La mitologia Vedica
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La mitologia Vedica

Gli Dei, Yama, I Demoni, Vishnu

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La mitologia Vedica

Gli Dei, Yama, I Demoni, Vishnu

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Questo raro libro dedicato alla Mitologia Vedica contiene quattro preziosi testi: Il Dio e gli Dei, Il Dio Yama, I Demoni e Vishnu, accuratamente selezionati (e prudentemente revisionati) dal corposo volume Letture sopra la mitologia Vedica, pubblicato nel 1874 da Angelo De Gubernatis.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788834147085
Categoria
Religion

I DEMONI

Per la stessa ragione, per cui nel mondo vedico originario non troviamo ancora distintamente indicato il Dio unico assoluto, e ci appaiono invece molti Dei proteiformi, il pastore vedico non concepiva ancora il Diavolo come un essere singolare, unico, potente, rivale di Dio. Vi sono Demoni come vi sono Dei; ma non vi è il Demonio unico come non v’è l’unico Dio. Quando il monoteismo appare, si manifesta pure, se così può chiamarsi, il monodemonismo; e a quel punto la religione iranica si stacca dalla indiana: l’India, nel vero, non ci offre nessun antagonismo così deciso e spiccato come quello che ci presentano i libri zendici nella lotta fra Ahura Mazda e Anhro Mainyu, l’uno genio di luce che crea le cose buone, l’altro genio tenebroso che suscita tutte le forme del male. Nell’India, invece, nel tempo stesso in cui Brahman vi assume dignità di nume supremo, esso non ha contro di sé una sola forma di demonio: com’egli non è solo nell’Olimpo, ove, prima di lui, altri numi potenti, più che imperare, operavano cose mirabili, ed ove più tardi vengono a dividere con esso il supremo potere altri due numi, Vishnu e Çiva; così i Demoni mutano nomi e forme non solo secondo che mutano gli Dei, ma secondo che il Dio si trasforma: Satana e Anhro Mainyu sono sempre conformi a sé stessi, e mantengono costante il loro carattere maligno. I Demoni vedici e brâhmanici, invece, partecipano di tutta la mobilità degli Dei, e, come il Dio si muove dalla forma luminosa e termina nella tenebrosa, così accade che il Demonio si muova dalla forma tenebrosa e riesca alla luminosa; il Paradiso e l’Inferno confinano fra loro; agitandosi, l’uno passa nell’altro; così il Dio e il Demonio scambiano le loro parti. L’appellativo più frequente dato al demonio vedico e brâhmanico è quello di Viçvarûpa od onniforme, e Kâmarûpa, ossia mutante forma a piacere: simili appellativi assumono pure talora gli Dei; ora si comprende come il Dio, potendo pigliare ogni forma, possa pure assumere vesti demoniache, e il Demonio del pari, nella sua capacità di trasformarsi senza fine riesca pure ad appropriarsi le forme luminose divine. Gli Dei come i Demoni sono nati insieme, e, secondo la mitologia vedica, da uno stesso padre, dal fabbro universale celeste Tvashtar.
Noi troviamo dunque perciò ordinariamente accennati al plurale i Demoni vedici, o, quando essi appaiono al singolare, il loro nome è generico, indistinto, come rakshas che vuol dire mostro, oppure specifico di specie molteplici e differenti.
Uno degli appellativi plurali dei Demoni vedici è Dânavas. La parola Dânavas è il plurale di Dânu e si dà come equivalente di figli di Dânu, uno dei nomi attribuiti alla moglie del mostro Vritra, ucciso da Indra, nell’inno 32° del primo libro del Rigveda, oppure di Danu, che appare come figlia di Daksha e sposa di Kaçyapa presso il Çatapatha Bráhmana. Dânu, al neutro, vale, presso gli Inni vedici, rugiada, stilla, goccia; onde i Dânavas apparirebbero gli umidi, nel loro primitivo aspetto. Ma, perso l’antico originario significato della parola, in breve i Dânavas divennero i mostri demoniaci, i nemici degli Dei in genere, e tra questi mostri generici poté quindi trovar posto lo stesso Çushna, secco e disseccatore, il quale trovasi in una delle upanishad definito come un dânava. Dânunaspatî, o signori del Dânu, ossia dell’amore ambrosiaco, sono chiamati in alcuni Inni vedici i due bellissimi Açvin; in quanto i fenomeni rugiadosi dell’aurora mattutina e della primavera si rinnovino nel cielo pluvio, lo stillante divino può diventare un umido demoniaco; e quindi si può forse spiegare la leggenda epica indiana di un figlio della Dea della bellezza, Çrî, la Venere indiana, convertito nel mostruoso Dânava o demonio Kabandha presso il Râmâyana. La parola Kabandha vale propriamente barile; il mostro-barile o Kabandha del Râmâyana ha la sua origine nella nuvola kabandha, ossia nella nuvola-barile degli Inni vedici. Il figlio della Venere ambrosiaca, il figlio di Çrî, che diviene demonio Kabandha, sembra farci assistere particolarmente al fenomeno del cielo pluvio primaverile. E non solo Kabandha è figlio di Çrî, ma tutti i Dânavas sono posti sotto la particolare protezione dell’astro di Venere, del quale si mostrano particolarmente devoti, onde poi gli appellativi di dânavaguru o maestro dei Dânavas e di dânavapûg’ita o venerato dai Dânavas, dati presso l’astronomo Varâhamihira al pianeta Çukra o Venere. Il numero dei Dânavas appare infinito negli scritti brâhmanici; nell’inno 120° del decimo libro del Rigveda se ne rammentano soli sette: così da Sâyana, in nota all’inno 114° del primo libro, si danno anche gli Asurâs come figli di Diti, e si narra che Indra li distrusse in germe nell’utero materno, nel numero di sette. L’appellativo sanscrito di Dâittyâs, o Dâiteyâs, o Ditig’âs, dato, negli scritti brâhmanici, ai Demoni, come figli di Diti, immaginata, come dicemmo in opposizione alla veneranda Aditi, madre dei divini Adityâs, non si trova ancora negli scritti vedici. Tuttavia, come da danu o dânu si ebbero i dânavas, si potrebbe nella parola diti riconoscere la stessa radice o dî (di), che occorre in danu o dânu; onde i dâityas sarebbero gli umidi goccianti come i dânavas, di cui uno pigliò, come dicemmo, forma di nuvola-barile.
Ma vi sono ancora altri appellativi generici dei Demoni negli Inni vedici: i principali sono quelli di dâsâs, di dasyavas, di asurâs, di krishnâs, di pânayas, oltre a quello più comune di rakshasâs o mostri. Nelle parole dâsa, dasyu, parrebbe ancora potersi ritrovare la stessa radice , che occorre in danu e in diti e dâitya; e come vedemmo gli Açvin signori del dânu ambrosiaco, così, presso gli appellativi dei Demoni dasyu, dâsa, troviamo quello degli Açvin dasrâu, quello d’Indra e di Agni dasma. Ma, nelle voci dâsa, dasyu, si videro poi particolarmente i distruggitori malefici, i nemici, le persone volgari. Né solo i Demoni combattuti da Indra, come, per esempio, Çambara, Çushna, C’umuri, ecc., pigliano il nome di dasyu negl’inni vedici, ma ancora le anime dei morti, alle quali non è concesso di salire alle sedi beate; e però esse errano simili alle larvæ dei Latini, in una forma demoniaca, a disturbare l’opera dei devoti. Il nome di dasyu è quindi pur dato agli empii nemici degli Arii, ai ladri, ai barbari irreligiosi. Così dâsa, l’appellativo generico di parecchi Demoni vinti da Indra, come, oltre Çambara, Namuc’i, Pipru, Varc’in, venne poi a significare lo schiavo, il servo, la persona vile. Nel cielo, i Dâsâs o Demoni hanno spose o diavolesse, chiamate Dâsapatnis. Questo appellativo è dato particolarmente alle âpas od acque nel citato inno 32° del primo libro del Rigveda; una nuova analogia che ci dovrebbe confermare nel ravvicinamento etimologico fra dâsa o dasyu e dâitya (da diti) e dânu. Ma, in altri Inni vedici, il dasyu appare più tosto come un genio tenebroso notturno; il 5° inno del settimo libro del Rigveda ci fa sapere che Agni cacciò dalla casa i Demoni ( dasyûn), generando la vasta luce pel devoto ( âryaya). Qui il dasyu appare una specie di fantasma notturno, di larva, di spirito, dissipato dalla luce del mattino; perciò ancora nell’inno 117° del primo libro, a dissipare i Dasyu appaiono i due Açvin, per mezzo del bakura (o vakura) che io interpreterei per carro 6 (dalla radice vedica vak, che nello stesso Rigveda, VII, 21, trovasi adoperata per esprimere il roteare del carro d’Indra comparato al muggito di vacca, tvad vavakre rathyo na dhenâ). E l’ ârya varna che Indra porta innanzi, distruggendo i dasyu, nell’inno 34° del terzo libro (quantunque il dâsa, il dasyu vedico, appaia talora il nemico terreno degli Aryâs), non mi pare potersi interpretare il colore degli Arii, in opposizione al colore dei non Arii, ma semplicemente il bel colore, lo splendido colore, la luce mattutina, che, distruggendo i notturni tenebrosi Dasyu, Indra riporta nel cielo.
Il senso ambiguo che ha la parola spirito nell’Occidente latino ebbe già nell’Oriente indiano la voce asura, propriamente l’essere (cfr. asu, «alito vitale, spirito»). E come gli spiriti servirono poi particolarmente a significare i geni maligni, così gli asurâs, posti in opposizione coi devâs, rappresentarono particolarmente i Demoni. E come lo spirito divenne Spiritus Sanctus, come l’ asura, in zendo ahura, divenne Ahuramazda , il sommo nume dell’Iran, così, nell’India vedica, Varuna, il sommo reggitore del cielo, il cielo stesso, apparve col nome di asuras, ossia di sommo spirito, di spirito per eccellenza, di spirito onnisapiente ( asura Viçvavedâs; Rigveda, VIII, 42). Ma, per lo più, l’ asura o spirito rappresentò lo spirito maligno, e al plurale gli spiriti maligni, la schiera dei Demoni, retta secondo il Çatapatha Brâhmana da Asita Dhânva (forse il nero del deserto, ossia la nuvola scura del cielo), secondo il Mahâbhârata da Baka o Vaka, secondo il Râmâyana da Bali Vairoc’ani, secondo il Kathâsaritsâgara da Mâyadhâra, nome che ci richiama agli Asurâs mâyinas o Demoni magici dell’ Atharvaveda e alla magìa demoniaca o degli spiriti, ossia asuramâyâ dell’ Atharvaveda e del Çatapatha Brâhmana. Ma, mentre, nell’India vedica, l’ asuratva e l’ asurya, più che l’essere demoniaco rappresentano l’essere spirituale, l’essere divino, la divinità, dopo che le leggende brâhmaniche rappresentarono gli asurâs in guerra con i devàs, a causa specialmente dell’ambrosia, l’ asura finì col prendere nell’India brahmanica un aspetto intieramente demoniaco; né ciò soltanto, ma esistendo l’ asura come nemico dei devâs (nell’inno 85° dell’ottavo libro del Rigveda gli asurâs sono anzi chiamati adevâs), si dimenticò l’etimologia della parola (da as «soffiare, spirare, essere»), e si vide nell’ a iniziale un privativo, un nemico del Sura, che valse a significare il Dio, come già di Aditi, nati gli Adityâs, nei Dâityâs non si videro già degli esseri originariamente forse non punto demoniaci, ma dei figli di una Diti nemica della divina Aditi. Così, per un duplice equivoco etimologico, sarebbe nata tutta una serie di Dei o Surâs, per un verso, e di tutta una serie di Demoni o Dâityâs per l’altro.
Ma, dal sin qui detto, mi pare poter constare abbastanza, come, in origine, a quel modo stesso con cui non esisteva ancora un Dio distinto, così non esisteva neppure un distinto Demonio. Il dânu o danu, il dâsa o dasyu, l’ asura, non furono originariamente appellativi di figure distinte demoniache; essi, da principio, erano comuni alle forme luminose celesti e alle tenebrose; ma, per essersi quindi con qualche maggiore insistenza attribuiti ai fenomeni tenebrosi, e per successive combinazioni mitiche e per sopravvenuti equivoci di linguaggio, servirono particolarmente a denominare le forme demoniache.
Ma come i devâs e gli asurâs appaiono quali creature d’uno stesso padre (ora Tvashtar, ora Prag’âpati), così, presso il Yag’urveda nero, essi si mostrano uguali in potenza e in dignità, e dediti entrambi alla preghiera ( brahmanvantas).
Il Tâittiriya Brâhmana, ci fa sapere che la terra in principio era degli asurâs (asurânâm vai iyam agre âsit), ma che, avendo gli Dei chiesto loro un po’ più di posto per sé stessi, ne ottennero tanto quanti essi avrebbero potuto circondarne. Essi si posero ai quattro angoli della terra e l’avvolsero tutta 7. Lo stesso Brâhmana ci dice che i devâs e gli asurâs non si distinguevano gli uni dagli altri. Queste sono pel mitologo nozioni preziose. Una leggenda del Çatapatha Brâhmana 8 spiega in un modo infantile, ma moralmente interessante, il passaggio che fecero i Devâs e gli Asurâs ad uno stato di intera opposizione. - I devâs e gli asurâs creature di Prag’âpati ottennero in sorte dal loro padre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. LA MITOLOGIA VEDICA
  3. Indice
  4. Intro
  5. IL DIO E GLI DEI
  6. IL DIO YAMA
  7. I DEMONI
  8. VISHNU
  9. NOTE
  10. Ringraziamenti