Mussolini grande attore
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«Questo libro, più psicologico che storico-politico, tenta di rispondere alla domanda: Mussolini è un grande uomo politico? E risponde di sì. Ma aggiunge e spiega che, per essere un grande uomo politico, è necessario essere un grande attore… Tutti coloro che hanno conosciuto da vicino Mussolini hanno constatato il suo dualismo psichico: sensibilità femminile e crudeltà, viltà e coraggio, sincerità e simulazione, ecc. Questo dualismo ha una sola spiegazione: Mussolini è un nevrotico, nel quale si possono notare alcune caratteristiche tipiche della intersessualità». (C.B.)

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Informazioni

IL SUPERUOMO

Fra i tributi di ammirazione pagati a Mussolini, c’è anche quello della sorella di Nietzsche. La cosa mi ha fatto dubitare della sua comprensione del concetto che del superuomo aveva il suo grande e sfortunato fratello. È lui che ha scritto: «Il pathos del gesto non è un segno di grandezza: chi ha bisogno della posa è un essere falso. Diffidate degli uomini pittoreschi!».
Mussolini è un uomo forte? Tra le cose che riferiscono quanti lo hanno conosciuto da vicino, Angelica Balabanoff, che militò al suo fianco per molti anni, racconta nel saggio apparso in Europe già da noi citato: «Fiaccone com’era, Mussolini aveva l’abitudine di lamentarsi continuamente dei fastidi che gli causava la sifilide da cui era affetto e il trattamento che doveva subire: ciò che l’obbligava a recarsi tutti i giorni da uno specialista a ora fissa. Il bisogno patologico di attirare l’attenzione sulla sua persona entrava in qualche modo in questa specie di esibizionismo: egli pensava che parlando apertamente al primo venuto di una malattia che in genere si nasconde, si sarebbe reso interessante. Vedendolo così depresso e volendo tagliar corto ai suoi piagnistei, gli consigliai di consultare uno dei nostri compagni, rinomato medico, allo scopo di stabilire una sicura diagnosi ed una adeguata terapia. Si affrettò a seguire il mio consiglio facendosi accompagnare presso il medico da un amico comune, che era redattore al nostro giornale. In vita mia, non mi sono mai trovata in presenza di un individuo così spaventato e lamentoso come colui che entrò, poco dopo, nell’ufficio di redazione, col viso livido e disfatto, gli occhi più truci del solito. Senza dir parola, si accasciò su una poltrona, nascose la faccia fra le mani e si mise a singhiozzare. Per quanto io fossi abituata alla sua eccessiva impressionabilità, provavo un sentimento di grande pietà per questo infelice che implorava il mio aiuto: – Tu non sai quel che mi è capitato, mi disse singhiozzando. Il medico mi ha fatto un prelievo di sangue. Mi ha anestetizzato il dito con l’etere. L’odore di etere mi perseguita, è nell’aria. Oh, mi raccomando, non lasciarmi solo, ho paura, sono ossessionato da quell’odore... E, in effetti, passò un’intera settimana nel terrore di quella impressione. Quando si avvicinava l’ora in cui gli era stata praticata l’iniezione, una inquietudine s’impadroniva di lui, non poteva più lavorare, stava per morire, diceva. Per calmarlo, facevo andare avanti il pendolo di un’ora. “Sono le cinque l’ora è passata, non pensarci più...” Si calmava subito e si rimetteva al lavoro come se niente fosse successo. In seguito ebbi occasione di intrattenermi con due medici che lo avevano curato e questi due compagni, interpellati in epoche diverse, concordarono nel constatare che mai, durante la loro carriera di medici o di direttori di clinica, avevano incontrato un essere così privo di coraggio. “Vedo migliaia di malati all’anno, disse uno di loro, ma una simile mancanza di forza morale è un esempio unico. Piange per un nonnulla”».
Arturo Vella, Giacinto Menotti-Serrati, Francesco Ciccotti e altri ex-amici di Mussolini parlano, anche essi, della paura che gli mettevano le iniezioni. Eppure questo stesso uomo che ha paura di una iniezione, ha dato prove della sua energia nei duelli. Come si spiega? Si spiega col fatto che nei duelli Mussolini ha un pubblico.
Il dottor Calvini, che lo curò all’ospedale di Ronchi, ove egli si trovava in seguito a ferite riportate per lo scoppio di un lanciabombe, racconta: «Era sempre chiuso in sé stesso, triste silenzioso, quasi stranito. Ma quando veniva portato in sala operatoria, acquistava una vivacità, una vitalità singolari. Fissava il bisturi con occhio fermo, e quando la lama incideva la carne, reagiva allo spasmo serrando le mascelle con una imprecazione a fior di labbra. Ma, subito dopo, guardandoci sorrideva».
Angelica Balabanoff racconta ancora: «Avendo saputo che abitavamo nella stessa via, Mussolini mi chiedeva tutte le sere (o meglio tutte le notti, poiché l’ Avanti! usciva solo alle quattro del mattino) di aspettarlo e si mostrava molto contrariato quando non lo facevo.
– Mi secca restare solo, mi diceva, non si sa mai!
– Ma di che cosa hai paura?
– Di che cosa ho paura? Di me stesso, della mia ombra, di un cane, di un albero, mi rispondeva, scrollando le spalle».
Quest’uomo sapeva tuttavia stare a capo di agitazioni di piazza. Pietro Nenni ( Six ans de guerre civile en Italie, cit.) racconta a proposito della lotta contro la spedizione militare in Tripolitania: «Era l’ottobre 1910 e l’episodio stava per trarre Mussolini dall’oscura vita di provincia. Noi avevamo organizzato a Forlì la resistenza contro la partenza delle truppe e rivedo ancora la scena dell’assalto alla stazione per divellere le rotaie e impedire al treno di partire. Erano circa le tre del pomeriggio. Una enorme folla, ammassata sulla pubblica piazza, ascoltava i nostri discorsi. Poi un grido uscì da mille petti: “Alla stazione!” E la folla si lanciò, cantando, verso la stazione ove sostava un treno militare. Improvvisamente la cavalleria ci attaccò, sciabola in aria. Si rispose con i sassi. Si strappavano le tavole di un recinto per battersi. Mi rivedo, riverso a terra, con una larga ferita alla testa, da cui usciva a rivoli il sangue, una ferita alle spalle, e vicino Mussolini, con una frusta in mano, che esortava i nostri a non cedere».
Questo stesso uomo fu visto dall’agitatore sindacalista Alceste De Ambris, con gli occhi sbarrati e pallido come un morto, aggrappato ad un lampione, lontano dalla piazza ove si stava scatenando una carica di cavalleria: «Che fai qui?». «Mi tengo attaccato, per non darmela a gambe».
Ho interrogato parecchi operai che han visto Mussolini sulle piazze. Mi hanno dato risposte assolutamente contrastanti: «Un uomo di coraggio». «Un vile». In realtà Mussolini è l’uno e l’altro insieme. Quando è preso dalla preoccupazione di mostrarsi coraggioso, riesce ad esserlo; quando non ha un pubblico che lo guarda, si lascia dominare dalla sua debolezza. Quando fu ferito da Violette Gibson, svenne, ma avendo ripreso coscienza, mostrò ostentatamente la più grande serenità. Dopo l’attentato Zamboni, redasse lui stesso il comunicato con cui «la sorridente calma del Duce» veniva offerta, per radio, alla ammirazione del mondo (vedi Il Giornale d’Italia del 2 novembre 1926).
Accusato di aver diretto la manifestazione di cui parla Pietro Nenni, Mussolini, durante l’istruttoria, tentò di scaricare la responsabilità sui suoi compagni coimputati e sulla folla, e s’irritava contro i suoi avvocati che non riuscivano a farlo «prosciogliere». A quanti gli facevano sperare in una amnistia, rispondeva che l’amnistia è concessa per le condanne molto gravi e i due o tre anni che egli rischiava erano troppo poco per l’amnistia e troppi perché potesse sopportarli; senza contare che non aveva la scappatoia di farsi eleggere deputato, per la sua età. Si mostrava con gli intimi atterrito e ripeteva: «Due o tre di galera, porco di...!».
Quest’uomo stesso, all’udienza, disse ai giudici, per la platea: «La vostra assoluzione o la vostra condanna non hanno per me alcuna importanza. La prigione è in fondo un regime tollerabile. Un proverbio russo dice che per essere uomo completo bisogna fare quattro anni di ginnasio, due di università e due di prigione. Chi ha avuto troppo frequenti relazioni con la gente, sente, di tanto in tanto, bisogno di solitudine».
Margherita Sarfatti, nel suo libro apologetico Dux (Milano, Mondadori, 1926, p. 66) racconta che una sera Mussolini si avviava ad uscire dai giardini pubblici di Milano con degli amici, quando presso i cancelli una guardia cominciò ad agitare le chiavi e a dire: «Si chiude, signori, si chiude». Mussolini scattò rapido, impallidendo. A chi, ridendo, lo voleva trattenere dal correre verso l’uscita ancor libera, si rivoltò incollerito, con l’ansia della belva in trappola, della belva che teme l’agguato: «No, no, non posso, io non posso sentirmi chiuso! Queste sbarre, questi cancelli; voi non sapete cosa sia, cosa voglia dire la prigione! Soffoco io! Undici volte in carcere: è una sofferenza che non ci si cava di dosso».
Ciò non gli impedisce, uscendo di prigione, verso la stessa epoca, di dire agli amici che l’attendevano alla uscita: «Proprio ora la libertà! Quando in carcere cominciavo a riposarmi e a distendere un po’ i nervi!»
La paura degli attentati, la paura della catastrofe che lo condurrebbe davanti ad un plotone di esecuzione o all’ergastolo, spinge Mussolini alla reazione. Nel suo discorso del 26 maggio 1927 egli scopriva il legame fra la sua paura e le misure eccezionali: «Ricordate la grande giornata del 31 ottobre a Bologna... Ricordate il trascurabile incidente della sera [l’attentato Zamboni]... Fu allora che su questo foglio di carta scritto di mio pugno, a lapis, come vedete, dettai le misure che si dovevano prendere: ritiro e revisione di tutti i passaporti per l’estero: ordine di far fuoco senza preavviso su chiunque sia sorpreso in procinto di valicare clandestinamente la frontiera; soppressione di tutte le associazioni, organizzazioni e gruppi antifascisti o sospetti di antifascismo; deportazione di tutti coloro che siano sospetti di antifascismo, o che esplichino una qualsiasi attività controrivoluzionaria...; creazione di una Polizia speciale in tutte le regioni; creazioni di uffici di Polizia e di investigazione e di un tribunale speciale... Tutti i giornali di opposizione sono stati soppressi; tutti i partiti antifascisti sono stati sciolti; si è creata la Polizia speciale delle regioni che rende già segnalati servizi; si sono creati gli uffici politici di investigazione; si è creato il Tribunale speciale, che funziona egregiamente e non ha dato luogo ad inconvenienti...». ( Atti del Parlamento italiano. Camera dei Deputati. Discussioni. Tornata del 26 maggio 1927).
Tutti coloro che hanno conosciuto da vicino Mussolini hanno constatato il suo dualismo psichico: sensibilità femminile e crudeltà, viltà e coraggio, sincerità e simulazione, ecc. Questo dualismo ha una sola spiegazione: Mussolini è un nevrotico, nel quale si possono notare alcune caratteristiche tipiche della intersessualità.
Figlio di una madre che «impersonava la dolcezza» come dice Pietro Nenni, e alla quale egli rassomiglia in modo straordinario per la fisionomia, egli era, da ragazzo, timido, dolce e brutale ad un tempo. In una sua autobiografia inedita, Mussolini dice: «Io ero un monello irrequieto e manesco. Più volte tornavo a casa con la testa rotta da una sassata. Ma sapevo vendicarmi. Ero un audacissimo ladro campestre...». Nel suo diario di guerra: «Venticinque anni fa io ero un bambino puntiglioso e violento. Alcuni dei miei coetanei recano ancora nella testa i segni delle mie sassate. Nomade d’istinto io me ne andavo dal mattino alla sera, lungo il fiume, e rubavo nidi e frutti. Andavo a messa... Nella chiesa c’erano tante luci... Solo l’odore dell’incenso mi procurava un turbamento che qualche volta mi dava istanti di malessere insopportabile».
Alla vigilia del ritorno in collegio litiga con un suo compagno: «Gli sferrai un pugno, ma invece di colpir lui, battei nel muro e mi feci male alle nocche delle dita» (M. Sarfatti, op. cit., p. 34).
Nel 1898 un colpo di temperino dato, in un accesso di collera, a uno dei suoi compagni, provoca l’espulsione dal collegio (D. Russo, Mussolini et le fascisme. Paris, 1923, Cap. VIII). M. Sarfatti scrive: «Non poteva ammettere che nessuno fosse più bravo, o lo sorpassasse in alcuna cosa... Per una parola, per uno sguardo, per nulla, nel collegio si abbandonava alla violenza del pugno, e regnava sui condiscepoli con il terrore» ( op. cit., pp. 38-39). Ed essa aggiunge che quando Mussolini ricorda qualcuna delle sue liti di fanciullo «ha ancora una piega orgogliosa e cattiva sulle labbra, ancora gusta il rancore dell’offesa e la vendetta» ( op. cit., p. 21).
Si è detto, giustamente, che «il fanciullo è il padre dell’uomo» [1] . Noi vediamo in Mussolini ragazzo questo desiderio di elevarsi, di esaltare il sentimento della sua personalità, che costituisce, secondo Adler, «la forza motrice e lo scopo finale» della nevrosi, quando questa nasce dalla repressione del sentimento di inferiorità. Le esplosioni di collera rabbiosa erano in Mussolini fanciullo uno dei suoi «mezzi di difesa», una compensazione, «cioè una ostentazione di certe proprietà e attitudini, destinate ad ingannare lo stesso soggetto e quelli che lo circondano sulla sua forza reale, a servire di paravento alla sua debolezza psichica» (Kretschner). Questo espediente spiega anche le sue stravaganze, le sue esagerazioni, dovute alla continua simulazione di una personalità fittizia. Si pensa a lui, leggendo ancora le parole di Kretschner: «L’assenza di valore proprio e la ricerca di valore proprio (Storch) determinano un gran numero di elementi disadatti, forzati, esasperati e caricaturali di cui si compone il carattere dell’isterico generico e del psicopatico schizoide e anestesico: ricerca di una facciata a effetto, quando i materiali psichici per la costruzione di questa facciata difettano; sforzi incessanti, accaniti, talvolta radicali, talvolta quasi tragici, che il soggetto impone a sé stesso per mostrarsi diverso da quello che è in realtà».
Mussolini era sfrontato nel nascondere la sua timidezza. Così, essendosi recato a Bologna per sostenere l’esame di insegnante di francese, entrò nella sala d’esami con la sigaretta in bocca. Richiamato all’ordine dagli esaminatori, gettò via la sigaretta dicendo: «Ah! Dimenticavo di trovarmi in una accademia». Commetteva atti di questo genere solo per «far colpo». Così imitava, talvolta, lo stile di Paolo Valera, un giornalista boulevardier, imitatore, a sua volta, di Jules Vallès, per meravigliare i suoi lettori. Così si vestiva sciattamente pensando che un atteggiamento «gorkiano» era il più indicato per un agitatore rivoluzionario.
Quando andò al Congresso socialista di Ancona, partì da Milano con un completo tutto nuovo e arrivò con dei pantaloni bucati e un lacero cappello tutto sporco. Poi tornò a Milano col suo abito nuovo. Quando giunse a Trento, i suoi compagni, vedendolo mal messo, gli regalarono un vestito che, all’indomani, era irriconoscibile e Mussolini si giustificò dicendo che non poteva sopportare gli abiti nuovi. Nel Friuli le ragazze lo chiamavano «il tiranno» poiché gli piaceva darsi arie terribili. Numerosi sono coloro che ricordano le sue declamazioni alla luna e le passeggiate nei cimiteri di notte, le sue collere piene di terribili minacce e che restavano puramente verbali. Tutto questo dinamismo teatrale celava la sua debolezza morale. Egli aveva bisogno – lo ripeto – di parlare della sua forza, di simulare la fermezza e il coraggio, di esaltarsi e di esaltare gli altri per non avvertire le insufficienze del suo carattere.
Tutta la sua vita rivela inclinazioni estreme che ripiegano su sé stesse, brevi periodi d’euforia seguiti da periodi di melanconia e di abulia. Durante i difficili momenti passati in Svizzera, le sue reazioni sono date da esplosioni verbali. Parlando di un padrone che lo aveva mortificato, scriveva ad uno dei suoi amici: «Cosa dovevo fargli? Ucciderlo. Cosa gli feci? Nulla. Perché? Avevo fame ed ero senza scarpe». E scrivendo a proposito di una giornata di fame: «Oh! se fosse venuto De Dominicis [era uno scrittore di pedagogia] a predicarmi la sua morale, con che gusto l’avrei scannato!». Vede passare una coppia di vecchi inglesi: «La donna tozza e pelata, rifulge d’oro e di gemme... Fuggo bestemmiando. Ah! santa idea l’Anarchia del pensiero e dell’azione. Non è un diritto di chi giace, mordere chi lo schiaccia?» (M. Sarfatti, op. cit. pp. 59-60).
Durante questo periodo critico di cui parla in Ma vie ( Candide, 1928), presentandosi come un vagabondo sereno, non commise che un piccolo furto. Tutta la sua esasperazione si scaricò nell’esaltazione giornalistica dell’espropriazione individuale.
Tornato in Italia il terribile antimilitarista fu un disciplinato bersagliere, al punto che lasciò l’esercito col grado di sergente. In Ma Vie Mussolini stesso racconta che solo per un caso non scelse la carriera militare: ciò che appare un po’ strano per un insubordinato quale egli era. Quando era direttore dell’ Avvenire del Lavoratore di Trento e segretario della Camera del Lavoro, scriveva ad uno dei suoi amici (26 febbraio 1909):
«Ho messo degli avvisi nei giornali, offrendomi quale insegnante privato di lingua francese. Se riesco a vivere con questo mezzo rinuncio al segretariato subito. Noterai che il mio articolo è aspro, avvelenato, macabro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. MUSSOLINI GRANDE ATTORE
  3. Indice
  4. Intro
  5. PREMESSA
  6. L’EPOCA DI MUSSOLINI
  7. IL BARNUM DEGLI DÈI
  8. L’ATTORE-REGISTA
  9. IL TRIBUNO
  10. IL MITO DEL DEMIURGO
  11. CESARE BORGIA
  12. IL SUPERUOMO
  13. CONCLUSIONE
  14. FASCISMO. AUTORITRATTO DI UNA NAZIONE
  15. DELLA DEMAGOGIA ORATORIA
  16. IL GRANDE COSTRUTTORE
  17. Ringraziamenti