Viaggio attraverso Utopia
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Dall'antichità al Novecento

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Dall'antichità al Novecento

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Viaggio attraverso Utopia. Dall'antichità al Novecento … Un capolavoro, un libro letteralmente «meraviglioso» (ricchissimo di «meraviglie») questo di Maria Luisa Berneri. Dalle Utopie dell'Antichità alle Utopie del Rinascimento, dalle Utopie della Rivoluzione Inglese alle Utopie dell'Illuminismo, dalle Utopie del Diciannovesimo Secolo alle Utopie Moderne. Insomma tutte le grandi "illusioni" (?) dell'umanità.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788835334767

UTOPIE DEL DICIANNOVESIMO SECOLO

La storia delle utopie nel XIX sec. è strettamente connessa alla nascita del movimento socialista e a volte è difficile distinguere tra progetti che appartengono al campo del pensiero utopistico e quelli che rientrano nel campo della riforma sociale pratica. Non c’è un solo scritto che tratti di problemi sociali, pubblicato in questo periodo, che, una volta o l’altra, non sia stato descritto come utopistico. La parola stessa ha perduto il suo significato originale ed ha finito per indicare il contrapposto di scientifico; «utopistico» è divenuto quasi un termine offensivo che sedicenti socialisti scientifici godevano nello scagliare contro i loro avversari. È grazie a questi arbitri marxisti che la lista delle utopie del XIX secolo ha assunto una dimensione tanto spropositata.
In Socialismo, Utopistico e Scientifico, Friedrich Engels diede una definizione marxista alla parola «utopistico» che è poi stata ampiamente accettata. Mentre fino allora un’utopia veniva considerata come una immaginaria repubblica ideale la cui realizzazione era impossibile o difficile, Engels le diede un significato molto più ampio e incluse tutti i progetti sociali che non riconoscevano la divisione della società in classi, l’inevitabilità della lotta di classe e della rivoluzione sociale. Egli mise tra gli utopisti Saint-Simon, Fourier ed Owen perché «non uno di loro appare come rappresentante degli interessi del proletariato, che lo sviluppo storico aveva, nel frattempo, prodotto. Come i filosofi francesi, essi non proclamano di voler emancipare una classe particolare, ma tutta l’umanità nel suo insieme».
Engels, inoltre, rimproverò agli scrittori «utopistici» di non aver capito che il socialismo sarebbe possibile solamente quando il regime capitalista avesse raggiunto un determinato grado di sviluppo: «Alle dure condizioni della produzione capitalistica e alle dure condizioni di classe corrispondevano dure teorie. Gli utopisti cercarono di far nascere dal cervello umano la soluzione dei problemi sociali, che giace ancora nascosta nelle condizioni economiche non sviluppate. La società non presentava altro che mali; togliere questi era il compito della ragione. Era allora necessario scoprire un nuovo e più perfetto ordine sociale e imporlo sulla società dal di fuori attraverso la propaganda e, ogni volta che fosse possibile, attraverso l’esempio di esperimenti-campione. Questi nuovi sistemi sociali erano condannati come utopistici; più completamente essi venivano descritti nei particolari, meno potevano evitare di sconfinare nella pura fantasia».
La descrizione fatta da Engels delle utopie socialiste è sostanzialmente corretta. La maggior parte di esse vuole che tutti i mezzi di produzione e di distribuzione vengano tenuti in comune, ma non credono che sia necessaria una rivoluzione per ottenere questo. Esse ipotizzano che uno Stato può assumersi la responsabilità dell’apparato economico di un Paese in modo pacifico, quando la maggioranza della popolazione è d’accordo sul fatto che questa sia la soluzione più assennata. Essi non ritengono che ci sia un irriducibile antagonismo tra le classi e che il proletariato sia l’unica classe in grado di fare una rivoluzione. Inoltre, in contraddizione con le teorie marxiste, essi affermano che una nuova società può esser creata sempre ed ovunque, a patto che governi e popolazioni siano decisi a porla in essere; non vedono alcun rapporto tra lo sviluppo del capitalismo e la possibilità di creare una nuova società.
Engels, tuttavia, non aveva ragione ad affermare che i progetti «utopistici» erano meno realistici di quelli dei socialisti «scientifici». Alla luce della storia del secolo scorso sarebbe difficile individuare quale scuola di socialismo meriti la qualifica di «utopistica». L’alto sviluppo del capitalismo, anziché avvicinare il giorno della rivoluzione, ha creato una nuova classe di tecnici e di amministratori, lavoratori ad alto stipendio e capi sindacali i cui interessi coincidono con quelli della classe capitalista. I soli due Paesi europei che, negli ultimi trent’anni, han cercato di realizzare delle rivoluzioni sociali, la Russia e la Spagna, erano Paesi in cui il capitalismo non aveva ancora raggiunto un alto livello di sviluppo. Abbiamo inoltre visto che il socialismo di Stato si è parzialmente realizzato in parecchi Paesi, non per mezzo dell’azione militante della classe operaia, ma attraverso governi che detengono il potere attraverso un parlamento eletto. Ancor più paradossalmente, da un punto di vista marxista, i governi fascisti sono stati costretti ad adottare misure di riforma sociale simili a quelle sostenute dai socialisti.
Il socialismo, come lo conosciamo oggi, è più prossimo alle concezioni dei socialisti «utopistici» che a quelle di Karl Marx, il fondatore del socialismo scientifico. Esso non ammette più l’inevitabilità della lotta di classe e tende a graduali riforme sociali che alla fine elimineranno le differenze economiche tra capitalisti e lavoratori. Persino in un Paese come la Russia, che sostiene di aver realizzato una rivoluzione marxista, la struttura della società assomiglia molto di più a quella descritta da alcuni scrittori utopistici che a quella prevista da Marx o Lenin. Potrebbe pertanto esser più saggio lasciar da parte quella che oggi sembra un’arbitraria divisione tra socialisti utopistici e scientifici e considerare solo i più rappresentativi di quegli scritti che rimangono nella tradizione utopistica attraverso la descrizione di repubbliche ideali in qualche immaginario Paese o in un immaginario futuro.
Nel Rinascimento, il pensiero utopistico aveva ricevuto una potente spinta dalle nuove idee filosofiche, dalla nascita degli Stati nazionali e dalla scoperta del Nuovo Mondo. All’inizio del XIX secolo, avvenimenti di simile magnificenza vi infusero nuova linfa: essi includono le conseguenze della Rivoluzione francese, il rapido sviluppo dell’industrializzazione e l’elaborazione di sistemi socialisti. La Rivoluzione francese aveva dato il potere alla borghesia, ma allo stesso tempo aveva proclamato i diritti dei lavoratori e dei contadini, che avevano mostrato la loro disponibilità a difenderli con la forza. La borghesia vittoriosa non poté chiudere gli occhi sulle disuguaglianze sociali che in ogni momento potevano scatenare un forte movimento rivoluzionario. Pochi filosofi umanitari e filantropi cercarono di alleviare la crescente miseria della popolazione e alcuni giunsero al punto di esigere quell’uguaglianza che era stata predicata dai filosofi pre-rivoluzionari e che era uno dei supposti scopi della Rivoluzione. Ma non si fidarono della gente, che temevano che potesse trasformare il sistema solamente attraverso metodi rivoluzionari e ricercarono una soluzione pacifica attraverso le riforme sociali. Come sottolineò Kropotkin nella sua introduzione alla Conquista del Pane: «... scrivendo nel periodo di reazione che era seguito alla rivoluzione francese e notando maggiormente i suoi insuccessi che i suoi successi, non si fidarono delle masse e non fecero appello ad esse per la realizzazione delle trasformazioni che ritenevano necessarie. Essi, invece, misero la loro fiducia in qualche grande dominatore, un Napoleone socialista. Egli avrebbe capito la nuova rivelazione; egli si sarebbe convinto della sua positività attraverso i positivi esperimenti dei loro falansteri, o associazioni; ed avrebbe pacificamente realizzato con la sua stessa autorità la rivoluzione che avrebbe portato benessere e felicità all’umanità. Un genio militare, Napoleone, aveva appena comandato sull’Europa. Perché mai un genio sociale non avrebbe potuto venire poi, trascinare con sé l’Europa e tradurre il nuovo Vangelo nella vita?» [1]
La rivoluzione industriale aveva aperto nuovi orizzonti e a molti parve che offrisse una soluzione alla povertà ed alla disuguaglianza. Apparentemente non c’erano limiti all’aumento della produzione e quindi non c’era alcun motivo perché ognuno non dovesse vivere come un borghese. L’uguaglianza non imporrebbe sacrifici a nessuno, poiché la nuova società non diminuirebbe l’agiatezza dei ricchi, ma solleverebbe i poveri al loro livello. Mentre le utopie del passato avevano posto in rilievo il bisogno di distacco dai beni materiali, quelle del XIX secolo cercavano la felicità nella soddisfazione di un sempre crescente numero di bisogni materiali. Non era solo il fatto che il progresso industriale ora permetteva maggior lusso; l’intero atteggiamento verso il piacere materiale era mutato. Nell’«Utopia» di Moro, la gente conduceva una vita austera, non per bisogno, perché aveva oro e argento con cui avrebbe potuto acquistare merci da Paesi stranieri e quindi migliorare il livello di vita, ma perché pensava che il lusso inevitabilmente avrebbe portato corruzione e degenerazione morale. Con poche eccezioni (come Francesco Bacone), gli scrittori utopistici avevano concepito il progresso in termini di miglioramento mentale, fisico e morale degli uomini e questo non si poteva ottenere se troppa importanza veniva attribuita ai beni materiali. Un’indulgenza troppo grande della carne avrebbe comportato corruzione della mente. Noi non ritroviamo tali ansie moralistiche negli utopisti del XIX secolo; essi erano sfacciatamente materialistici e fallivano calcolando la felicità individuale in termini di pezzi di mobilio, di articoli di vestiario o di numero di portate servite ad ogni pasto. Solo occasionalmente troviamo una reazione contro questa tendenza, come in Notizie da Nessun Luogo di William Morris.
L’influenza dei «padri del socialismo» sulle utopie del XIX secolo fu, naturalmente, notevole. Owen, Fourier e Saint-Simon non solo influenzarono le utopie attraverso i loro scritti teorici, ma i loro piani concreti di riforma sociale e di «villaggi di cooperazione», parallelogrammi o falansteri, hanno ispirato molti caratteri delle ultime utopie. Per certi versi, comunque, Owen e Fourier differiscono dall’orientamento principale del pensiero socialista del XIX secolo, perché non auspicano un governo centralizzato e un’intensiva industrializzazione delle campagne ma credono, al contrario, nelle piccole comunità agricole autonome. Owen attribuisce l’iniziativa della costituzione di queste piccole comuni agricole, che non comprendono più di 3.000 abitanti, a qualche governo illuminato, ma esse si devono sostenere e reggere per mezzo di amministrazioni autonome. Tutti gli affari interni verrebbero governati da un Consiglio generale, composto da tutti i membri della comunità tra i 30 ed i 40 anni, mentre gli affari esterni verrebbero seguiti da un altro consiglio generale, comprendente tutti i membri tra i 40 ed i 60 anni. Tutti i membri della comune sono uguali e ricevono uguale porzione di beni prodotti; i consigli generali governano secondo le leggi della natura umana. Quando l’intero mondo sarà pieno di federazioni di comunità agricole, i governi diverranno superflui e scompariranno del tutto. Le idee di Owen sull’educazione sono quelle che forse ebbero maggiore influenza sugli scrittori utopistici. Ripetutamente affermò nei suoi scritti che «il carattere dell’uomo è, senza eccezione alcuna, sempre concepito per lui; che esso può essere ed è, principalmente, creato dai suoi predecessori; che essi gli danno, o possono dargli, le sue idee ed abitudini, che sono i poteri che governano e dirigono il suo comportamento». Pertanto, era compito dell’educazione addestrare gli uomini a «vivere senza pigrizia, senza povertà, senza colpa e senza punizione». I tentativi fatti da Owen per mettere in pratica le sue idee, dapprima a New Lanark e poi nelle comunità che egli fondò in America, ispirarono esperienze similari e nel XIX secolo non è infrequente osservare che le utopie danno esca a movimenti comunitari.
Il nome di Fourier è spesso collegato a quello di Owen a causa di certe somiglianze superficiali tra i due pensatori e nonostante che Fourier si sia sempre riferito a Owen nei termini più denigratori. Fourier è stato chiamato, più ingiustamente di Owen, un «padre del socialismo», perché in effetti non credeva nella comunità dei beni. L’idea in realtà era per lui del tutto ripugnante, perché riteneva indispensabile la disuguaglianza per l’armoniosa realizzazione della sua società ideale. Anche se propugnava l’abolizione dei salari, pensava che i dividendi dovevano esser pagati secondo l’ammontare del capitale investito, i risultati e la capacità degli azionisti individuali. Fourier, comunque, credeva che la società dovesse provvedere anche per coloro che rifiutavano di lavorare, non solo per liberare il lavoro dal suo carattere coattivo ma perché la società ha un dovere nei riguardi dei suoi membri sia che essi producano o no. Ma il lavoro doveva esser reso tanto attraente e fornire tante cose belle che ci sarebbero stati ben pochi oziosi.
Fourier non riponeva la sua fiducia in alcun governo illuminato, ma sperava di trovare qualche ricco patrono che offrisse i fondi necessari per istituire un falansterio e che la gente venisse tanto colpita dai suoi meravigliosi risultati che identici falansteri presto si diffondessero in tutto il mondo. Il vantaggio di tale sistema, come affermava, era di combinare gli interessi dei capitalisti, dei lavoratori e dei consumatori unendo tutte queste funzioni nello stesso individuo. Queste erano le idee che furono adottate da molti associazionisti nell’ultima metà del XIX secolo e sostenute persino da un settore del movimento socialista attuale. Come osserva Charles Gide in A History of Economie Doctrines: «Un programma che tende non all’abolizione della proprietà, ma all’estinzione dei salariati dando loro il diritto di mantenere la proprietà secondo il principio del capitale sociale, che vuol primeggiare, non auspicando la lotta di classe, ma incoraggiando la cooperazione del capitale con la forza lavoro e la capacità dirigenziale e cerca di riconciliare gli interessi conflittuali di capitalista e lavoratore, di produttore e consumatore, di debitore e creditore, saldando insieme quegli interessi in una unica e identica persona, non è affatto un luogo comune. Questo era l’ideale della classe lavoratrice francese fino a che non sorse il collettivismo marxiano ed è del tutto possibile che la sua deposizione possa dopo tutto esser solo temporanea».
La bizzarria di Charles Fourier gli impedì di esercitare una diffusa influenza, ma i suoi scritti contengono una ricchezza di idee tale da renderle una fonte inesauribile di ispirazione per i riformatori sociali e persino i suoi più aspri oppositori furono da lui influenzati. La sua anticipazione delle città giardino, che avrebbero sostituito l’agglomerato di grandi città, la sua difesa dei mercati di prodotti dell’orto che dovevano sostituire l’agricoltura estensiva, il suo studio dei mezzi attraverso i quali il lavoro possa esser reso attraente, i suoi insegnamenti sull’educazione e i problemi sessuali attirarono la diretta attenzione solo di una piccola minoranza, è vero, ma attraverso tale mezzo essi sono noti a molti che non hanno mai letto gli scritti di Fourier.
Sebbene Fourier stesso non fosse mai riuscito a realizzare il suo sogno di costituire un falansterio, vennero create delle comunità basate sulle sue idee sia in Francia che in America. La più famosa, anche se non durò molto, fu la Brook Farm [2] negli Stati Uniti. Anche delle associazioni di produttori e consumatori rette secondo i princìpi di Fourier furono costituite con qualche successo.
Tra i «padri del socialismo» dovremmo menzionare anche Saint-Simon, perché egli, e forse anche di più i suoi seguaci, avanzò idee che si ritroveranno in molte utopie dell’ultima metà del XIX secolo. Mentre Owen e Fourier rappresentarono, per molti versi, una reazione contro l’industrialismo, volendo un ritorno alle piccole comunità agricole, Saint-Simon fu un entusiasta sostenitore del nuovo regime industriale e della nuova classe dirigente creata dalla Grande Rivoluzione e arricchita dalla rapida espansione dell’industria. Sotto il vecchio ordine, la società era retta da nobili e da preti. Costoro ora dovevano essere sostituiti dalla borghesia il cui compito principale era di incoraggiare il progresso della scienza e della tecnica. Sarebbe ridicolo, diceva Saint-Simon, per una società industriale essere retta da nobili che non hanno più alcuna raison d’être o da politicanti che non sanno nulla dei problemi industriali. La vecchia forma di governo deve scomparire perché è completamente inutile per la società.
Nel famoso documento, noto come la Parabola di Saint-Simon (pubblicata nel 1832), egli dimostrò in maniera vivace che la parte vitale della società era composta da scienziati, tecnici, banchieri e uomini d’affari e non da politicanti, funzionari statali o preti: «Supponiamo» scrisse, «che la Francia all’improvviso perdesse cinquanta dei suoi medici di primo piano, cinquanta chimici di primo piano, cinquanta fisiologi di primo piano, cinquanta banchieri di primo piano, duecento dei suoi mercanti migliori, seicento dei suoi agronomi più illustri, cinquecento dei suoi più abili padroni di ferriere, ecc. (elencando le principali attività). Accorgendosi che queste persone sono i suoi produttori più indispensabili, che creano i suoi più importanti prodotti, nell’istante in cui perde costoro, la nazione diviene un semplice corpo senz’anima e cade in uno stato di profonda debolezza agli occhi delle nazioni rivali e rimarrà in questa posizione subordinata finché permane tale perdita e il loro posto non sarà stato sostituito. Facciamo un’altra ipotesi. Immaginiamo che la Francia conservi tutti i suoi uomini d’ingegno, sia nelle arti che nelle scienze o nell’artigianato e nell’industria, ma abbia la disgrazia di perdere lo stesso giorno il fratello del re, il Duca di Angoulême e tutti gli altri membri della famiglia reale; tutti i grandi funzionari della Corona, tutti i ministri di Stato, che siano a capo di un dipartimento o no; tutti i Consiglieri Privati del sovrano; tutti gli incaricati delle petizioni; tutti i cerimonieri, i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, i gran vicari e i canonici; tutti i prefetti ed i sotto prefetti; tutti i funzionari governativi; tutti i giudici; e oltre a tutti costoro, un centinaio di migliaia di proprietari, la crema della sua nobiltà. Una simile tremenda catastrofe sicuramente addolorerebbe i francesi, perché essi sono un popolo incline alla gentilezza d’animo. Ma la perdita di centotrentamila tra le persone di maggior fama dello Stato darebbe luogo a un dispiacere esclusivamente sentimentale. Non provocherebbe alla comunità il minimo inconveniente» [3].
Già nel 1816 Saint-Simon aveva dichiarato che la politica è la scienza della produzione e che alla fine sarebbe stata completamente assorbita dall’economia; la Francia doveva trasformarsi in una fabbrica e la nazione organizzarsi secondo il modello di un’immensa officina. Nella nuova società, tutte le differenze di classe sarebbero scomparse; rimarrebbero solamente lavoratori, usando questa parola nel suo significato più ampio per includere industriali, scienziati, banchieri ed artisti. Ma ciò non significa che tutti saranno uguali, poiché ognuno riceverà secondo le sue capacità (e anche secondo il capitale investito).
L’originalità di Saint-Simon consiste nell’aver attribuito ai migliori capi industriali, scienziati, banchieri, ecc. il compito di amministrare il Paese. In altre parole il vecchio governo dei politici lascerà il posto ad un governo di «managers». Più di cent’anni prima che noi cominciassimo a parlare di una classe dirigente o di una «rivoluzione dirigenziale», Saint-Simon aveva previsto che la rivoluzione industriale avrebbe creato una nuova classe dirigente. Vedremo come Edward Bellamy si rifà a Saint-...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. VIAGGIO ATTRAVERSO UTOPIA
  3. Indice
  4. Intro
  5. NOTA BIOGRAFICA
  6. PRESENTAZIONE
  7. INTRODUZIONE
  8. UTOPIE DELL’ANTICHITÀ
  9. UTOPIE DEL RINASCIMENTO
  10. UTOPIE DELLA RIVOLUZIONE INGLESE
  11. UTOPIE DELL’ILLUMINISMO
  12. UTOPIE DEL DICIANNOVESIMO SECOLO
  13. UTOPIE MODERNE
  14. UTOPIA DEL VAGABONDO
  15. BIBLIOGRAFIA
  16. BIBLIOGRAFIA GENERALE