La rivolta ideale
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La rivolta ideale (1908) è l'ultima opera dello scrittore Alfredo Oriani. Di stampo marcatamente nietzschiano, auspica l'avvento sulla scena politica nazionale di una personalità carismatica, capace di risollevare i destini della patria; al contempo afferma la necessità di creare uno Stato capace di esercitare un controllo stringente sulla vita dei propri cittadini. L'importanza dell'opera di Oriani va ricercata nell'influenza che essa esercitò sugli ambienti intellettuali nel periodo della Prima guerra mondiale. In particolare ottenne il consenso entusiastico del gruppo intellettuale legato al giornale La Voce (Papini, Prezzolini, etc.); lo stesso Gobetti ne venne colpito. Gramsci scrisse a proposito del libro, definendolo l'«unico tentativo un po' serio di nazionalizzare le masse popolari, cioè di creare un movimento democratico con radici italiane ed esigenze italiane». L'opera, ed in generale la figura stessa di Oriani, diventeranno un punto di riferimento culturale degli intellettuali fascisti, tra i quali è possibile annoverare Berto Ricci e Romano Bilenchi. Mussolini in persona considerava Oriani come un profeta della patria, come un anticipatore del fascismo, un esaltatore delle energie italiane. Il titolo dell'opera verrà poi ripreso da un giornale fascista, La rivolta ideale appunto, fondato nel 1925. Alfredo Oriani (Faenza, 22 agosto 1852 – Casola Valsenio, 18 ottobre 1909) è stato uno scrittore, storico e poeta italiano.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2019
ISBN
9788834189238

L'individualismo

La natura creò l’uomo, la storia si affatica ancora nella creazione della sua individualità.
Il tempo di tale fatica cresce al di là di tutti i nostri computi nell’oscuro segreto delle origini e nella tenebra ancora più profonda del fine, al quale vita e storia s’indirizzavano; non sappiamo e non sapremo mai quali fummo ai nostri primi giorni, quando fra i viventi apparimmo nella libertà del pensiero. Perchè l’uomo solo è libero nella natura così da contrapporre l’opera propria alla sua e di negare in sè stesso la vita. Che la storia cominci da una caduta e da un esiglio come nel mito biblico, o piuttosto si sviluppi dalla natura, nella quale la nostra animalità è immersa, e i nostri istinti ci rendono parenti quasi tutti i mammiferi, certamente l’ascensione della nostra individualità fu lenta e dolorosa. Era una legge dello spirito o soltanto la resistenza, che l’animalità gli opponeva? In ambo i casi il mistero resta egualmente tragico, poichè in tale sviluppo l’uomo stesso fu sagrificato all’uomo.
Se dall’impossibilità di non riconoscere un disegno nella storia siamo tratti irresistibilmente a supporle una finalità, tosto il nostro pensiero soccombe alla contraddizione del processo, che sacrifica l’uomo all’uomo ed immola generazioni e popoli alla realizzazione di un solo carattere spirituale.
L’espediente di negare nella storia il progresso la-sciandovi le genti solitarie e slegate nel tempo, che riempirebbero a vicenda della propria breve vita, non ci salva dall’angoscia del problema; anzitutto l’evidenza della continuità e del progresso è irrecusabile nel quadro storico, poi questi popoli che non comporrebbero una umanità, le loro cronache che non esprimerebbero una storia, l’unità degli individui che non basterebbe all’unità della specie, le leggi supreme dello spirito che si negherebbero scambievolmente nella frammentaria esistenza delle società, le categorie della logica e della vita, tutto ridiventerebbe anche più incomprensibile. Fuggenti figure di un quadro, nel quale i nostri occhi non possono andare oltre l’ondeggiamento dei primi piani, mentre il pensiero l’attraversa a volo, dobbiamo ignorare il motivo della sua composizione e non comprendere l’essenza delle stesse leggi, che scopriamo, sentendo in ognuna delle nostre affermazioni il limite di una negazione; siamo condannati all’interpretazione della storia pur sapendo che nessun sistema le contiene, benchè la verità della sua logica sia identica a quella della loro: credenti ed increduli ci crediamo egualmente il centro più importante dell’universo nel pensiero, col quale lo creiamo in noi stessi. La coscienza ci dice che soltanto la nostra ideale figura può essere lo scopo della nostra vita, e che ci bisogna vivere nella passione del vero, nell’opera del bene creando colla medesima potenza della prima creazione un’altra volta noi stessi in un’altra anima, mentre la storia ci mostra invece nel suo mobile panorama una strage ininterrotta, l’uomo che strazia l’uomo: tutte le sue pagine grondano sangue e le macchie del sangue restano in quelle, dalle quali le figure disparvero: nella sua voce trema il lamento dei secoli, ne’ suoi trionfi bruciano i fuochi dei martirii, nella sua immortalità i buoni non rimontano quasi mai dalla umiliazione alla gloria.
Eppure il nostro pensiero deve egualmente affermare che la storia è una rivelazione dello spirito a sè stesso, una educazione, nella quale questo si libera grado a grado dalla natura plasmando la propria figura ideale come un modello. Così la perfezione, che ognuno raggiunge, si trasmette nel segreto delle generazioni propagandosi colla religione e coi codici, coll’arte e colla scienza: la graduazione umana è nei gradi di tale opera spirituale: la nostra grandezza e la nostra solidarietà in questa opera medesima.
Dentro l’immenso processo, l’umanità essendo scopo a sè medesima, il risultato rimane negli individui, che si succedono; la coscienza individuale si forma dalla coscienza collettiva con una legge misteriosa di composizione, nella quale idee e sentimenti s’integrano. Da regione a regione, da secolo a secolo, la civiltà passa per vie visibili ed invisibili: una solidarietà profonda si rivela tratto tratto nelle soluzioni dei massimi problemi o si ripete nella struttura dei periodi e nei quadri delle epoche. Per ogni popolo vi è un’opera, che contenuta nella sua individualità si compie nella sua vita; le accidentalità dei corsi e dei ricorsi esteriori possono ingannare il pensiero, molte volte tale opera resterà oscura e parrà dimenticata, mentre sopravvive invece nella continuità delle idee e dei sentimenti, che mantengono la vita nell’umanità. Per ogni popolo quindi la potenzialità storica si esprime nella potenza della sua astrazione: in questa soltanto, nella quantità e nel modo che esso pensò il problema della propria vita, nella religione, nell’arte, nella filosofia, nella giurisprudenza, nella guerra, è il segreto della sua individualità.
L’uomo vive come sente e pensa sè stesso: è sempre la sua segreta ideale figura che gli serve di modello: sono sempre i rapporti, i quali ha potuto ascendere nella astrazione, quelli che si sforza di realizzare nell’opera.
Il posto di ogni popolo nella storia è misteriosamente, anticipatamente fissato nel grado della sua individualità: questa potrà diversamente significarsi, prevalere nella religione o nell’arte, nella scienza o nella guerra, ma l’opera non la sorpasserà mai. Così nel tempo della storia vediamo tutti i popoli compiere lo stesso ufficio civile sforzandosi a preparare qualche idea o le sue condizioni di sviluppo, e in questo sforzo esaurirsi.
La preistoria è il prologo della storia, che sbozza caratteri e figure: tutto vi è rudimentale, l’animalità prepotente esige il sagrificio umano, l’astrazione è appena sensibile nella legge che è soltanto un costume, nella religione che s’inizia in un rito, nella giustizia che si rivela in un lampo, nella pietà che comincia in un tremito e sopravvive in un ricordo. La sopravvivenza appare quindi come la massima pregiudiziale nella preistoria, dentro la quale la guerra è ancora più viva contro la natura che fra gli stessi gruppi umani: laonde tutto lo sforzo urge sui caratteri domestici. Quando il selvaggio non amerà soltanto nell’amore di razza, ma sentirà nella piccola vita del figlio un mistero, l’uomo comincerà a rive-larsi in lui. La preistoria non va oltre l’accenno dei maggiori caratteri umani, nella storia si apre la tragedia.
La storia erompe dalla contraddizione della indivi-dualità singola coll’individualità collettiva, dal sacrificio del pensiero e della volontà ad una legge superiore. Ogni dramma scolpisce quindi le proprie figure: tutte le volte che l’universo cresce nel pensiero umano l’uomo cresce in sè stesso, qualunque rapporto stabilito colla divinità muta quelli fra uomo e uomo. E tutto è reciproco: le azioni s’invertono, è la figura del figlio che perfeziona quella del padre, il tipo del cittadino che migliora quello del soldato, la spiritualità degli Dei che solleva gli spiriti umani.
Se la nostra coltura lo consentisse, dovremmo scrivendo la storia cercarne il rapporto nella coscienza degli uomini medii, giacchè le massime figure, uniche visibili, rappresentano nella storia piuttosto le intenzioni che ì risultati. Ma questa ricerca sarà sempre impossibile; ci bisogna quindi tentare tale scoperta nei caratteri più decisivi di una civiltà supponendo che in essi soltanto la folla potè attingere i modi della propria vita. L’impressione di tali caratteri sulla moltitudine sarà stata lenta in tutti i tempi: nessun statuario scolpì come la storia in materia più dura, l’anima umana si lascia scalfire mero del porfido. Da secoli e secoli le più belle verità della morale, le più grandi parole della filosofia fu-rono pronunciate senza che il maggior numero dell’umanità le abbia ancora imparate: da secoli e secoli gli eroi si votano in olocausto perchè l’umanità diventi degna di loro e di sè stessa. Ma indarno. Parrebbe quasi che non l’animalità resista in noi all’azione dello spirito, ma lo spirito stesso. Dopo duemila anni la grande anima dei vangeli non è ancora la nostra anima: malgrado la perfezione astratta dei tipi e dei nostri rapporti domestici oggi la famiglia è ancora un gruppo d’interessi antagonisti, invece di essere la nostra prima unità spirituale.
L’innumere sacrificio umano depone contro l’umanità: tutte le idee vi sono cresciute nel sangue, i fiori più belli dello spirito non vollero altro concime; la nostra solidarietà è pari alla nostra ingratitudine, dimentichiamo il passato e nell’egoismo del presente neghiamo di sottomettere la nostra opera al futuro.
Oggi come sempre, in questa prima universalità della storia, dentro al più grande dei trionfi civili, l’anima della moltitudine non pare cambiata.
Ma l’uomo moderno sorge incomparabilmente mi-gliore dell’antico.
La storia non mutò il proprio processo, ma l’attenuazione ne appare ormai visibile a tutti. In ogni tempo la schiavitù per la legge misteriosa della contraddizione fu la condizione pregiudiziale della libertà: bisognò che moltissimi fossero schiavi perchè si sviluppassero nell’anima dei padroni alcuni caratteri: come nella preistoria spesso l’uomo dovette essere cibo all’uomo, così nella storia le aristocrazie furono un focolare che i piccoli alimentarono di sè medesimi nell’interesse di tutti; e l’impermeabilità dello spirito umano era tale che un sentimento e una idea non potevano penetrarvi simultaneamente. Spesso anzi per renderli accettabili fu necessario mascherarli con simboli religiosi o armarli di pene, più spesso ancora accompagnarli d’ignobili concessioni a sentimenti o a idee inferiori, dalle quali l’umanità non voleva uscire.
Qualche volta nella elaborazione storica l’idea appare prima che le condizioni della sua realtà sieno preparate, tal’altra invece il terreno aspetta lungamente il seme: come in ogni altro campo le semenze falliscono e le vicende delle stagioni uccidono il germoglio o il frutto: è d’uopo quindi ritentare, rifare colla ostinazione del bisogno e la caparbietà dell’istinto, perchè l’opera finalmente trionfi. Ma anche nella vittoria nulla pare ben sicuro: vi sono sempre ecclissi in tutti i meriggi, perdite in ogni guadagno: tra vincitori e vinti nessuno può giudicare, poi il tempo li cancella, e allora soltanto appare il risultato della guerra.
Quasi sempre l’errore è nella storia la maschera della verità.
Mentre una idea solleva e muta la coscienza di un popolo, la compagine di questo non può mutare negli interessi, nei vizi, nelle passioni che hanno già tessuta la sua vita: quindi la nuova idea, che dovrebbe contraddirli, li seduce invece con qualche sua falsa apparenza servendosi delle loro forze al proprio scopo. La verità procede velata: la rivelazione comincia soltanto nella morte: ecco perchè i viventi non sanno mai il segreto della loro opera. Tutto sembra contraddirsi, filosofia e scienze, libertà ed autorità: la vittoria dell’uno diventa oppressione dell’altro, le bestemmie dei vinti sono quasi sempre giuste come gli osanna dei vincitori, mentre il trionfo si compie invece inavvertito nel fondo delle nuove coscienze. Azione e reazione sono dunque ugualmente necessarie; senza la pervicacia dell’opposizione gli eroi e i martiri non sarebbero, e la loro idea non avrebbe la necessaria irresistibile forza di penetrazione. Quando un popolo è esausto e un’epoca conclusa, una malinconia cade come un crepuscolo iemale: ricordate il tramonto dell’impero romano? Tutta la civiltà affondava, i barbari struggevano senza capire, i cristiani pregavano in un sogno; Roma era morta, il mondo pareva morire con Roma. E invece il sogno cristiano era già la visione di un nuovo mondo, e l’ignoranza dei barbari una verginità, sulla quale lentamente la verità e la bellezza antica rifiorirebbero.
Così nella storia ad ogni individualità, che non può perfezionarsi, succede un individuo, che ne deve sviluppare un’altra profittando di quanto la prima potè davvero assimilarsi: nessuna verità, nessuna virtù viene meno nell’anima umana; mutano solamente tempo, luogo, espressione ingannando spesso i più acuti osservatori. Ma nulla si perde nello spirito come nella natura: questa rifà in alto ciò che sembra distruggere in basso, quello dissolve nella luce ciò che prima mostrava nella penombra.
Come l’arte raggiunge la perfezione nascondendosi nell’opera, la storia si dissimula nei risultati: tutta la sua grandezza è nei mezzi e la gloria nelle catastrofi: poi le vittorie diventano invisibili, senza che la gente vivendone immagini nemmeno quali sacrifici abbiano potuto costare.
La differenza fra l’antica monarchia e la moderna democrazia è nella coscienza della individualità, che noi sentiamo pari a se stessa in tutti i suoi momenti, e che allora rimaneva invece dispari nel sovrano e nel suddito: ma quanti secoli occorsero per pareggiare tale differenza?
Nella schiavitù la catena dello schiavo è saldata al polso del padrone e gli impedisce come all’altro di muoversi nella libertà: l’insofferenza comincerà quindi prima nel padrone che nello schiavo: per emancipare questo bisognerà innalzare quello; l’ideale umano soltanto nella uguaglianza delle anime potrà in entrambi rompere la schiavitù.
Le aristocrazie dominatrici per compensare in se medesime il guasto del proprio privilegio dovettero crearsi un ideale eroico, nel quale svolgere la spira della propria individualità: così un’altra schiavitù con formule, riti, limiti anche più rigidi gravò sul loro orgoglio, che fu libero solamente dentro la necessità di sviluppare il proprio carattere.
Quasi tutta la funzione politica delle grandi nazioni non si compiè altrimenti: al disopra della legge la religione temperava il disaccordo in una più vasta unità, al disotto della legge l’anonima forza della vita avvicinava e livellava i viventi. Ma sempre l’individuo, per crescere ebbe bisogno di guarentirsi dentro qualche coccia: caste, corporazioni, ordini non ebbero altro ufficio: sviluppare in una quantità d’individui un carattere, che diventato permanente si affermava come un privilegio, finchè lentamente, sicuramente si riconfondeva con tutti gli altri.
La più alta espressione politica è dunque l’individualismo.
Finchè l’individuo per assicurare una propria qualità ha bisogno di una legge che lo difenda e limiti, la sua personalità è ancor minorenne: finchè per operare l’uomo deve annullarsi in una folla o per affermare il proprio diritto umano sottomettersi tutto alla propria classe, la sua coscienza è ancora inferiore.
La formola della libertà è l’associazione fra discordi: quale è dunque l’individualismo nella democrazia moderna?
Adesso la negazione più viva di questo appare nel socialismo, che non potè mai diventare un sistema.
Ma la forza di un’idea si esprime appunto nel suo sistema, che poi la storia assimila nella propria creazione; il socialismo, cominciato nella utopia finisce nella critica alla democrazia borghese pur rimanendo chiuso nei principii e nei vizi di questa. Non ebbe moto nè di religione, nè di filosofia, nè di scienza, nè di arte: la parità economica, che egli vorrebbe trasportare dall’astrazione della legge nella realtà della vita, era già contenuta nella parità civile dell’elettorato, e non potè mai uscirne che nel sogno, perchè l’uomo è uguale all’uomo soltanto nello spirito: la partecipazione della classe operaia al governo era già del pari affermata nel principio elettorale e nella giustizia dei nuovi codici: la libertà di tutti gli individui in tutti i gruppi fu la grande conquista della rivoluzione borghese.
Questa disciolse i vecchi ordini, equiparò gli individui nella famiglia, dichiarò inviolabile coscienza e domicilio, lo stato indipendente dalla chiesa, la chiesa libera in se stessa. Adesso il socialismo applica contro l’egoismo borghese le ultime conseguenze della rivoluzione borghese: è una critica e non una creazione. Le sue negazioni non sono che formali e nega la proprietà e la patria, ma non ha nemmeno nel sogno il quadro di una futura umanità senza l’una e senza l’altra: il suo cosmopolitismo è quindi vuoto, e la proprietà da lui negata in alcune forme immobiliari sopravvive dentro di lui nelle forme mobili. Nella storia immagina colla puerilità dei metodi più antiquati un sopruso di pochi forti su molti deboli ed afferma la prevalenza dei motivi materiali sopra gli spirituali; nelle religioni sopprime Dio senza sostituirvi nemmeno l’umanità, che nel recente materialismo storico perde così la propria individualità. L’umanità ingiusta ieri come diverrebbe giusta domani? Che cosa sarebbe la nuova giustizia, dalla quale i morti resterebbero esclusi? Che cosa è una verità senza passato? Nel socialismo stato e governo si confondono: l’uno e l’altro non sono che strumento di oppressioni nelle mani delle classi dominanti: non vi è dunque più storia, giacchè questa si forma appunto col deposito delle verità in tutte le epoche, e tutte sono egualmente vere e tutte compongono l’idea della umanità. Stato e governo invece sono le due più importanti astrazioni realizzate di ogni tempo, due modi della stessa individualità nazionale che a traverso il presente trasmette il passato all’avvenire: il presente può violarle colle sue effimere esigenze, non crearle, non distruggerle.
L’affermazione socialista della lotta di classe non ha alcuna originalità: ovunque e sempre classi, corporazioni lottarono così: era ed è una debolezza dei loro individui ancora incapaci di sdoppiare in se medesimi il proprio immediato interesse di categoria dall’altro più vasto della loro individualità nazionale; quindi falsificandosi affermano soltanto quello. Ma tale affermazione, se così può raggiungere nella lotta maggiore efficacia, è una suprema confessione d’impotenza, e la più profonda abdicazione al governo, che invece è sintesi di vita.
Invece per una delle solite inversioni i socialisti vi partecipano entrando nella necessità della storia, che dissipa tutte le utopie.
Infatti la meravigliosa sofistica di Marx è già abbandonata e quotidianamente la critica socialistica si smente accettando nella pratica quanto nega nella teoria. La stessa potenza d’irrigimentazione, che adesso forma la gloria e la forza del socialismo è una conseguenza e un plagio borghese: prima furono le grandi fabbriche ad insegnare l’alfabeto della politica nelle società di mutuo soccorso e nelle elezioni dando il voto per poterlo comprare.
L’operaio moderno non è ancora che la larva del cittadino: qui è tutta la sua originalità. Per diventarlo davvero gli converrà superare se stesso riconoscendosi sovrano nel sacrificio del proprio egoismo allo stato: e questo sarà. Intanto il sogno di una immediata conquista lo sospinge puerilmente all’opera: una vanità lo emancipa dai padroni senza farlo ancora padrone di se stesso, un istinto di primavera lo porta a tutte le novità: si sente libero, ma incapace di sostenere il peso della nuova libertà pretende alla tirannia. Egli solo vuole essere creatore, egli solo sovrano: il mondo gli pare di ieri, nato con lui: il numero gli diede l’illusione della forza, dalla coesione momentanea del partito gli viene un sentimento altero di unità. Per sentirsi anche più libero non crede in Dio ed è rimasto superstizioso dinanzi ai problemi e ai misteri, che soprafanno la sua anima; nella spavalderia di tutte le giovinezze proclama il libero amore, colla ingordigia di un lungo digiuno grida che la società deve mantenerlo anche se non lavori. Nega la guerra alla frontiera e minaccia d’insorgere quotidianamente su tutti i punti. La sua dottrina è più breve di un decalogo, e in ogni articolo sta un diritto: la sua ignoranza invece è centuplicata, appunto perchè comincia adesso a sapere, urtandosi a difficoltà, che prima per lui non esistevano. Si lagna perchè sta meglio.
Il suo ideale è la borghesia, che gli è sopra.
Tutto è borghese nella classe operaia, il linguaggio, le idee, i costumi, gli abiti, i sogni della ricchezza, gli espedienti per giungervi, la piccola incredulità, l’energia del lavoro, la rettorica nella politica, l’egoismo nella famiglia, la volgarità nel sentimento e nell’opera. Infatti la borghesia pare disarmata dinanzi al nuovo nemico, che è ancora lei stessa: giornali, tribunali, parlamenti sono pieni di deferenza a tutte le pretese di questo anche se formulate colla più insolente o ridicola vanità: non fu la borghesia ad armare il proletariato, ad insegnarli la filosofia del danaro e l’ironia contro tutte le fedi? Adesso non sa quindi difendersi: non si battè abbastanza nella rivoluzione, quindi non osa nemmeno concepire la battaglia per difendere una libertà donata da vittorie straniere.
Così l’ascensione operaia si fa più rapida ed artifiziosa: la demagogia borghese la guida, la monarchia le sorride, il clero assiste ancora inerte o quasi, mentre dall’alto il Vaticano riafferma intrepidamente l’autorità, che i re non sanno più rappresentare. La recente ricchezza consente molte mutazioni, ma siccome si compiono gratuitamente sono poco efficaci. Troppo spesso il bisogno viene scambiato col desiderio, più spesso ancora non si bada se al desiderio corrisponda la capacità del dare e del ricevere. Infatti la distribuzione del nuovo be-nessere accade moralmente a rovescio: i più beneficati sono quelli che già stavano meglio: ai più poveri nessuno pensa. Ma la ragione di questa differenza è ancora nel principio borghese di questo rivolgimento.
Non è davvero popolare: ecco perchè manca di originalità.
Non si tratta nemmeno di una conquista, che la classe operaia compia sulla borghesia, ma di un nuovo strato, che il patriziato operaio vi aggiunge.
Eppure ciò basta a spostare tutti gli ordini, e dopo le guerre napoleoniche la rivoluzione borghese non avrà avuto momento più importante di questa ascensione operaia: la grande, vera rivoluzione verrà.
Noi assistiamo ora ad una conclusione, piucchè ad un inizio: una rivoluzione si annuncia sempre sulle alture: religione e filosofia, scienze ed arti, suonano la diana: invece qualche chiarore appena sorride all’ultimo orizzonte.
La storia non può costruire fuori della coscienza; le abbisogna una fede che stringa tutto l’uomo, una morale che risponda a tutte le domande secrete, una forma che sorga dalle profondità della vita. Il socialismo non ebbe ancora nè martiri, nè eroi: le negazioni non creano, la critica stessa non basta a demolire. L’incapacità dell’idea socialista ad assorgere in un sistema ne rilevò il vuoto: le sue negazioni erano tutte superficiali, accettò la filosofia materialistica senza nemmeno accorgersi che teoricamente era contro di essa, proclamò un ideale di giustizia negando la tragedia umana e mettendo la felicità nella soddisfazione dei minuti bisogni: ai problemi che sorpassavano la vita, pretese di non rispondere dimenticando i morti e affidando il trionfo della verità ai non nati.
Così la sua forza fu soltanto nell’interesse economico, e i suoi r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La rivolta ideale
  3. Indice
  4. Il motivo
  5. La pregiudiziale storica
  6. Il primo secolo mondiale
  7. L'aristocrazia
  8. L'aristocrazia moderna
  9. Trionfo e degradazione industriale
  10. La nostra composizione unitaria
  11. L'Affermazione
  12. La libertà
  13. L'Individualità
  14. Lo Stato
  15. Lo spirito nazionale
  16. Le classi
  17. I partiti
  18. Il problema dell’autorità
  19. La patria
  20. La proprietà
  21. La indissolubilità matrimoniale
  22. La pena
  23. La beneficenza
  24. La lotta per la vita
  25. Corporazioni e cooperative
  26. La crisi cristiana
  27. Il carattere militare
  28. L'imperialismo
  29. L'onore
  30. Delle bassure dell'amore moderno
  31. Femminismo
  32. Il danaro
  33. Gli spostati
  34. Ascensione e tirranide plebea
  35. L'individualismo
  36. L'aristocrazia nuova
  37. L'appello