La malavita a Napoli
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La malavita a Napoli

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In maniera minuziosa e scientifica viene catalogato il vasto mondo della malavita napoletana tra Otto e Novecento. Una ricerca sul campo dell'antropologo Abele De Blasio che, in maniera asettica, scandaglia l'universo criminale della città (all'epoca) più celebre d'Europa.
Un testo che, seppur datato, continua ad offrire parametri interpretativi sempre attuali. "La fama che godevano i Napoletani come ladri era talmente radicata nel mezzogiorno del nostro Paese, che quando qualche buon villico era obbligato a recarsi in Napoli si sentiva ripetere dai suoi, prima che avesse lasciato il focolaio domestico: «Sii tutt’occhio, perchè Napoli abbonda di ladri» ed i più prudenti tra essi, prima di partire, si facevano cucire dalle nipotine fra le pieghe dei calzoni le monete d’oro ed introdurre fra le scarpe e le calze quelle di argento.
Affinchè non si dica che tale precauzione doveva addebitarsi alla bonarietà di quei paesani, che avevano forse bevuto grosso dai locali sapientoni, è pregato il lettore dare uno sguardo ai varii editti emanati dai Governi ai quali era soggetta questa parte della nostra Penisola, e da alcuni di essi rileverà che quell’articolo del Decalogo che dice: «Non rubare» veniva interpetrato a rovescio da un’estesa casta che da secoli aveva poste sue solide basi in questo paese delle Sirene."
Dall'incipit del libro. Abele De Blasio (Guardia Sanframondi, 5 settembre 1858 – Napoli, 5 aprile 1945) è stato un antropologo italiano.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2019
ISBN
9788834189375
Categoria
Criminology

Scuola di ladroneccio

La fama che godevano i Napoletani come ladri era talmente radicata nel mezzogiorno del nostro Paese, che quando qualche buon villico era obbligato a recarsi in Napoli si sentiva ripetere dai suoi, prima che avesse lasciato il focolaio domestico: « Sii tutt’occhio, perchè Napoli abbonda di ladri » ed i più prudenti tra essi, prima di partire, si facevano cucire dalle nipotine fra le pieghe dei calzoni le monete d’oro ed introdurre fra le scarpe e le calze quelle di argento.
Affinchè non si dica che tale precauzione doveva addebitarsi alla bonarietà di quei paesani, che avevano forse bevuto grosso dai locali sapientoni, è pregato il lettore dare uno sguardo ai varii editti emanati dai Governi ai quali era soggetta questa parte della nostra Penisola, e da alcuni di essi rileverà che quell’articolo del Decalogo che dice: « Non rubare» veniva interpetrato a rovescio da un’estesa casta che da secoli aveva poste sue solide basi in questo paese delle Sirene.
*
* *
I ladri della Capitale erano talmente ambiziosi, che per rendersi superiori a quelli degli altri paesi pensarono fondare delle scuole di ladroneccio.
Parigi non è il cervello della Francia?
Per far parte di tale istituzione l’individuo doveva contare non meno di otto anni e doveva essere presentato al Masto (maestro) o direttamente dai genitori o da qualche persona di fiducia di questi, i quali si obbligavano di versare al direttore di detta scuola, ed in ogni primo del mese, due carlini (L. 0,75), onorario meschinissimo, se si consideri che detto insegnante non doveva imparare ai suoi scolari il comune abbaco, ma il mezzo come guadagnarsi, senza il sudore della fronte, il pane quotidiano. Infatti «non vi ha moneta, come ben diceva il Baccelli, che degnamente paghi il maestro e il medico, quello perchè insegna a saper vivere nel consorzio sociale, questo perchè conserva la salute della vita».
Appena il fanciullo entrava a far parte della comunione dei Saccolari imparava prima il gergo e poi il regolamento scolastico: questo constava di 15 articoli e quello di una serie di vocaboli di nuovo conio colla spiegazione dialettale.
Regolamento e gergo si trovavano scritti sopra una tabella che a mo’ di carta geografica vedevasi sospesa ad una delle pareti della classe.
Mediante continui esercizii di ripetizione che i ragazzi facevano fra loro, anche quelli di non forte memoria riuscivano ad imparare ogni cosa nello spazio di alcuni mesi soltanto.
Un coadiutore della scuola, che era pagato dal direttore ( ’o masto), si occupava della disciplina scolastica e della interpetrazione degli articoli.
Quando il coadiutore era sicuro che gli alunni a lui affidati potevano passare all’applicazione ne teneva informato il Masto, il quale ordinava che quelle creaturine venissero sottoposte ad un esamuccio nel quale dovevano dar prova di segretezza, di essere corsaiuoli e di avere l’indice ed il medio di ambo le mani di egual lunghezza.
La prova della segretezza consisteva nel far incontrare il ragazzo da qualche componente la facoltà di ladroneccio, non conosciuto dall’alunno, che, con regali e con raggiri, doveva strappare dei segreti all’aspirante alla patente di mariuolo. Se il fanciullo si mostrava scaltro, allora l’interrogante accanto al nome dell’interrogato scriveva: Volpe; se invece si faceva cogliere negl’inganni, vi segnava: Papera.
Del risultato di tale inchiesta se ne teneva informato il Masto, che, nel primo caso, si felicitava col padre dell’alunno astuto, per aver procreata una pianticella disposta a buon frutto; nel secondo, si mostrava dolente del cattivo risultato ed induceva l’afflitto genitore a fare imparare al figliuolo altro mestiere.
La prova della resistenza alla corsa veniva fatta quasi sempre sulla spiaggia presso i Granili ed in presenza del Masto, il quale premiava con qualche ciambella gli abili e puniva con delle pedate i meno svelti.
Per essere ammesso alla prova del gancio era necessario che la lunghezza dell’indice fosse uguale a quella del medio. Infatti se dette due dita avessero conservata la lunghezza che loro è propria, come avrebbero potuto afferrare gli oggetti che si trovavano in fondo alle tasche?
E perchè l’avere questo dato antianatomico era la cosa più agognata da quei monelli, così essi stessi si stiracchiavano gl’indici e quando queste dita toccavano la lunghezza de’ medii allora cercavano di allungare sempre di più le une e le altre.
Sono stato anche assicurato da noti mariuoli che molte mamme, prevedendo la vocazione dei loro figliuoli, stiravano ad essi, fin da quando si trovavano nelle fasce, le ditina a scopo di evitare nell’avvenire perdita di tempo; e devesi a tale deformazione artificiale l’adagio locale: Da dita lunghe, cioè dai ladri, libera nos Domine.
L’alunno, ottenuta la licenza del corso preparatorio, passava all’applicazione. Di tali scuole, fino al 1783, Napoli ne doveva contare parecchie, poichè i diplomati che ogni anno da esse uscivano erano in sì gran numero che Ferdinando IV provò per questi battaglioni di mariuoli tanta paura, che nel 7 aprile 1783 fece affiggere nei soliti luoghi della sua Fedelissima il seguente editto:
FERDINANDO IV
PER LA GRAZIA DI DIO RE DELLE DUE SICILIE,
DI GERUSALEMME, INFANTE DI SPAGNA,
DUCA DI PARMA, PIACENZA E CASTRO
E GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA
«Per porre in buon ordine questa popolosa Capitale, per tenere in disciplina i vagabondi, e i malvagi e per accertare la sicurezza dei cittadini, e la felicità dei sudditi che formano l’oggetto della nostra paternale compiacenza, sebbene prescrivemmo colla prammatica del 6 gennaio 1779 (al tit. de civit. Neap. in duod. reg. describ.) molti salutari ed efficaci espedienti, e demmo la norma di una ben regolata polizia, pure ciò non ostante, e malgrado l’attenzione, il zelo, e la vigilanza dei Magistrati, non si vede frenata l’audacia dei ladri volgarmente detti Borsaiuoli o Saccolari, il reato de’ quali se a prima vista sembra men grave delle sue circostanze, merita la nostra sovrana attenzione per lo molesto e continuo danno, che arreca ai particolari la frequenza di tali furti per la pravità della intenzione, per la molteplicità degli atti, e per l’incorrigibil malizia dei rei, che in certo modo insultano la Giustizia anche in pieno giorno, e nei luoghi più frequentati. Un delitto così agevole a commettersi, e quasi istantaneo rimanendo per lo più impunito per la malagevolezza delle prove e per l’implicanza delle formalità giudiziarie, di accrescersi l’intensità, determinarsi la certezza e celerità della pena e di diminuirsi le solennità giuridiche.
Pertanto ad evitare le insidie, che tali turbatori della pubblica tranquillità tendono a men cauti cittadini, ed a render meno attiva e men pericolosa la loro colpevole industria e sorprendente destrezza del male operare, abbiamo stimato, previo parere della nostra Real Camera di S. Chiara, formare il presente Editto, col quale vogliamo e sovranamente comandiamo che dal dì della pubblicazione del medesimo siano sottoposti alla pena di due tratti di corda i ladri Borsaioli o Saccolari, qualora costoro recidivando nel delitto rubino per la seconda volta. E per assicurare l’esistenza del primo furto; e l’identità del reo, vogliamo che si richiegga il processo fiscale dello stesso primo furto, colla pruova almeno indiziaria a tortura contro il reo: nulla importando che tale processo non sia completo, e che nel medesimo il ladro non sia stato costituito, nè abbia avuto difese, nè sia stato condannato. E la stessa pena s’intenda che debba aver luogo, qualora nuovamente inciampasse nello stesso delitto».
*
* *
La scoverta delle scuole frequentate da’ Saccolari doveva riuscire in quei tempi a’ Governi difficilissima, perchè fra Camorra e Polizia c’era un accordo completo, essendo gl’interessi gli stessi, cioè eguaglianza nella divisione della cosa rubata.
Tale costumanza si trasmise fino al 1860, quando mio zio Filippo de Biasio, nominato Questore di Napoli, di notte e senza alcuna compagnia visitò le sedi delle Ispezioni di P. S. ed una mattina, verso le 5, nel caffè di Porta Capuana sentì parlare di furti che i camorristi mescolati nelle guardie P. S. da Liborio Romano avevano perpetrati quella notte e la ripartizione che se ne doveva fare.
In che consiste la scuola di applicazione di cui fo parola, il lettore lo rileverà dal seguente documento inviato il 12 ottobre 1821 dal Commissario di Sezione Mercato al Prefetto di Polizia.
Eccellenza,
«Dopo non poco lavorio mi è riuscito sorprendere alla strada Rua Francesca il noto delinquente Giordano Raffaele intento ad istruire nella scuola di ladreria cinque ragazzi che rispondono ai nomi di Vitale Annibale, di Samuele Graziadei, di Giovanni Esposito, di Saverio Mastrobuono e di Cosimo Frezza.
La casa, dove s’imparavano a rubare, è quella abitata da Rosaria Galante detta la Ciancella.
Forzata la porta, non abbiamo veduto il Giordano perchè s’era nascosto sotto il letto. La Ciancella e i ragazzi sono rimasti sbalorditi; due di essi piangevano. La Rosaria poi è stata presa da una vera crisi nervosa.
Affidato il Giordano alle guardie, abbiamo perquisita la casa ed in una delle due stanze prospicienti sulla vanella abbiamo notato che nel centro del pavimento stava fabbricato un pezzo di piperno forato superiormente ed in tal foro stava fissata un’asta verticale camuffata a pupazzo avente per faccia una maschera di cartapesta e portante sul capo innestato un cerchio al quale erano sospesi dodici campanelli (vedi fig. a pag. 15 [pag. 15 in questa edizione elettronica]).
Dalle tasche di quel simulacro uscivano fazzoletti, catene di orologio e borsette.



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Il falegname, che è stato chiamato per scomporre quel meccanismo per essere da noi repertato, dopo il sacrosanto giuramento ha asserito che quell’impianto era stato fatto da parecchio e non già da soli tre giorni come diceva la Galante. Allontanato il Giordano, i ragazzi ci hanno fatto vedere come funzionava quel m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La malavita a Napoli
  3. Indice dei contenuti
  4. Scuola di ladroneccio
  5. I basaiuoli
  6. Gli scambienti
  7. I mercanti di carne umana
  8. Giustizia rusticana
  9. I pezzenti
  10. La paranza delle zoccole
  11. La paranza dell'uomo falso
  12. I giornali che non esistono
  13. Sollievo universale
  14. I ruffiani della vicaria
  15. I mezzani dei medici
  16. I zennaiuoli
  17. I serpi e i grilli
  18. A' semmana
  19. Il soprannome dei cammoristi
  20. Gli sfruttatori
  21. Il tatuaggio
  22. I caicchi
  23. Ladri di scasso
  24. I grassatori
  25. I fresaiuoli
  26. L'incesso dei delinquenti
  27. Voti della malavita
  28. Premessa