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Informazioni sul libro
La Comedìa, o Commedia, conosciuta come Divina Commedia (l'aggettivo «Divina» si deve a Boccaccio), di Dante Alighieri, è probabilmente la più grande opera letteraria mai scritta (forse più di quelle omeriche). È un poema allegorico/didascalico composto in terzine "dantesche" di endecasillabi, in lingua volgare fiorentina. Composta fra il 1304/07 e il 1321, anni dell'esilio di Dante in Lunigiana e in Romagna, l'opera è articolata in tre parti, dette «cantiche» Inferno, Purgatorio e Paradiso, ognuna delle quali composta da 33 canti (uno in più nell' Inferno come proemio) formati da un numero variabile di versi: fra 115 e 160. Il Poeta vi narra di un viaggio immaginario attraverso i tre "regni ultraterreni", che lo condurrà fino alla visione della Trinità. In questa edizione è riportato l' Inferno, corredato dalle celeberrime illustrazioni di Gustave Dorè.
Domande frequenti
Informazioni
CANTO XXXIII
[Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi].
del capo ch’elli avea di retro guasto.
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
cacciando il lupo e ’lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
lo padre e ’figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove».
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,
sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli».
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso».
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Indice dei contenuti
- Copertina
- DIVINA COMMEDIA. Inferno
- Indice
- Intro
- INFERNO
- CANTO I
- CANTO II
- CANTO III
- CANTO IV
- CANTO V
- CANTO VI
- CANTO VII
- CANTO VIII
- CANTO IX
- CANTO X
- CANTO XI
- CANTO XII
- CANTO XIII
- CANTO XIV
- CANTO XV
- CANTO XVI
- CANTO XVII
- CANTO XVIII
- CANTO XIX
- CANTO XX
- CANTO XXI
- CANTO XXII
- CANTO XXIII
- CANTO XXIV
- CANTO XXV
- CANTO XXVI
- CANTO XXVII
- CANTO XXVIII
- CANTO XXIX
- CANTO XXX
- CANTO XXXI
- CANTO XXXII
- CANTO XXXIII
- CANTO XXXIV
- Ringraziamenti