- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
Informazioni sul libro
La Comedìa, o Commedia, conosciuta come Divina Commedia (l'aggettivo «Divina» si deve a Boccaccio), di Dante Alighieri, è probabilmente la più grande opera letteraria mai scritta (forse più di quelle omeriche). È un poema allegorico/didascalico composto in terzine "dantesche" di endecasillabi, in lingua volgare fiorentina. Composta fra il 1304/07 e il 1321, anni dell'esilio di Dante in Lunigiana e in Romagna, l'opera è articolata in tre parti, dette «cantiche» Inferno, Purgatorio e Paradiso, ognuna delle quali composta da 33 canti (uno in più nell' Inferno come proemio) formati da un numero variabile di versi: fra 115 e 160. Il Poeta vi narra di un viaggio immaginario attraverso i tre "regni ultraterreni", che lo condurrà fino alla visione della Trinità. In questa edizione è riportato il Purgatorio, corredato dalle celeberrime illustrazioni di Gustave Dorè.
Domande frequenti
Informazioni
CANTO IX
[Canto IX, nel quale pone l’auttore uno suo significativo sogno; e poi come pervennero a l’entrata del purgatorio proprio, descrivendo come ne l’entrata di purgatorio trovoe uno angelo che con la punta de la spada che portava in mano scrisse ne la fronte di Dante sette P].
fuor de le braccia del suo dolce amico;
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ’ve già tutti e cinque sedavamo.
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’.
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
che convenne che ’l sonno si rompesse.
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.
e ’l sole er’alto già più che due ore,
e ’l viso m’era a la marina torto.
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;
vedi l’entrata là ’ve par digiunto.
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro».
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
vide me ’l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch’ancor non facea motto.
vidil seder sovra ’l grado sovrano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
che reflettëa i raggi sì ver’ noi,
ch’io dirizzava spesso il viso in vano.
cominciò elli a dire, «ov’è la scorta?
Guardate che ’l venir sù non vi nòi».
rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: “Andate là: quivi è la porta”».
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
l’angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che ’l serrame scioglia».
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe» disse.
d’un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.
che non si volga dritta per la toppa»,
diss’elli a noi, «non s’apre questa calla.
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ella è quella che ’l nodo digroppa.
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata».
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
e ‘ Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
CANTO X
[Canto X, dove si tratta del primo girone del proprio purgatorio, il quale luogo discrive l’auttore sotto certi intagli d’antiche imagini; e qui si purga la colpa de la superbia].
perché fa parer dritta la via torta,
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
che si moveva e d’una e d’altra parte,
sì come l’onda che fugge e s’appressa.
cominciò ’l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.
al piè de l’alta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;
Indice dei contenuti
- Copertina
- DIVINA COMMEDIA. Purgatorio
- Indice
- Intro
- PURGATORIO
- CANTO I
- CANTO II
- CANTO III
- CANTO IV
- CANTO V
- CANTO VI
- CANTO VII
- CANTO VIII
- CANTO IX
- CANTO X
- CANTO XI
- CANTO XII
- CANTO XIII
- CANTO XIV
- CANTO XV
- CANTO XVI
- CANTO XVII
- CANTO XVIII
- CANTO XIX
- CANTO XX
- CANTO XXI
- CANTO XXII
- CANTO XXIII
- CANTO XXIV
- CANTO XXV
- CANTO XXVI
- CANTO XXVII
- CANTO XXVIII
- CANTO XXIX
- CANTO XXX
- CANTO XXXI
- CANTO XXXII
- CANTO XXXIII
- Ringraziamenti