Manuale dei confessori
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«In questo libro, destinato esclusivamente ai preti e ai diaconi, noi abbiamo tentato di raccogliere ciò che sarebbe pericoloso ignorassero i sacerdoti, svolgente il ministero della confessione, e ciò che non può essere spiegato negli atti pubblici dei seminari, né confidato indistintamente a giovani alunni senza peccare di indecenza.» Jean-Baptiste Bouvier (Saint-Charles-la-Forêt, 16 gennaio 1783 – Roma, 29 dicembre 1854) è stato un vescovo cattolico e teologo francese. Bouvier fu l'autore di due manuali scolastici che ebbero un grandissimo successo nei seminari cattolici europei e americani: Institutiones theologicae e Institutiones philosophicae. Le due opere, in lingua latina, furono adottate a lungo, per lo meno fino al 1870, e ristampate più volte. Traduzione di O. Gnocchi Viani.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2019
ISBN
9788835325574

Parte prima


DISSERTAZIONE

Sul VI Comandamento del Decalogo
Questo lubrico argomento essendo sempre, per la nostra fragilità, pericoloso non lo si deve studiare che per necessità, con animo vigilante, con retto fine, e invocando la suprema assistenza di Dio. Chiunque facesse troppo a fidanza colle proprie forze, e si gettasse perciò in questo argomento senza discrezione e senza prudenza, non ne uscirebbe certamente illeso, poichè dice la Scrittura ( Eccl. 3, 27): Chi ama il pericolo, in esso perirà.
Conviene invocare frequentemente il patrocinio della Vergine Santissima, specialmente al primo insorgere delle tentazioni, e usare una giaculatoria come la seguente:
« O Vergine purissima, monda il mio cuore e la mia carne colla tua santissima verginità e la tua immacolata concezione. Così sia.»
Il sesto e il nono precetto del Decalogo, espressi in testa al 20. dell'Esodo, v. 14 e 17, evidentemente equivalgono, e perciò giudicammo di trattarli sotto uno stesso titolo.
Come si proibisce, sotto il titolo di furto, qualsiasi usurpazione della cosa altrui, così sotto il titolo di lussuria[1], si condanna ogni azione ogni peccato contro la castità.
[1] Il testo latino ha moechiam, che letteralmente vorrebbe dire adulterio, vocabolo che quì, in italiano, non possiamo usare imperocchè il nostro adulterio ha un significato speciale e determinato, mentre il moechia della lingua latina ne ha uno molto ampio e generico, corrispondente precisamente alla nostra parola impudicizia, o meglio ancora a lussuria. Ecco perchè adoperammo nella traduzione quest'ultimo vocabolo. ( Nota del traduttore).
La castità detta cosi perchè proviene dal verbo castigare, che indica freno alle concupiscenze (dice S. Tomaso, 22, q. 151, art. 1), è una virtù morale che modera i diletti venerei a seconda dei dettami della ragione.
Essa è una virtù speciale, imperocchè ha un oggetto distinto: le è annessa la pudicizia, che deriva dal pudore la quale per un verecondo rispetto della dignità umana rifugge talora anco da cose che potrebbero essere lecite.
Triplice è la castità, cioè: castità coniugale, castità vedovile e castità verginale.
La castità coniugale modera l'uso del matrimonio secondo i dettami della ragione; la castità vedovile consiste nell'astinenza da ogni atto venereo, dopo disciolto il matrimonio; la castità verginale aggiunge alla astinenza perfetta, l'integrità della carne. La verginità dunque può essere considerata come uno stato materiale e come una virtù. Come stato, consiste nell'integrità della carne cioè nel non aver mai consumato atto venereo; come virtù, è la perfetta astinenza da ogni azione volontaria e da ogni diletto opposti alla castità, col proposito di mantenersi sempre in questa astinenza. Lo stato verginale è dunque una cosa molto distinta dalla virtù verginale.
Lo stato verginale può essere rotto da atti involontarii, per esempio, da commercio carnale violento; e una volta distrutto, non lo si può più ristabilire, imperocchè non è più possibile far ritornare la carne nella sua primitiva integrità.
Non si possono chiamare vergini nemmeno i coniugati nè coloro che si corruppero all'infuori del matrimonio, abbenchè sieno poscia diventati penitenti e santi.
La virtù verginale invece, lesa da un peccato che a lei e contrario ma che però non è stato consumato, nè predisposto pel matrimonio, può essere riparata colla remissione del peccato, o colla riassunzione del proponimento di mantenersi per sempre in castità. E siccome la virtù non risiede in una data condizione corporale, ma in una condizione dell'anima, così la virtù della verginità non scompare in forza di atti involontarii, abbenchè questi ledano la carne. Per questa ragione, l'aureola gloriosa destinata in cielo ai vergini non potrà esser mai conseguita da coniugi o da chi, all'infuori del matrimonio, avrà consumato un atto carnale, quantunque costoro possano essere santi; ma otterranno questa aureola di gloria soltanto coloro che avranno sempre conservata la virtù della verginità, ovvero l'avranno ricuperata. Non cessano quindi d'esser virtuosamente vergini coloro, che soggiaciono involontariamente ad una forza, a cui si mostrarono renitenti.
Contraria alla castità è la lussuria, sia essa consumata o non consumata, naturale o contro natura. Perciò parleremo:
1. Della lussuria in genere;
2. Delle specie di lussuria naturale consumata.
3. Delle specie di lussuria consumata contro natura;
4. Dei peccati di lussuria non consumata;
5. Delle cause, degli effetti e dei rimedii della lussuria.

CAPO I.

Della lussuria in genere
La lussuria—che viene dal verbo lussare—è così chiamata perchè la proprietà di questo vizio è quella di indebolire e rompere le energie dell'anima e del corpo: percìò si chiama talvolta anche dissolutezza; e dissoluti appellansi coloro che a questo vizio si abbandonano. Esattamente la si definisce: Appetito disordinato dei piaceri venerei.
Denominansi venerei questi piaceri, perchè si connettono alla generazione, a cui presiedeva, secondo i pagani, la Dea Venere.
PROPOSIZIONE.— La lussuria è per se stessa un peccato mortale.
Questa proposizione viene comprovata dalla Sacra Scrittura, dal consenso dei Santi Padri e dei teologi, e dalla ragione.
1. Sacra Scrittura: Epist. ai Gal. 5, 19 e 21: «É evidente che coloro i quali compiono opere carnali, come la fornicazione, l'impurità, l'impudicizia, la lussuria, e altre cose simili, ch'io vi esposi come or vi espongo, non entreranno nel regno de' Cieli,»
2. Santi Padri e teologi sono unanimi nell'insegnare che il peccato della lussuria è, per natura sua, mortale.
3. La ragione dice che i piaceri venerei furono dalla ment del Creatore unicamente destinati alla propagazione del genere umano; quindi lo invertire la natura è un grave disordine e perciò un peccato mortale. Per cui si domanda: Se la lussuria sia per sè un peccato tanto mortale da escludere, la leggerezza di materia, vale a dire se egli può essere, per pochezza di sostanza, veniale.
R. 1. Le specie di lussuria consumata, sia naturaIe, sia contro natura, a cui accennammo, non ammettono leggerezza di materia.
Infatti, non ripugna forse manifestamente che si possa abbandonarsi a fornicazioni o a polluzioni volontarie, le quali non abbiano in sè che una leggiera sostanza peccaminosa?
R. 2. Il piacere puramente organico, quello cioè che nasce naturalmente dai nostri organi, come sarebbe, per esempio, la soddisfazione di contemplare una bellezza, d'ascoltare una melodia, di toccare un oggetto molle e morbido, ecc., è un piacere ben distinto dal piacere venereo, e può benissimo essere materialmente lieve, imperocchè questo diletto non è in sè cattivo, avendolo lo stesso Iddio annesso ai sensi per un fine legittimo; non può dunque essere un peccato mortale, se non in ragione del pericolo che ne potrebbe risultare insistendo in esso: ma può benissimo darsi che in certe persone cotesto pericolo non sia affatto grave. Così è di quei baci, che non sono che un'innocente soddisfazione organica. Di questo parere sono Sant'Antonino, Sanchez, Henno, Comitols, Sylvius, Boudart, Billuart, Collet contro Cajetano, Diana, la Scuola di Salamanca e San Liguori, l. 3, n 416, ecc.
Dunque, non pecca mortalmente quegli che si diletta soltanto nel contemplare una bella donna, nel toccarle la morbida mano, senza altro sentire, senza esporsi al grave pericolo di andar più in là. Ma ben di rado va immune da peccato chi s'arresta a lungo in tali compiacenze, ordinariamente pericolose, in ispecial modo se provenienti dal tatto. Quegli che si arresta in tali compiacenze non può andare esente da grave peccato, se non nel caso dl inavvertenza o di mancanza di consentimento. Ma vi sono molte persone, siffattamente costituite, che basta loro il menomo piacere organico volontario per essere esposti ad un grave pericolo.
R. 3. Il piacere venereo, può essere destato direttamente o indirettamente, per sè stesso o nella sua causa, come se alcuno compisse un'azione dalla quale scaturisse, indipendentemente dalla sua volontà, il piacere. Generalmente i teologi ammettono che il solo piacere, indirettamente prodotto, possa essere materialmente lieve. Per esempio: non pecca mortalmente chi fa una cosa venialmente cattiva, od anche lecita, dalla quale prevede che gli verranno delle involontarie emozioni carnali, che non saprà efficacemente reprimere. In questo caso, vuolsi che ll peccato sia veniale, non per insufficienza di materia, ma per mancanza di assenso.
R. 4. Il piacere venereo, voluto direttamente, lo si può verificare negli sposi e negli scapoli: negli sposi, è lecito semprechè sia coordinato all'atto coniugale. Se poi avviene all'infuori di codesto atto, e per opera d'uno solo dei coniugi, senza che vi sia grave pericolo d'incontinenza, è reputato comunemente peccato veniale, perchè si mantiene sempre in un ambiente lecito. Ma su ciò ci diffonderemo altrove.
La questione or si riduce a sapere se il piacere venereo voluto direttamente, all'infuori del matrimonio, sia lieve di materia.
Generalmente gli autori sostengono, contro Caramuel e pochi altri, che un tale piacere non è mai peccato veniele per insufficienza di materia, e si sforzano di comprovarlo:
1. Coll'autorità di Alessandro VII, il quale nell'anno 1664 condannò la seguente proposizione: «Si opina probabilmente che un bacio, dato per sentire un diletto carnale da esso proveniente, escluso però il pericolo di ulteriori brame e di polluzioni, non sia che un peccato veniale.» Cotesta proposizione fu condannata, per il motivo che per diletto carnale si suole intendere un diletto o piacere venereo; non è dunque probabile che questo piacere, per quanto sia limitato, sia solamente un peccato veniale.
2. La ragione ci dice che noi siamo così propensi per la nostra indole corrotta al vizio della lussuria che basta spesso una menoma causa per produrre grandi effetti perciò data l'ipotesi di un consenso diretto al piacere venereo, si va incontro sempre all'imminente pericolo di un ulteriore consenso o di una polluzione; cosa che non avviene con altri vizi. Il padre Acquaviva quindi, superiore generale della Compagnia di Gesù, proibiva, sotto pena di scomunica, a tutti i religiosi da esso dipendenti di allontanarsi, nei loro insegnamenti dalla sentenza che ammette non esservi nel piacere venereo leggerezza di materia.
Dunque, è peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale, ancorchè eccitata casualmente.

CAPO II.

Delle diverse specie della lussuria naturale consumata.
La lussuria dicesi naturale allorquando non è in opposizione all'umana natura, alla propagazione del genere umano. E' dunque carnale l'accoppiamento dell'uomo colla donna, se compiuto per generare, abbenchè avvenga senza matrimonio, e si consumi, versando il seme dell'uomo nella vagina della donna.
Sei sono le differenti specie di questa lussuria, cioè: la fornicazione, lo stupro, il ratto, l'incesto e il sacrilegio, di cui parleremo distesamente.
ARTICOLO I.— Della fornicazione.—La fornicazione è l'accoppiamento, mutuamente acconsentito, fra un uomo libero e una donna libera che non sia vergine.
Noi diciamo.
1. Fra un uomo libero, cioè, fra un uomo, al quale non viene inibito l'atto colpevole, nè da vincolo matrimoniale, nè di parentela, nè di affinità, nè d'ordine sacro o di voto, ma soltanto dal precetto della castità.
2. E una donna libera che non sia vergine, il che sarebbe una fornicazione semplice, molto diversa dallo stupro, di cui fra poco tratteremo.
8. Mutuamente acconsentito; e perciò la fornicazione si distingue dal ratto.
V'hanno tre specie di fornicazione, cioè fornicazione semplice, concubinato e prostituzione, delle quali parleremo in tre distinti paragrafi.
§ I.— Della fornicazione semplice.
La fornicazione semplice è quella che si esercita transitoriamente con una o con più donne.
Nicolaiti e i Gnostici, eretici impuri dei primi secoli, appoggiandosi a ragioni diverse, proclamavano lecita la fornicazione semplice; Durando, invocando il diritto naturale, la reputava soltanto peccato veniale, che non diventava mortale, se non pel solo diritto positivo; Caramuel, spingendosi piú oltre asseriva non essere essa una cosa intrinsecamente cattiva, ma soltanto proibita dalla legge positiva.
PROPOSIZIONE.— La fornicazione semplice é intrinsecamente cattiva ed è peccato mortale.
PROVA. Questa proposizione, da tutti i moralisti cristiani ammessa, è provata dalla Sacra Srittura, dalla testimonianza dei Santi Padri, dall'autorità dei Concilii e de' Sommi Pontefici, e dalla ragione.
1. Dalla Sacra Scrittura: Fra i molti testi che si potrebbero da noi citare, prescegliamo i seguenti: ( I. ai Corint. 6, 9 e 10) Non possederanno il regno di Dio nè i fornicatori, nè gli adoratori degli idoli, nè gli adulteri. Ai Gal. 5, 19 e 21, come sopra. Agli Ef. 55: sappiate che nè il fornicatore nè l'impudico non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Il beato Giovanni nell' Apocalisse. 21, 8, dice che la vita futura dei fornicatori è in uno stagno di fuoco e di zolfo.
Non v'ha dubbio che, secondo questi testi, le impurità l'adulterio, il culto idolatra, sono intrinsecamente cattivi, e sono peccati mortali.
2. Testimonianza dei Santi Padri: ( S. Fulgenzio, Ep. I, cap. 4) Non vi può essere fornicazione senza grave peccato. S. Crisostomo, omel. 22. ai Corint. Quante volte avrai fornicato con male donne tante volte ti sarai da te stesso condannato.
3. Autorità dei Concilii e de' Sommi pontefici: Concil. vien. Clemente, l. 5, tit. 3, cap. 3, condanna questa proposizione del Beghini: «Quando non è suggerito dalla natura, è peccato mortale financo il bacio della donna; ma quando la natura comanda e soprattutto quando la tentazione domina, non è peccato mortale nemmeno l'atto carnale.» Il Concil. Trid. sess. 24, cap. 8 della riform. matr., dichiara grave peccato il concubinato.
Innocenzo VI, nel 1679, condannò la seguente proposizione di Caramuel: «E' chiaro che la fornicazione non ha in se malizia alcuna, ed è cattiva solo perchè è proibita: l'opinione contraria ci sembra in opposizione alla ragione.»
4. La ragione poi dice: L'unione carnale è lecita se coordinata alla generazione della prole; questo è il suo scopo; ma non basta procrear figli, bisogna nutrirli, allevarli, istruirli, da ciò, l'obbligo naturale nei genitori di compiere tutti quei doveri che richiedono una lunga coabitazione. Ora, la semplice fornicazione è evidentemente contraria a questi doveri, imperciocchè, di sua natura, è un atto passeggiero, e non obbliga i fornicatori ad alcun vincolo di coabitazione. Dunque la fornicazione è intrinsecamente cattiva.
Inoltre, il bene della società dipende da una retta istituzione delle famiglie; e la retta istituzione delle famiglie suppone il matrimonio; dunque anco la semplice fornicazione, che distrugge i diritti, i doveri e i vantaggi matrimoniali, è, di sua natura, pessima cosa.
La fornicazione poi con persona eretica o infedele, è peccato ancor più grave, in quanto che ridonda in obbrobrio alla vera religione.
Ma tu dirai, 1.: Dio ordinò ad Osea, c. I. v. 2. di prendere in moglie una donna fornicatrice; e negli Atti Apost. 15, 19, la fornicazione è proibita per la stessa ragione, che è proibito il cibo della carne delle vittime e degli animali soffocati, e del sangue; dunque la fornicazione non è cosa cattiva se non in virtù della legge positiva.
R. Nego la conseguenza. Infatti, 1. Dio ordinò ad Osea non già di fornicare, ma di prendere in moglie una donna che avea fornicato, il che è ben altra cosa. 2. La fornicazione è espressamente proibita dagli Apostoli perchè i pagani pretendevano che fosse lecita, e nei loro Atti non dicono che essa non sia proibita dal diritto divino e naturale: l'antica legge l'aveva già condannata più volte, 1. col sesto comandamento del Decalogo, 2. perchè la giovane che si lasciava togliere la sua verginità veniva lapidata come malfattrice in Israel ( Deut. 22, 21,) 3. perchè Dio aveva detto a Mosè: Tra le figlie e figli d'Israele non vi sieno nè meretrici nè fornicatori ( Deut. 23, 17).
Tu dirai, 2. Coloro che fornicano volontariamente non fanno offesa ad alcuno; dunque non fanno cosa cattiva in sè stessa.
R. Nego la conseguenza. La fornicazione non è già cosa cattiva perchè rechi offesa a qualcuno, ma perchè viola un ordine istituito da Dio.
Tu obbietterai che meglio è generare colla fornicazione che non generare affatto; e che perciò generando in questo modo, non si viola l'ordine voluto da Dio.
R. Nego la conseguenza. Noi abbiamo già visto che secondo l'intenzione del Creatore, non basta il procrear figli. Di più, l'esposta obbiezione tenderebbe a provare essere lecito l'adulterio, imperocchè meglio sarebbe allora generare figli per adulterio che non generarne punto.
Si connettono alla fornicazione la prostituzione ed il concubinato, e perciò ne parleremo ora brevemente.
§ II.— Del concubinato.
Il concubinato è il commercio fra un uomo libero e una donna libera, i quali convivono come se fossero in matrimonio, o sotto lo stesso tetto, o in separate abitazioni.
È certo che il concubinato, inteso così, è un peccato molto più grave della semplice fornicazione, perchè c'è l'abituale disposizione dello spirito a peccare e perciò è questo un caso che dev'essere nettamente svelato nella confessione.
Il Concilio di Trento, sess. 21, c. 8, Della rifor. mat. decretava gravi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Manuale dei confessori
  3. Indice
  4. Avvertimento
  5. Parte prima
  6. Parte seconda