ragazzotto spruzza d’acqua il selciato davanti a un negozio, poi entra, esce con una scopa e butta la polvere in mezzo alla strada. Un fiaccheraio dorme rannicchiato nella carrozza, sui cuscini rovesciati, e il cavallo, con il muso insaccato, mastica la biada. I colombi di Piazza Grande ogni tanto si levano a stormo e volteggiano in grandi cerchi, poi ricalano e zampettano fra le fossette d’acqua. Il soldato bosniaco davanti al palazzo della luogotenenza marcia a passi duri, si volta in tre tempi, torna in su.
Dove sono? L’aria calda mi fa socchiudere gli occhi, e cammino trasognato. Cammino lentamente e guardo come un forestiero stanco di viaggio, e che tuttavia debba vedere perché qualcuno lo attende pieno di affetto e interesse. Ma nessuno m’aspetta e nessuno si sederà accanto a me tornato chiedendomi con occhi amorosi: “E dunque? come fu il viaggio?”.
Io sono solo e stanco. Posso tornare e restare. Posso fermarmi qui in mezzo alla piazza finché il sole mi faccia vacillare e cader per terra; e posso andare fra il frastuono dei carri come nel silenzio della notte, perché in nessun luogo c’è riposo per questa mia grande stanchezza.

E i carbonai che dalla maona carrucolano le ceste di carbone sul Baron Gautsch mi guardano con quei loro occhi infossati e sanguinosi meravigliandosi del mio interessamento.
Uno tosse, sputa, l’aria gli riporta sul torso seminudo, impastato di carbone e sudore, i lunghi filamenti di mucco e forse egli pensa stizzosamente che io ho compassione di lui.
No, no: io sono indifferente. Soltanto non capisco. Vedo che si lavora intorno a me. Un bastimento greco imbarca grosse travi; due pescatori issano la grande vela scura, gocciolante; un gelataio grida la sua merce; uno con occhiali neri nota su un libruccio il numero sacchi cemento; un servo di piazza si fa avanti con il carretto rosso; s’accosta, spumando, il vapore di Grado; un manzo tira un vagone carico di balle di cartone. Sul vagone è scritto: Troppau-Triest-Rozzol-Assling. Ora un treno sbuffa su per il colle d’Opcina; un altro arriva a Pola, un altro rintrona sul ponte del Po. L’aria è piena di strepito. Il movimento s’allarga. La terra lavora. Tutta la terra lavora in una grande frenesia di dolore che vuol dimenticarsi. E fabbrica case e si rinchiude tra muri per non vedere reciprocamente i propri corpi avvoltolarsi insonni fra le lenzuola, e si tesse vestiti per poter pensare che almeno il corpo dell’altro è sano e regolare, e congegna milioni di orologi perché l’attimo l’insegua perpetuamente frustandola avanti nello spazio, come una dannata che si precipiti senza tregua per non cadere. Non fermarti mai per un minuto, o laboriosa terra!
Così sentivo; e stavo fermo, come se fossi nel punto morto della terra. Avrei voluto pregare i carbonai di lasciarmi lavorare con loro; ma ridevo malignamente e pensavo: Sì, sì, lavorate. C’è sempre dentro di voi il mistero come un piccolo grumo che non si scioglie. Lo portate con voi in tutte le vostre faccende, ed esso sta quieto e buono per darvi l’unghiata all’improvviso. Mangiate il vostro pane e bevete il vostro vino; crescete e moltiplicatevi; perché del pane che mangiate e del vino che bevete si nutre il vostro mistero, ed è l’unica verità certa che i vostri figlioli daranno ai loro figlioli. Incallite le vostre mani e il vostro spirito penetri oltre i tessuti più stretti e sia così limpido da farsi specchio a sé stesso. Torturatevi ogni membro del vostro corpo con tutti gli istrumenti di lavoro, e anche, se volete, buttatevi su un letto comodo e affaticate il vostro spirito. Il mistero non lo estenuate. In che parte di voi è rintanato il piccolo mistero? Potete stritolarvi tutti, e il vostro ultimo sguardo non lo vede. Lo potete anche cercare nelle notti stellate e tra i filoni di ferro, sotto, nell’oscurità, fra le radici delle foreste. Anche, se volete, potete ammazzarvi; ma la palla che passa oltre le vostre tempie non lo brucia, e esso vive in voi anche dopo voi, eternamente, il piccolo mistero che ha fatto questa bella distesa di mare e ha fatto noi e ci ha fatto costruire i piroscafi rossoneri.
Ridevo quasi forte. M’accorsi che mi guardavano. Allora ebbi ribrezzo di me. Stetti duro, fermo. Ero tutto infetto. Mi pareva che una mia parola avrebbe impestato il mondo. Guardai il mare largo, puro, e avrei voluto pregare. Ma no: tutto il mio dolore è mio, tutto il mio strazio è per me solo. E mi rinserrai il petto con le mani, e fui un sussulto di dolore attorto contro sé stesso. Mi parve di poter morire perché il mio segreto bruciava avidamente il mio sangue, rosso, come il sole maledetto che tramontava nel mare.

Perché non lavori? Ricordati che qualcuno ha sperato in te. Ella aspetta, e non è contenta. Ogni minuto che tu implori è un delitto. Pesta il capo dentro il tavolino, ma lavora benedicendola. È giusto che sia morta, perché tu sei un vigliacco.

Mi sedetti al tavolino, presi la penna, cominciai a fare scarabocchi sulla carta, e facevo freghi con su scritto il suo nome. Improvvisamente mi spaventai e corsi allo specchio. Guardavo fisso i miei occhi e mi domandavo: “Sono molto lucidi? Ma Vedrani dice che non si può capire dai segni esterni se uno è pazzo. Non sono pazzo. Sta calmo, Scipio”. Guardavo le cose riflesse nello specchio. Le cose riflesse nello specchio - per legge fisica - sono distanti dagli occhi come sono distanti dallo specchio le cose che si riflettono. Cercavo di calcolare se anch’io vedevo così. “Se mi pesto devo sentire dolore. Ma anche i pazzi lo sentono. Come posso avere una prova esterna che io non sono pazzo? “ Il tappeto nello specchio faceva un angolo con il tappeto reale. Guardavo per la prima volta, come un bimbo. I lunghi fili rossi, i lunghi fili blu. Corsi in stanza da pranzo; c’era Vanda che lavorava. - Ora parlo. - Ma non potevo. Avevo terrore della mia voce. Giravo su e giù. Se fosse strana, e Vanda mi guardasse spaventata?
“Xe in casa mama?” Ma no, no: avevo domandato con naturalezza e semplicità. Tornai in camera mia. Mi buttai per terra, tenendomi stretta la testa; la chiamai, due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte..., e continuai a dire il suo nome lungamente, lungamente, a bassa voce, sempre più piano. Poi mi misi a ninnare: Din, don, campanon - Tre putele xe sul balcon - Una la fila, l’altra la canta, - L’altra la fa putei de pasta - Una la prega sior Idio - che ’l ghe mandi un bel mario... Poi non ricordo più. Mi prese il sopore. Mi rialzai dopo pochi minuti e stetti calmo. Non so per dove passai. Ma molte volte ho pregato la pazzia e la morte.

Vorrei farmi legnaiolo della Croazia. Amo le frondose querce e la scure. Andrei al lavoro camminando un po’ storto a destra per l’uso del colpo, e il lungo manico della scure ficcata in cintola mi batterebbe la coscia.
Il capo mi dà una manata sulla spalla, ridendo tra denti bruni. Il capo è forte e esperto e noi gli obbediamo con riconoscenza. A noi piace esser comandati. Il capo beve petecchio come acqua, e non traballa mai, ma andando coi suoi passi ben piantati vigila dall’alba alla notte il lavoro - e gira per la foresta come una grossa bestia affamata. Se tu non lavori, subito senti dietro alle spalle uno schianto di rami, una risata di cornacchia infuriata e una pedata in mezzo della schiena.
Ma il capo è buono e mi dice: Uh, Pennadoro! Ho scoperto una pianta per te. È dura di cent’anni. Come va la scure? Alla! alla! stavolta mette il primo dente. Il primo colpo, qua. Sentirai che carne!
La mia scure è bella, col manico lungo di rovere, e un occhio quadrato. Ride freddamente come il ghiaccio. È svogliata e pigra, piena di disprezzo. Ama starsene affondata nell’erba guazzosa e contemplare il cielo. Qualche volta si diverte di giocar con le teste dei cespugli e i getti spumosi del frassino. Allora sorride come una bimba della saliva amarognola che le sgocciola sulle guance. Ma più spesso è triste e tetra.
Ah, ma quando si scalda come dà dentro! Dà dentro come una bestia infoiata. Piomba, piccola e chiara, senza respiro, e han! come un tuono che scoppi, è incassata nella carne dell’albero. Tutta l’aria attorno ne vibra, e i fringuelli rompono la nota. Si disficca a stratte per assaporar bene la ferita, si libra a dritta ala per un istante, immobile, e han! è dentro all’ossa. La quercia sussulta drittamente, senza piegarsi, e accarezza con le frondi basse i quercioletti giovani, attorno, per non impaurirli, come se solo il dolce vento del mare la muovesse. La grande quercia è silenziosa come una madre che muore.
Ma la scure canta. La scure s’alza, s’abbassa e canta. Ride rutilante, rossa. È come pazza. Io n’ho paura. Non vedo che questo lampo davanti che fischia e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL MIO CARSO
  3. Indice
  4. Intro
  5. IL MIO CARSO
  6. PARTE PRIMA
  7. PARTE SECONDA
  8. PARTE TERZA
  9. Ringraziamenti