J'accuse! L'affare Dreyfus
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J'accuse! L'affare Dreyfus

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J'accuse! L'affare Dreyfus

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J'Accuse! ( Io accuso! ) è il titolo dell'editoriale rivolto dallo scrittore e giornalista francese Émile Zola, in forma di lettera aperta, al presidente della Repubblica francese Félix Faure e pubblicato il 13 gennaio 1898 dal giornale socialista "L'Aurore", con lo scopo di denunciare pubblicamente i persecutori del capitano Alfred Dreyfus, le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo che lo vide condannato per alto tradimento, al centro di uno dei più famosi affaires della storia francese.

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Informazioni

PARTE SECONDA

I. Sepolto vivo
I giudici militari, non così completamente traviati come i loro superiori avrebbero voluto, nell’emanare la condanna contro un uomo di cui essi conoscevano l’innocenza, non ebbero il coraggio di sentenziarne la fucilazione. Pena che, pel delitto onde il Dreyfus era accusato, non poteva non applicarsi e la modificazione della quale sorprese fino al delirio l’intera Francia.
Perché, come tutti logicamente avevano preveduto, o dal processo il Dreyfus risultava innocente, ed allora niente condanna, o risultava reo, ed allora la fucilazione. Il dilemma era breve e chiaro.
Ma così non fu: le ragioni di ciò le abbiamo abbastanza spiegate innanzi.
Ora una simile condanna certo non poteva andar molto a sangue a coloro che tenevano tanto a far sparire dalla faccia della terra l’uomo la prova della cui innocenza li avrebbe perduti. Prova che, lui vivo, poteva un giorno o l’altro venire a galla, e, lui morto, non se ne sarebbe parlato più.
Allora pensarono di gettarlo a marcire nella tremenda Isola del Diavolo, impedendogli qualunque comunicazione col mondo, e infliggendogli i più duri castighi per trascinarlo al più presto nella tomba.
Sei persone furono addette a sorvegliarlo, le quali dovevano tener informati i loro superiori di tutti i più piccoli atti del prigioniero, non perdendolo di vista un sol momento, con l’ordine di non rivolgergli mai la parola, in nessuna circostanza e sotto nessun pretesto. In tali terribili condizioni il Dreyfus, per non farsi vincere dalla noia, e per scacciare lungi da sé quella malinconia che tanto l’opprimeva, nel luglio del 1895, chiese di volersi occupare in lavori di falegname. Fu respinta però la sua domanda, temendo che egli volesse servirsi dei ferri di quel mestiere, allo scopo di poter favorire la propria evasione.
Nel 1896 aumentarono i rigori; il 4 settembre lo misero ai ferri; ed ordinarono che fossero sequestrate tutte le lettere a lui dirette, ed impedito l’invio di derrate alimentari.
Per un non giustificato sospetto di fuga, lo misero ai ferri per quarantaquattro giorni. La casupola che abitava fu circondata da una palizzata, che gl’impediva di vedere il mare.
Il 9 giugno 1897 verso le nove di sera, i suoi guardiani rapportarono di aver visto partire un razzo dall’isola; al che immediatamente il loro capo telefonò, chiamando soccorso, alla vicina Isola Reale.
Nello stesso momento si vide avanzare una grossa goletta all’entrata del golfo formato dalle Isole di S. Giuseppe e del Diavolo.
«Ordinai – scrive il sorvegliante – di tirare tre colpi di cannone a polvere. Appena questo fu fatto la goletta virò di bordo e scomparve.
Alle ore 9,25, cioè appena sparati i tre colpi, il sorvegliante si recò alla casa di Dreyfus.
Al rumore delle detonazioni il deportato si era svegliato, e si trovava seduto in mezzo al letto, immobile. I suoi occhi, a quanto afferma l’agente, scintillavano di bagliori strani.
Più tardi, ai principii del mese di agosto dello stesso anno, si fece mutare dimora al prigioniero; il quale condotto in altra parte dell’Isola micidiale, esclamò:
— Ah! è qui che mi si vuol seppellire!
Le torture maggiori del condannato erano le prove a cui lo si sottoponeva continuamente, perché, pur non essendo colpevole, si confessasse reo di quella colpa che gli addebitavano. Ma il capitano protestava sempre la propria innocenza, ciò faceva arrabbiare coloro che volevano farlo passare per traditore.
Essi pretendevano che il Dreyfus fosse pel primo convinto di aver commesso il delitto imputatogli, sol perché ne scontava la pena. Così, dal momento che egli era stato punito, doveva aver commesso senza dubbio la cattiva azione imputatagli.
Quando il padrone calpesta un piede per inavvertenza al cane, l’animale crede che lo si è fatto del male, perché è colpevole di qualche cosa che non avrebbe dovuto fare e corre subito ad accucciarsi in un canto, guardando il padrone con occhi supplichevoli, come se lo pregasse di perdonarlo dell’involontario fallo.
I Mercier, i Paty du Clam, i Gonse e compagnia bella, avrebbero desiderato che il Dreyfus si fosse fatto guidare dalla stessa logica del cane. Ma invece egli non si stancava di gridare a voce alta la propria innocenza. Ed il 15 agosto del 1896, singhiozzando, così si espresse:
— Il comandante De Paty du Clam mi promise, sul suo onore di soldato, che avrebbe continuato le ricerche per scoprire la verità. Non avrei mai pensato che dovessero durar tanto.
Il 31, non ricevendo lettere della famiglia pianse lungamente, dicendo:
— Sono dieci mesi che soffro orribilmente!
Il 2 ottobre avendo ricevuto in una volta quattordici lettere, esclamò, dopo lunga riflessione:
— È da parecchio tempo che avrei dovuto cacciarmi una palla nel cervello. L’avrei fatto se non avessi moglie e figli!
E quello stesso giorno volle telegrafare queste parole:
«Ricevuto lettere, salute buona, Baci.» ma gli fu formalmente vietato di farlo. Divieto che fece passare al disgraziato tutto il resto di quel giorno seduto sopra uno scoglio in faccia al mare, a piangere amaramente.
Trascorse più di un altro anno in queste alternative di continui dolori. Infine, stanco ed esaurito, in un momento di profondo scoraggiamento, chiese alla farmacia della prigione un veleno, per porre termine alla sua penosa esistenza.
«Quando mai – esclama – si crederà che sono una vittima? Se ci sono colpevoli si devono trovare. È il Ministero della Guerra, che mi ha colpito per coprire infamie commesse da altri!
Gli 11 dicembre 1897, disse al medico:
— Dottore, sono stremato di forze, temo anzitutto di perdere il cervello. Preferisco morire. Già sono sulla via di andarmene. Soltanto vi prego di tenermi su ancora per un mese. Se allora non avrò ricevuto notizie della mia famiglia sarà la fine. Non temo la morte.
Durante quattro anni scrisse ai suoi mille lettere, così piene di turbamento, così emozionanti che il comandante dell’isola della Salute proibì ai custodi di leggerle, temendo che divenissero meno rigorosi.
Nel febbraio del 1895, si lagnò, accusando palpitazione di cuore e accessi di soffocazione.
Disse:
— Nulla potete fare: il mio male dipende dalla mia situazione.
Chiese nondimeno un medico; gli fu rifiutato.
Nel 1896 ebbe violenti accessi di febbre. Una notte di giugno, tentando di alzarsi, cadde entro una cassa di immondizie e si ferì al viso e alla fronte. Dovettero rialzarlo. Fu colpito da sincope.
Faceva spesso uso di cloralio.
La Petite Rèpubblique racconta che appena trasportato all’isola del Diavolo, si era stabilito di assassinare Dreyfus al minimo sospetto di fuga; e che si organizzarono parecchie congiure per tendergli agguati, nei quali egli cascò.
Un giorno gli fecero pervenire un telegramma infame, in cui gli si annunziava che la moglie aveva partorito.
E questo quando il prigioniero si trovava sepolto vivo già da due anni!
Nell’apprendere l’orribile notizia Dreyfus svenne, e per tre mesi non scrisse alla famiglia. Ma tornato in sé stesso, e soprattutto interrogando la sua coscienza sul conto di quell’angelo che egli aveva scelto per compagna della sua vita, capì che era stato vittima di un’infame calunnia. Temprò l’animo suo, e superando con coraggio più che umano ogni nuova tortura, sopportando in pace perfino il supplizio dei ferri, nei quali era spesso stretto senza alcuna ragione, attese fiducioso l’ora della giustizia che doveva scoccare, per salutarla con tutte le forze di chi, privato iniquamente della vita civile, sa che un giorno dovrà ad essa di bel nuovo rinascere!

II. Il sangue di Abele
Alfred Dreyfus, dal fondo dell’Isola del Diavolo, indirizzò moltissime lettere a Felix Faure, che successe a Casimir Perier, alla presidenza della Repubblica Francese. Ma il Faure, non sappiamo se più o meno colpevole del Perier – il quale pur avendo dei sospetti sulla condanna del Dreyfus, si dimise dalla sua alta carica, senza chieder conto ai generali del loro operato, prolungando così l’agonia del povero innocente – Il Faure, dicevamo, non sappiamo se più o meno colpevole del Perier, lasciò senza risposta né si curò delle lettere che il Dreyfus gli inviava.
Eppure il linguaggio dell’infelice avrebbe mosso a compassione un cuore di bronzo.
Riportiamo qui alcuni brani staccati da una di quelle lettere, che, a parte qualunque prova giuridica, basterebbero a dimostrare l’innocenza lampante del suo autore.
Alfred Dreyfus il 1897 così scriveva:
Signor Presidente,
Io vi aprirò il mio cuore, certo che mi comprenderete, e domando soltanto la vostra indulgenza sulla forma e sulla sconnessione del mio pensiero.
Ho sofferto troppo, sono troppo rovinato moralmente e fisicamente, ho il cervello troppo confuso per poter fare ancora lo sforzo di raccogliere le mie idee.
Ciò che ho sofferto dal principio di questo dramma, solo il mio cuore la sa. Spesso ho invocato la morte con tutte le forze.
Mi sono sottomesso legalmente, scrupolosamente a tutto; sfido chiunque a farmi il rimprovero d’un atto scorretto. Non ho mai dimenticato, non dimenticherò mai, finché avrò vita, che in questa orribile faccenda s’agita un doppio interesse: quello della patria, e quello mio e dei miei figli, tutti egualmente sacri.
Sotto le ingiurie più abbominevoli, quando il dolore diveniva tale che la morte mi sarebbe stata un beneficio, quando la mia ragione si annientava, quando era tutto straziato nel vedermi trattato come l’ultimo dei miserabili, quando, infine, un grido di rivolta sfuggiva dal mio cuore al pensiero dei miei figli che crescono e il cui nome è disonorato… è verso voi, signor Presidente, è verso il Governo del mio paese che si elevava il mio grido supremo, è da quella parte che si volgevano i miei occhi, il mio sguardo desolato.
Certo ho avuto momenti di collera, atti di impazienza, mi son lasciato talvolta sfuggire tutta l’amarezza che può scaturire da un cuore ulcerato, divorato da affronti, straziato nei suoi sentimenti più intimi. Ma non ho dimenticato mai un sol momento che al di sopra delle passioni umane c’è la patria.
Eppure la situazione che mi si era fatta è diventata ogni giorno più atroce; i colpi han continuato a piover su di me senza tregua.
Aggiungete al mio dolore così atroce, così intenso, il supplizio dell’infamia, quello del clima, della quasi reclusione… Vedermi oggetto del disprezzo spesso non dissimulato e del sospetto costante di quelli che mi custodiscono notte e giorno, non è troppo, signor Presidente, per un essere umano che ha fatto sempre e ovunque il suo dovere?
La mia misera condizione non ha pari; non c’è minuto della mia vita che non sia un dolore; quali che siano la forza d’animo, la coscienza d’un uomo... io non reggo... e la tomba mi sarebbe un beneficio.
E allora, signor Presidente, in questa desolazione profonda dell’essere torturato dai supplizi, in questa situazione d’infamia che mi spezza, nel dolore che mi stringe la gola e mi soffoca, col cervello allucinato pei colpi che mi percuotono senza tregua, è a voi e al Governo del mio paese che lancio il grido d’appello, certo che sarà ascoltato...
Io domando al mio paese di fare la luce piena e intera su quest’orribile dramma, perché il mio onore non gli appartiene: è il patrimonio dei miei figli. E domando pure con tutte le forze dell’anima mia che si pensi alla situazione atroce, intollerabile, peggior della morte, di mia moglie, dei miei, che si pensi pure ai miei figli, ai miei cari bambini che crescono, che sono dei paria, perché si facciano tutti gli sforzi possibili, tutto quello in una parola, che è compatibile con gli interessi del paese per mettere fine al più presto al supplizio di tanti esseri umani.
Anche un fanciullo, leggendo una simile lettera, non esiterebbe un sol istante a gridare che chi scrive in tal modo non può essere colpevole. Solo la verità e l’innocenza possono dettare frasi così commoventi. E poi, notate bene, il Dreyfus, non è per sé che chiede sia fatta la luce sul processo, non per riacquistare la propria libertà, e por termine a tutte le torture di cui era vittima. No!
Egli tira in campo un argomento innanzi a cui non si deve resistere: l’onore della sua famiglia macchiato, l’avvenire dei suoi figli compromesso e per sempre! Con qual cuore il signor Faure, dava al cestino questo monumento di pietà, senza che una sola voce mormorasse nella sua coscienza d’interessarsi ad un così grande disgraziato?... Ma Felix Faure non è più; in questo momento si trova al cospetto di un Giudice pel quale non esistono né dossiers segreti, né ragioni di Stato, ed avrà già reso conto dei suoi torti. Lasciamo a questo Giudice supremo il premio e la pena che spetta ai trapassati, e noi torniamo ad occuparci di coloro il cui operato appartiene ancora ai giudici di questo mondo.
La verità porta in sé una forza di penetrazione che non hanno affatto né l’errore, né la menzogna. Se questo grande assioma umano avesse guidato la coscienza dei carnefici di Dreyfus, se esso si fosse una sola volta presentato alla loro chiaroveggenza, certo non avrebbero dormito sonni tranquilli, né si sarebbero affannati a gettar l’acqua sul fuoco, sapendo bene che, un giorno o l’altro, la verità doveva brillare di quella sua fulgida luce, che la fa scorgere dai punti più lontani, essendo essa la lanterna di quell’abbagliante faro che si chiama giustizia.
Dopo tre anni, tre lunghissimi anni dalla infame condanna che relegava Alfred Dreyfus all’isola del Diavolo, son cominciate a venir su le prove della sua innocenza.
Una rivista Inglese « Il Mondo ebraico» sotto il titolo «I tre anni di silenzio» pubblicò un’originalissima corrispondenza da Parigi, ricordando come l’ex-capitano Dreyfus, aveva predetto, il giorno dopo la sua degradazione, o che in capo a tre anni la sua innocenza sarebbe dimostrata, o che egli si sarebbe fatto saltar le cervella.
L’ex-capitano calcolava che solo dopo tre anni la sua innocenza poteva essere riconosciuta, perché per tale epoca il colonnello Schwartzkoppen, addetto militare tedesco a Parigi, doveva essere tornato a Berlino, ed il governatore di Parigi, generale Saussier, avrebbe raggiunto quel limite di età che doveva farlo andare al riposo.
Siano queste, siano altre ragioni, certo che dopo essere stato avvolto per tre anni nelle tenebre, l’affare Dreyfus incominciò a tormentare gli animi della folla in tal modo che la Francia ne fu perturbata.
Il primo a muovere in favore del Dreyfus fu, quantunque incoscientemente, un giornale americano, che, non sappiamo fondandosi su quali basi, dava notizie precise sull’evasione del condannato dall’Isola del Diavolo e narrava i particolari più strani intorno alla fuga, dando perfino le cifre in due milioni di franchi, che essa sarebbe costata al fratello ed alla moglie del Dreyfus, che ne erano stati gli organizzatori; e che per procurarsi una somma così rilevante, avevano dovuto ricorrere all’aiuto dei banchieri ebrei più facoltosi, tra cui si fece perfino il nome dei Rothschild. In tal modo la cosa diventava possibilissima.
Una nave americana o tedesca – era questo l’unico dubbio del giornale americano – si era avvicinata di notte all’isola della Guiana; dopo aver incrociato al largo per un buon pezzo, gli uomini dell’equipaggio erano riusciti a mettere in salvo il condannato, corrompendo due guardiani con l’oro, ed ammazzando a colpi di pugnale gli a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. J’ACCUSE! L’AFFARE DREYFUS
  3. Indice
  4. Intro
  5. J’ACCUSE! L’AFFARE DREYFUS
  6. STORIA DEL PROCESSO DREYFUS
  7. PARTE PRIMA
  8. PARTE SECONDA
  9. PARTE TERZA
  10. Ringraziamenti