L'Anticristo
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L'Anticristo. Maledizione del Cristianesimo (Der Antichrist) fu pubblicato originariamente nel 1895, ma in realtà scritto nel 1888 (i suoi contenuti controversi spinsero Franz Camille Overbeck e Heinrich Köselitz a posticipare la sua pubblicazione).
Nietzsche accorpa come Cristianesimo ogni forma di male sociale per il quale il mondo soffre e quello morale da cui è oppresso l'uomo. San Paolo utilizzò le masse e gli oppressi per arrivare al potere e così cercano di fare, quando Nietzsche scrive, i socialisti.
Questi il filosofo tedesco li liquida con disprezzo come cristiani.
Il Cristianesimo avrebbe costruito una metafisica del mondo dietro al mondo venendo poi rincorso dal Romanticismo e dall'idealismo tedeschi. L'unico vero "cristiano" sarebbe Gesù Cristo (poiché il Cristianesimo sarebbe un rovesciamento dell'insegnamento iniziale, l'anticristo coincide con il promulgatore di quello) un uomo morto in croce e non risorto, secondo il parere del filosofo.
Il Cristo di Nietzsche è diretta filiazione dal protagonista de L'idiota, romanzo di Fëdor Dostoevskij, come I demoni, da cui è invece ripresa (sempre ne L'Anticristo) la teoria che identifica nella forza e l'importanza di un dio, il riflesso di quella del suo popolo. Friedrich Wilhelm Nietzsche (15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) è stato un filosofo, poeta, saggista, compositore e filologo tedesco. Considerato tra i massimi filosofi e scrittori di ogni tempo, ebbe un'influenza controversa, ma indiscutibile, sul pensiero filosofico, letterario, politico e scientifico del mondo occidentale nel XX secolo. La sua filosofia, in parte riconducibile al filone delle filosofie della vita, fu considerata da alcuni uno spartiacque fra la filosofia tradizionale e un nuovo modello di riflessione, informale e provocatorio.
In ogni caso, si tratta di un pensatore unico nel suo genere, sì da giustificare l'enorme influenza da lui esercitata sul pensiero posteriore.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9788835366898

L'Anticristo

I.



Guardiamoci faccia a faccia. Siamo iperborei e sappiamo perfettamente quanto diversamente viviamo. «Nè per terra, nè per mare, troverai la via che mena agli iperborei», come Pindaro disse di noi. Al di là del Nord, del cielo, della morte — «nostra» vita, «nostra» felicità... Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita del labirinto attraverso migliaia d’anni. Chi la trovò? L’uomo moderno forse? «Io non so nè uscire nè entrare», sospira l’uomo moderno... Eravamo malati di «questo modernismo — malati della pace malsana, del vile compromesso, di tutto il virtuoso sudiciume del moderno si e no. Questa tolleranza e «largeur» del cuore, che tutto «perdona» perchè tutto comprende, è per noi come il vento scirocco. Meglio vivere tra i ghiacci che in mezzo alle virtù moderne e agli altri venti del Sud! Siamo stati abbastanza coraggiosi; non abbiamo avuto una meta nè per noi nè per gli altri: perciò per molto tempo non abbiamo saputo «dove» andare col nostro valore. Eravamo diventati tristi, ci chiamavano fatalisti. La «nostra» fatalità, era la pienezza della tensione, l’immobilità delle forze. Avevamo sete di lampi e di fatti, rimanevamo il più lontano «possibile» dalla felicità dei deboli, dalla «rassegnazione»... La nostra atmosfera era carica di tempesta, si intorbidava la nostra stessa natura, «perché non avevamo una via». Ecco la formola della nostra felicità: un sì, un no, una linea retta, un «fine...»



II.



Che cosa è bene? — Tutto ciò che aumenta nell’uomo il sentimento del potere, la volontà per il potere, il potere stesso.

Che cosa è male? — Tutto ciò che procede dalla debolezza.

Che cosa è la felicità? — Il sentimento con cui il potere «si ingrandisce» — con cui si vince una resistenza.

Non appagamento, ma più potere; non pace sopra tutto, ma guerra; non virtù, ma valore (virtù, nello stile del rinascimento; «virtus», virtù spoglia d’ipocrisia).

Muoiano i deboli e gli infermi: primo principio del nostro amore per l’uomo. Bisogna, anzi, aiutarli a sparire.

Qual’è il vizio più nocivo di qualsiasi altro vizio? — La pietà dell’azione verso gli infermi ed i deboli: — il cristianesimo...



III.



Ciò che bisogna sostituire nella scala degli esseri all’umanità, non è il problema: l’uomo è un fine — ma questo: che tipo di uomo si deve «educare», si deve «volere», perchè esso sia il più sicuro dell’avvenire?

Questo tipo di piú alto valore è già abbastanza frequentemente esistito; ma come caso sporadico, come eccezione, giammai come «voluto». Al contrario è stato precisamente il più temuto; fino ad ora è stato quasi lo spauracchio e per questo timore, il tipo contrario risultò voluto, educato, «conseguito»: la bestia domestica, la bestia da macello, l’infermiccia bestia umana, — il cristiano...



IV.



L’umanità non rappresenta un’evoluzione verso qualche cosa di più buono, di più forte, di più elevato come si crede oggi. Il «progresso» non è altro che un’idea moderna, cioè, un’idea falsa. In quanto a valore, l’europeo d’oggi sta abbastanza al disotto dell’europeo del rinascimento. Evolversi «non» significa assolutamente, necessariamente elevarsi, sublimarsi, fortificarsi.

In altro senso, esiste una serie continua di casi isolati in diversi punti della terra ed in mezzo alle civiltà più diverse, con i quali si rappresenta in effetto un «tipo superiore», qualche cosa che relativamente all’intera umanità, costituisce una specie di superuomo. Tali casualità della gran serie furono sempre possibili, lo saranno forse sempre. Perfino razze intere, tribù e popoli possono, in circostanze particolari, rappresentare un simile «uomo del destino».



V.



Non bisogna abbellire nè adornare il cristianesimo. Ha sostenuto una «guerra a morte» contro questo tipo superiore di uomo, ha censurato tutti gli istinti fondamentali di questo tipo, ha distillato da questi istinti il male: ha preso l’uomo forte come tipo del «reprobo», «l’uomo reprobo». Il cristianesimo ha difeso tutto ciò che è debole, basso, fallito, ha fatto un ideale della «opposizione» agli istinti di conservazione della vita sana; ha corrotto perfino la ragione delle nature più intellettualmente poderose, insegnando che i valori superiori dell’intellettualità non sono che peccati, vizî, «tentazioni». L’esempio più lamentevole è la corruzione di Pascal, che credeva nella perversione della sua ragione per opera del peccato originale, mentre era pervertita solo per opera del suo cristianesimo.



VI.



Uno spettacolo doloroso, terrificante mi si è presentato davanti agli occhi: ho alzata la cortina della corruzione degli uomini. Questa parola sulle mie labbra è al meno al coperto da un sospetto, quello di contenere un’accusa morale contro l’uomo. Lo credo — vorrei sottolinearlo un altra volta — sprovvisto di «moralina»: e ciò fino al punto che io noto questa corruzione più nei luoghi dove, sino ai nostri giorni, si aspirava più coscienziosamente alla «virtù», alla «divinità». Intendo la corruzione, come è facile indovinare, nel senso di «décadence».

Chiamo corrotto, sia un animale, sia una specie, sia un individuo, quando perde i suoi istinti, quando sceglie e «preferisce» ciò che gli è nocivo. Una storia dei «più elevati sentimenti», degli «ideali dell’umanità» — e forse mi sarà necessario farla, — darebbe approssimativamente la spiegazione della causa per cui l’uomo si trova così corrotto. La vita stessa è per me l’istinto dell’accrescimento, della durata, dell’accumulazione di forze, di «potenza»; dove manca la volontà di potere, è degenerazione. Ed io asserisco che codesta volontà, «manca» in tutti i valori superiori dell’umanità, che regnano sotto i nomi più sacri; valori di degenerazione, valori «nihilisti».



VII.



Il cristianesimo si chiama religione della «pietà». La pietà è in opposizione con gli affetti tonici, che elevano l’energia del sentimento vitale; essa opera con effetto depressivo. Quando si ha compassione si perde forza. La pietà aumenta e moltiplica sempre più la perdita di forza che il dolore infligge già per suo conto alla vita. Il dolore stesso, per la pietà, arriva ad essere contagioso; in certi casi può apportare una perdita totale di vita e di energia vitale, perdita assurda, se la si paragona con la meschinità della causa, (il caso della morte del Nazareno). Ecco il primo punto di vista: tuttavia ne esiste un altro più importante ancora.

La pietà viola insomma la legge della evoluzione, che è quella della «selezione». Raccatta ciò che è maturo per la dissoluzione e si adopera in favore dei diseredati e dei condannati dalla vita. Con l’abbondanza di cose malsane d’ogni genere che «trattiene» nella vita, dà alla vita stessa un aspetto fosco e malcerto. Si è avuto il coraggio di chiamar virtù la pietà — (in ogni morale «nobile» è ritenuta debolezza) — e si è andati più oltre: si è fatto di essa «la» virtù, il terreno, la matrice di tutte le virtù. Non bisogna però dimenticare che ciò era dal punto di vista di una filosofia nihilista che poneva per divisa sul suo scudo «la negazione della vita».

Schopenhauer aveva ragione quando diceva: «La vita è negata dalla pietà; questa la rende ancor più degna di esser negata».

La pietà è la pratica del «nihilismo». Ripetiamolo ancora una volta: questo istinto depressivo e contagioso viola quegli istinti che tendono alla conservazione ed all’accrescimento del valore della vita; sia come «moltiplicatore», sia come «conservatore» di tutte le miserie, è uno dei fattori principali della «décadence»: — la pietà spinge al «nulla»! Non si dice «il nulla»: si pone in sua vece «l’al di là» oppure «Dio», oppure «la vera vita»; o il nirvana, la salvazione, la felicità eterna... Questa innocente retorica, originaria del regno della idiosincrasia religioso-morale, sembrerà in seguito «molto meno innocente» se si pensi «quale» tendenza si cela in questo caso sotto il velo delle parole sublimi, la tendenza «nemica alla vita». Schopenhauer era nemico della vita, perciò la pietà si mutò per lui in una virtù... È noto che Aristotele vedeva nella pietà uno stato malsano e pericoloso, a cui sarebbe stato opportuno rimediare di quando in quando con un buon purgante, e considerava la tragedia come una purga. Per salvare l’istinto della vita, sarebbe effettivamente necessario cercare un mezzo per dare un colpo ad un serbatoio di pietà, tanto pericoloso e malsano, come dimostra il caso di Schopenhauer, (e disgraziatamente anche quello di tutta l’attuale «décadence» letteraria ed artistica da San Pietroburgo a Parigi, da Tolstoj a Wagner), per farlo «scoppiare...» Nulla è tanto nocivo in mezzo al nostro malsano modernismo, quanto la pietà cristiana.

Esser medici, essere implacabili «in questo caso», questo «ci» spetta; questa è la «nostra» specie d’amore per l’uomo; per essa siamo «noi» filosofi, noi gli iperborei!



VIII.



È necessario dire «chi» consideriamo come nostro avversario e di tutta la nostra filosofia: — i teologi e quanti han sangue di teologo nelle vene.

Bisogna aver visto da presso questo destino, meglio ancora, bisogna averlo vissuto, bisogna essere stato sul punto di morire per esso, per non ammetter più scherzi in questo caso. Il libero pensiero dei nostri signori uomini di scienza, dei nostri fisiologi è, a mio vedere, una «burla» poichè ad essi fa difetto la passione per queste questioni, fa difetto la «sofferenza» per esse. Questo avvelenamento va molto più lontano di quel che si creda: ho incontrato di nuovo l’istinto teologico dell’«orgoglio», d’onde proviene che oggi si sentano gli «idealisti», d’onde proviene che, grazie ad un’origine più elevata, si arroghino il diritto di guardare la realtà dall’alto e come se ci fosse estranea... L’idealista ed il sacerdote hanno tutte le grandi idee in mano, (e non in mano soltanto); le mettono in giuoco con benevolo disdegno, contro la «ragione», contro «i sensi», contro la «scienza», — e vedono tali cose «ai loro piedi» come se fossero forze perniciose e seduttrici sulle quali aleggiasse lo «spirito» in un’astrazione pura: come se l’umiltà, la castità, la povertà, la «santità» in una parola, non avessero finora fatto alla vita più male di qualsiasi altra cosa terribile, di qualsiasi vizio... Lo spirito puro è la menzogna pura. Fino a che il sacerdote sarà reputato appartenente ad una classe «superiore», (il sacerdote, questo negatore, questo calunniatore, questo avvelenatore della vita «per professione»), non si avrà risposta alla domanda: Che cosa è la verità? La verità sfugge dalle menti, se il suddetto avvocato del nulla e della negazione è reputato il rappresentante della «verità».



IX.



A questo istinto teologico io faccio la guerra: ho trovato le orme dovunque. Quanto ha sangue di teologo nelle vene si trova sin da principio in una posizione falsa rispetto a tutte le cose, in una posizione che manca di dignità. Il «pathos» che da esso emana si chiama la «fede»: chiuder gli occhi una volta per sempre davanti a se stesso, per non soffrire a causa dell’aspetto di un’incurabile falsità. Di questa ettica difettosa si fa una morale, una virtù, una santità; si accoppia la buona coscienza con la «falsa visione»: si pretende che nessun’«altra» specie di ottica abbia valore, dappoichè è diventata sacrosanta la sua con i nomi di «Dio», «salvazione», «eternità». Dovunque sono andato, ho scovato l’istinto teologico: è la forma più estesa, la forma veramente «sotterranea» della falsità. Ciò che un teologo ritiene per vero, «deve» esser falso: questo è quasi un criterio di verità. Il suo più basso istinto di conservazione è quello che gli proibisce di porre in chiaro la realtà, o di concederle la parola in una qualsiasi occasione. Dove arriva l’influenza teologica, son trasposte le «valutazioni», o necessariamente invertiti i concetti «vero» e «falso»: «Vero» è per esso ciò che è più pernicioso per la vita; ciò che la innalza, la eleva, l’afferma, la giustifica e la fa trionfare, si chiama «falso»... Se accade che i teologi, per mezzo della «coscienza» dei principi (o dei popoli), stendono le mani al «potere», noi non dubitiamo di ciò che si trova sempre nel fondo: la volontà del fine, la volontà «nihilista» aspira al potere...



X.



Mi si capirà in seguito se dico che la filosofia tra i tedeschi è corrotta dal sangue dei teologi. Il pastore protestante è l’avolo della filosofia tedesca, lo stesso protestantismo è il suo «peccatum originale». Definizione del protestantismo: l'emiplegia del cristianesimo e della ragione... Non bisogna che pronunziare le parole «Scuola di Tubinga», per comprendere quel che è in fondo la filosofia tedesca: una teologia «astuta». I filosofi sono i più bravi ipocriti di Germania; mentono innocentemente...... Donde scaturisce la gioia che all'apparire di Kant passò in Germania attraverso il mondo della scienza che nei suoi tre quarti si compone di figli di pastori e di figli di maestri?

Donde procede la convinzione tedesca — che trova ancora eco — che con Kant incomincia un mutamento verso il «meglio»? L’istinto teologico nel savio tedesco indovinava ciò che stava per esser possibile. Si era aperta una via indiretta per l'antico ideale; il concetto del «mondo verità», il concetto della morale come «essenza» del mondo, (gli errori più perfidi che esistono!), erano di nuovo, se non dimostrabili, almeno «non refutabili», grazie ad uno scetticismo sottile ed astuto... La ragione, il «diritto» della ragione non arriva a tanto... Si era fatto della realtà un’«esperienza»; un mondo assolutamente «bugiardo», quello dell'essenza, era diventato realtà... L'effetto di Kant non è che l’effetto di un teologo: Kant fu come Lutero, come Leibnitz, un freno di più per la proibità tedesca, di per sè stessa poco solida.



XI.



Una parola ancora contro Kant come «moralista». Una virtù deve essere una «nostra» invenzione, una «nostra» difesa, una «nostra» necessità personale: presa in qualunque altro senso non è più che un pericolo. Ciò che non costituisce una condizione vitale è «nocivo» alla vita: una virtù che esiste soltanto a causa di un sentimento di rispetto verso l'idea di «virtù», come Kant la voleva, è pericolosa. La «virtù», il «dovere», il «bene in sè», il bene coi carattere dell'impersonalità e del valore generale; chimere in cui si estrinseca la degenerazione, l’ultimo indebolimento della vita, la sottigliezza di Koenisberg. Le leggi più profonde della conservazione e dell’accrescimento esigono il contrario: che ognuno inventi per sè la «sua» virtù, il «suo» imperativo categorico. Un popolo muore quando confonde il «suo» dovere con la concezione generale del dovere. Niente rovina tanto profondamente ed irrimediabilmente quanto qualsiasi dovere «impersonale», qualsiasi sacrificio avanti al dio Moloch dell'astrazione.

— Che non si sia trovato «pericoloso» per la vita l'imperativo categorico di Kant!... Solo lo spirito teologico lo prese sotto la sua protezione! Un'azione a cui spinge l’istinto della vita, dimostra di essere un’azione «conveniente» per il piacere che l'accompagna: mentre quel nihilista dalle visceri cristiano-dogmatiche considerava l'allegria come un’«abbiezzione». Chi è che distrugge più rapidamente del lavorare, del pensare, del sentire, senza necessità interiore, senza una profonda elezione personale, senza «piacere», come automa del «dovere»?

E’ in certo modo la ricetta per la «décadence» e fino per l’imbecillità... Kant divenne imbecille. E costui era contemporaneo di Goethe! Questo destino di ragno era considerato come il filosofo «tedesco» per eccellenza, e lo è ancora!... Mi astengo dal dire quel che penso dei tedeschi!... Non vedeva Kant nella rivoluzione francese il passaggio dalla forma inorganica dello Stato alla forma «organica»? Non si era domandato se esistesse un fatto non esplicabile diversamente che con un’attitudine morale dell’umanità, di guisa che per quel fatto si «dimostrasse» una volta per sempre, «la tendenza dell’umanità verso il bene?» Risposta di Kant: — «E’ la rivoluzione.» — L’istinto che equivoca in tutte le cose; il contrarlo alla natura come istinto, la «décadence» tedesca come filosofia — questo è Kant!

XII.


Mette da parte alcuni scettici, il tipo onesto nella storia della filosofia; chè il resto ignora le pi...

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  1. Copertina
  2. L'Anticristo
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