Camillo Benso di Cavour
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Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) fu ministro del Regno di Sardegna dal 1850 al 1852, presidente del Consiglio dei ministri dal 1852 al 1859 e dal 1860 al 1861. Proprio nel 1861, con la proclamazione del Regno d'Italia, divenne il primo presidente del Consiglio dei ministri del nuovo Stato. È stato un grande protagonista del Risorgimento italiano, quale sostenitore delle idee liberali, del progresso civile ed economico, dei movimenti nazionali e dell'espansionismo del Regno di Sardegna ai danni dell'Austria e degli Stati italiani preunitari. Contrastò le idee repubblicane di Giuseppe Mazzini e spesso si trovò in urto con Giuseppe Garibaldi, della cui azione temeva il potenziale eversivo e rivoluzionario. In questa edizione il testo è stato interamente ma prudentemente normalizzato.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788835367505
Argomento
Historia

PARTE PRIMA

Tenacem propositi virum. (Hor.)

I.
Il conte Camillo Benso di Cavour nacque dal marchese don Michele Giuseppe e da una ginevrina, Adelaide Susanna Sellon, il 10 agosto 1810. Antica e nobile stirpe era la sua: egregi fatti di guerra e di pace, erano stati cagione che il cognome della sua famiglia ricorresse spesse volte nelle storie del paese, al quale egli doveva maturare così grandi destini.
Il conte Camillo ebbe dai padri suoi quel sentimento che le razze antiche e nobili, se non degeneri, hanno; quel sentimento intimo ed istintivo della storia patria, di cui sono state una parte, nel quale si fondono i ricordi del passato colle speranze dell’avvenire, e quegli e queste diventano insieme la base su cui l’uomo di Stato, non intento solo a conservare, ma ad innovare, poggia l’edificio e trova l’equilibrio della sua politica. Questo sentimento è la ragione per cui suole generalmente accadere che quelli i quali appartengono a famiglie già illustri nella storia d’una nazione, si trovino adatti a continuarla meglio di quelli che escano da famiglie le quali v’hanno a registrare il loro nome per la prima volta.
AI tempi della giovinezza di Camillo Cavour, il suo cognome non era dei più amati in Piemonte. Suo padre, una gentile ed onesta persona in qualità di privato, si trovava, come vicario della città di Torino, troppa parte egli stesso d’una amministrazione pettegola, incerta e sospettosa, perché dell’odio nutrito dal pubblico contro il governo non si versasse una gran parte sopra di lui. Il Vicario, che d’ogni cosa faceva relazione a Carlo Alberto, — spinto ora per un verso, ora per l’altro dai dubbi della sua mente, dalle opposte qualità della sua indole misteriosa, — non s’accorse di certo, né riferì poi che gli viveva in casa chi avrebbe con risolutezza cooperato a mettere, e poi avviato il Piemonte per una strada in cui Carlo Alberto, a quei tempi, non si risolveva ad entrare, quantunque sentisse che da quella in cui era, avrebbe pure una volta ad uscire.
Camillo Cavour, dunque, visse gli anni di sua giovinezza, sono per dire, contraddicendo, e i primi tempi della sua vita civile e politica furono un contrasto continuo tra il pubblico e lui; giacché quello voleva giudicarlo e spiegarne gli atti da ciò che si sapeva e s’esagerava del suo parentado; egli, continuando per la sua via, si teneva sicuro che si sarebbe pur dovuto finire col giudicarlo da lui medesimo. Questo contrasto temperò l’animo all’uomo; e gli dovette, sin da giovane, dar l’abitudine di desiderare con ambizione di gloria il suffragio dei suoi concittadini, ma di non piegarsi per ottenerlo.
Fu educato, come la più parte della nobile gioventù piemontese, nell’Accademia militare. Ed insieme, per la causa della stessa intrinsichezza che passava tra suo padre e Carlo Alberto, allora Principe di Carignano, ebbe l’onore d’essere nominato a paggio; onore, del resto, di cui nessun altro s’addiceva meno alla sua indole vigorosa, pronta e recisa sin da fanciullo, e dal cui onere, quindi, fu, a breve andare, liberato da Carlo Felice, che gli diede licenza; giacché a dieci anni dava già troppi segni che la livrea gl’incresceva; tanto che quando l’ebbe scossa via, gli parve e disse d’essersi tolto il basto. Uscito dal collegio a diciott’anni luogotenente del Genio, non sostenne lungo tempo la disciplina del silenzio e dell’obbedienza. La vivacità sua naturale e la svegliatezza della sua mente, così adatta e lesta al sarcasmo, unita con la fierezza e la consapevole ambizione dell’animo, gli dovevano rendere durissimo l’obbedire a chi e come s’obbediva a quei tempi, così vicini a noi e che pur paiono così lontani. Di fatto, com’egli era nel trentuno a Genova, a sorvegliare alcuni lavori di fortificazione, fu sentito parlare liberamente: e per punizione spedito di guarnigione al forte di Bard. Si dimise; e parte attese all’agricoltura, parte viaggiò, cercando, oltre Alpi, a quell’ingegno che il Plana gli aveva riconosciuto ed ammirato, un alimento che l’atmosfera serrata e chiusa della sua patria gli negava. Qui, per troppa calma o per moti scomposti e compressi, la vita sociale era ferma, o sobbalzava di tratto in tratto: e quel giovine signore la calma non poteva sopportare, e ai moti non si poteva risolvere a prender parte: giacché la sua mente, assuefatta al calcolo, computava le forze dei governi che si difendevano e quelle delle Sette che assaltavano, e non trovava che ci fosse, non ch’altro, possibilità che le forze delle Sette soverchiassero quelle dei governi. Oltre che gli doveva parere che, se i governi andavano per una via pessima, le Sette camminavano per una via, se si fosse potuto, peggiore; non tenendo esse maggior conto del passato, di quello che i governi facessero dell’avvenire.

II.
Dimorò lungamente in Inghilterra, ed là, alla maniera dei nobili inglesi, s’educò a forti studi, senza chiudercisi dentro, e ricusare le distrazioni della vita ed i sollazzi del mondo; contrasse amicizie potenti, e soprattutto un affetto ed un’ammirazione, non solo per le istituzioni inglesi, ma per il concetto inglese della libertà, ch’è il vero. Giacché in Inghilterra non s’intende la libertà come in Francia, dove basta, perché si sia liberi, che il ministero deva procedere d’accordo con le maggioranze dei deputati spediti a Parigi da una maggioranza più o meno grande d’una classe più o meno larga di elettori; quantunque la mano dello Stato continui a comprimere e reggere del pari la vita dei comuni, delle province, degli individui, del commercio, dell’insegnamento. In Inghilterra invece la società stessa è libera, e lasciata padrona di sé; l’individuo, da solo o associato con altri, v’ha pienissimo il gioco delle facoltà sue, e la società è libera non solo perché il governo ha a dare ragione di sé ai deputati, ma perché l’azione sua non si surroga a quella d’ogni altra forza sociale. E questo fu poi il concetto di libertà, che il conte di Cavour portò a suo tempo al governo: quantunque sin oggi [1] le questioni, ora di finanze, ora di politica, gli abbiano preoccupato l’animo ed impedito di attuarlo in altro che nelle sue conseguenze economiche.
E questo suo amore dell’Inghilterra non fu poi una delle sue minori colpe agli occhi del partito democratico e del retrivo, nel Piemonte, quando egli, ritornato in patria, cominciò a prender parte alla vita politica e ad ascenderne uno dopo gli altri i gradini.
Egli aveva, di fatto, previsto quello che da questo suo affetto all’Inghilterra gliene sarebbe arrivato sul continente. «Da San Pietroborgo a Madrid — scrive egli stesso — in Germania come in Italia, gl’inimici del progresso e i partigiani delle convulsioni politiche considerano del pari l’Inghilterra come il più formidabile dei loro avversari. I primi l’accusano d’essere il focolare su cui tutte le rivoluzioni si scaldano, il rifugio assicurato, la cittadella, per così dire, e dei propagandisti e dei livellatori. Gli altri, pel contrario, forse con maggiore ragione, riguardano l’aristocrazia inglese come la pietra angolare dell’edificio sociale europeo, e come l’ostacolo più grande alle loro mire democratiche. Questo odio che l’Inghilterra inspira ai partiti estremi, dovrebbe renderla cara agl’intermedi, agli uomini amici del progresso moderato, dello sviluppo graduale e regolare dell’umanità; a quegli, in una parola, i quali, per principio, sono opposti del pari alle tempeste violente ed alla stagnazione della società. E pure non è. I motivi che gli porterebbero a nutrir simpatia verso l’Inghilterra, sono combattuti da una folla di pregiudizi, di memorie, di passioni, la cui forza è quasi sempre irresistibile. E non ci ha quindi che pochi uomini sparsi e solitari, i quali sentano per la nazione inglese quella stima e quell’interesse che deve inspirare uno dei più gran popoli che hanno onorato l’umano genere, una nazione che ha gagliardamente cooperato allo sviluppo morale e materiale del mondo, e la cui missione di civiltà è ben lontana dall’esser finita» [2].

III.
Né gli studi e la dimora oltre Alpi restarono senza frutto e senza dar prove di sé. Giacché il conte Cavour in quel frattempo scrisse francese in varie riviste, sopra le questioni di maggiore urgenza e rilievo, che si andavano affacciando nel campo delle scienze e dei fatti. Scrisse come uomo a cui lo scrivere non sarebbe bastato: scrisse da gentiluomo, poco e non cercando, ma accettando, le occasioni, scrisse come persona che ha non solo meditato molto, ma discorso anche molto su quello di cui scrive: come persona che sa le obbiezioni nascose e le palesi, che indovina quelle e non schiva queste. Nei suoi scritti fa prova d’una mente larga e rigorosa; d’una erudizione adeguata, ma non soverchia, indizio così della mente e della compitezza degli studi fatti sul soggetto stesso, come della deficienza degli studi letterari non potuti fare al collegio; d’una forza di ragionamento rarissimo; d’una instancabile caccia delle difficoltà del quesito e delle soluzioni possibili; d’una indipendenza di giudizio assoluta. Vi si mostra amico d’ogni progresso politico ed economico: e perciò d’ogni mezzo efficace ed adatto a promuoverlo; ma nemico del pari risoluto d’ogni mezzo violento, perché, nel suo parere, ogni mezzo violento è inefficace: in somma, vi si mostra della scuola di quegli illustri uomini di Stato inglesi, che, promovendo la libertà, allontanano le rivoluzioni, e dei quali non si può dire se più amino quelle od avversino queste. La sua dicitura è come la sua mente, netta, chiara, coerente; ma non ha vivezza né colpi, e lo stile, per il più, manca, quantunque a volte la forza del pensiero dia rilievo ed efficacia alla frase. Anzi, il conte Cavour si può, come scrittore, allegare a prova di quanto sia falsa la massima che lo stile sia l’uomo: giacché vi sono pochi scrittori in cui l’animo sia più risentito e colorito, e pure si riverberi e s’imprima meno nella parola.
I suoi scritti hanno a soggetto questioni economiche, politiche, agricole o finanziarie [3]: e rispetto alla cognizione dell’uomo e del futuro suo indirizzo politico, due sono i più notevoli: quello Sulle idee comuniste e sulla maniera di combatterle, e l’altro Sullo stato dell’Irlanda ed il suo avvenire. Nell’uno e nell’altro si riconosce quella vasta e compiuta maniera di concepire il soggetto, e di sviscerarlo, che dicevamo sua propria. In lui con lo scienziato e con lo storico si vede già unita quella propria e particolare qualità dell’uomo di Stato, che consiste nell’abbracciare d’una occhiata tutta l’arruffata matassa delle cause e degli effetti sociali, nel non estrarne e considerarne da sé una serie sola; anzi d’ogni fatto di cui si cerca le origini, riconoscere o per una divinazione difficile a ragionare, come accade alla più parte degli uomini di Stato, o per una consapevole e ragionata convinzione, come accade al Cavour, riconoscere, ripeto, in quanto e quale intreccio sia con altri fatti, e quale modificazione nasca in ciascheduno degli elementi sociali da questa sua complicata coesistenza cogli altri. Così, dove parla delle idee comuniste, non schiva di mostrare quanto arduo sia il contrasto, che si deve sciogliere per confutarle a fil di logica, tra due diritti, i quali paiono inconcussi del pari, quello della vita, e l’altro di proprietà. Egli prova come questo contrasto non sia tra due diritti assoluti, i quali non si potrebbero contraddire, ma bensì tra due dritti relativi, e dei quali ciascheduno non ha valore che in un certo giro. Crede che, ove la scienza s’imprimesse bene di questa dottrina, essa sarebbe il miglior antidoto del comunismo; giacché gli toglierebbe ogni forza, perché ammetterebbe la limitazione del diritto che i comunisti negano, e perché mostrerebbe d’accettare il diritto che i comunisti contrappongono. E fida che dalla scienza la persuasione passerebbe negli animi del volgo; giacché non gli par da mettere in dubbio e conferma con i fatti l’utile efficacia delle idee scientifiche nella trasformazione dei sentimenti volgari. Ma aggiunge, che questa trasformazione non si opererebbe, se i ricchi non l’aiutassero con la beneficenza verso i poveri. «A ciascheduno dunque, conclude, l’opera sua. Il filosofo e l’economista nel chiuso del loro studio confuteranno gli errori del comunismo; ma l’opera loro non sarà feconda, se non in quanto gli uomini onesti praticando il gran principio della benevolenza universale, agiranno sui cuori, mentre la scienza agisce sugli intelletti».
Il Cavour, tutto pratico oggi e tutto intento agli affari, forse ora sorriderebbe se gli si ricordasse che, in questo scritto, fa all’Inghilterra un appunto che non si crederebbe sia potuto mai uscire dalle sue labbra. Dopo esposte le teoriche del Malthus sulla popolazione, che egli accetta, e le conclusioni severe e crudeli che il Malthus ne trae, e ch’egli in parte rigetta, aggiunge, per spiegare come questi errori si fossero potuti insinuare nella mente del grande economista inglese, che «il Malthus — bisogna pur convenirne — aveva dovuto renderlo affatto nuovo alle speculazioni di alta filosofia, necessarie alla soluzione del problema morale implicito nella questione. Dal Locke e dal Clarke in poi, l’alta metafisica è stata, sino ai nostri giorni, molto trascurata in Inghilterra, e il genio britannico sembra non avere concessa la sua attenzione e la sua stima che ai principi filosofici suscettibili d’una applicazione immediata e pratica. Se da ultimo alcuni indizi sembrano palesare, a questo riguardo, un leggiero miglioramento, non si può contestare che le alte verità speculative non fossero ai tempi del Malthus molto trasandate nella sua patria. Il grande economista non si è dunque accorto punto dell’antinomia contro la quale il suo soggetto lo gettava; non che cercarne la soluzione, non ha sospettato che esistesse» [4].
Nello scritto Sulla condizione dell’Irlanda e sul suo avvenire, il Cavour ha un soggetto più conforme all’indole dell’ingegno suo. Fu letto con molto applauso in Inghilterra, e, certo, io credo che pochi scritti meritino meglio l’approvazione di uomini pratici ed imparziali. Senza sconoscere le grandi piaghe dell’Irlanda, senza negare tutti gli antichi torti dell’Inghilterra, non manca di indicare con quanta lealtà i ministeri inglesi si fossero applicati da alcun tempo in qua a medicare quelle e riparare questi. Ammira e loda O’Connell del nuovo indirizzo dato da lui al partito nazionale irlandese, sviandolo dalle insurrezioni sterili d’effetti buoni, e solo feconde di nuovi danni e di sangue, per avviarlo sulla via regia della resistenza legale e del progresso determinato. Ma questa ammirazione non gli vela la vista, e mostra come l’O’Connell, in quell’agitazione allora iniziata, e che era l’occasione prossima dello scritto del Cavour, in quell’ultima agitazione rimasta senza riuscita, che aveva a scopo la revocazione dell’editto d’unione dei due Parlamenti promosso dal Pitt nei principi del secolo, O’Connell fosse dissimile da sé medesimo e corrompesse il bene già fatto alla sua patria. Le ragioni che il Cavour dà della nessuna utilità di quella rivocazione, anzi del danno che ne sarebbe risultato all’Irlanda stessa, provano una cognizione accurata e pratica delle intenzioni e dei maneggi dei partiti: come non mostra minore acutezza nel discernere quanto ci fosse di posticcio e di vero, di ipocrita e di sentito nel gridio universale contro la tirannide inglese; e quanta ignoranza del mirabile edifizio dell’inglese costituzione si manifestasse nei giudizi contraddittori che si portavano presso di noi, sulle forze reciproche dell’Inghilterra e dell’Irlanda, e sugli effetti di quella lotta, ogni di cui fase pareva ai politici nostri una ruina compiuta, evidente ed irreparabile ora dell’una parte, ora dell’altra. E finisce coll’indicare i veri mezzi che il governo inglese avrebbe potuto adoperare; e sono quelli, di fatto, che ha poi applicato e va di mano in mano applicando alla cura di quell’ammalata: la maggiore diffusione dell’istruzione popolare, lo sviluppo del commercio e dell’industria, i lavori pubblici promossi, il sistema inglese della beneficenza legale maggiormente esteso, le leggi sulla proprietà territoriale riformate; e mostra come a procurare ciascheduno di cotesti fini l’unione dei due paesi dovesse avere maggiore efficacia della loro disunione.
È troppo osservabile in questo scritto il ritratto che il Cavour disegna dell’illustre Pitt, perché non ci paia bene di metterlo avanti agli occhi dei nostri lettori. Parecchi sarebbero tentati di credere che molti tratti della fisonomia dello statista inglese convengano a meraviglia a quella dell’italiano. Di fatto, scrive così: «Corre, in genere, un giudizio molto falso su questo illustre uomo di Stato. Si commette un errore gravissimo rappresentandoselo come il partigiano di tutti gli abusi, di tutte le oppressioni a modo d’un lord Eldon, o d’un Principe di Polignac. Ben altro; il Pitt aveva i lumi del suo tempo: il figlio di lord Chatam non era l’amico del despotismo, né il campione dell’intolleranza religiosa. Spirito potente e vasto, amava il potere come un mezzo, non come un fine. S’introdusse nella vita politica col fare la guerra all’amministrazione retriva di lord North, ed appena ministro, uno dei suoi primi atti fu di proclamare la necessità di una riforma parlamentare. Certo, il Pitt non aveva una di quelle anime ardenti che si appassionano per i grandi interessi dell’umanità, che non guardano, quando li vedano pericolare, né agli ostacoli che loro si frappongono, né ai danni che il loro zelo può casuare. Non era uno di quegli uomini che vogliono riedificare la società da capo a fondo coll’aiuto di concetti generali e di teoriche umanitarie. Ingegno profondo e freddo, spoglio di pregiudizi, non era animato che dall’amore della sua carriera; vide le parti difettose del corpo sociale, e volle correggerle. Se avesse continuato a esercitare il potere in un periodo di pace, di tranquillità, sarebbe stato un riformatore alla maniera del Peel e del Canning, accoppiando l’ arditezza e l’ ampiezza delle viste dell’uno con la saggezza ed abilità di quelle dell’altro. Ma quando vide spuntare sull’orizzonte l’uragano della rivoluzione francese, con la perspicacia propria delle menti che sovrastano, previde i guasti dei principi demagogici, e i pericoli che avrebbero suscitati all’Inghilterra. Si fermò a un tratto nei suoi disegni di riforma, per provvedere ai bisogni della crisi che si preparava. Comprese che dinanzi al movimento delle idee rivoluzionarie che minacciavano d’invadere l’Inghilterra, sarebbe stato imprudente di toccare l’arca santa della costituzione, e infiacchire il rispetto ch’ella inspirava alla nazione, applicandosi a ricostruire le parti lese d’un edificio sociale consacrato pure dal tempo. Dal giorno in cui la rivoluzione, soverchiando i confini del paese che l’aveva vista nascere, minacciò l’Europa, il Pitt non ebbe che un oggetto solo davanti a sé: combattere la Francia, con l’impedire alle idee ultra-democratiche di farsi strada in Inghilterra. A questo supremo interesse consacrò tutti i suoi mezzi, a questa sacrificò ogni altra considerazione politica».
La stessa tempera d’animo, la stessa risolutezza di spirito, la stessa pervicacia di proposito, la stessa audacia d’intraprendere, avrebbero — né egli stesso lo prevedeva — fatto del conte Cavour un uomo di Stato di non minor valore di Guglielmo Pitt. Ma la fortuna sua e le circostanze gli avrebbero permesso di non mettere contrasto tra i primi desideri del suo animo e l’indirizzo dovuto prender poi, tra le intenzioni di libertà e i fatti dovuti eseguire. Il conte Cavour si sarebbe trovato, invece, spinto dall’amore della libertà per la stessa via per la quale era spinto dall’amore della patria; giacché, nei tempi nei quali sarebbe venuto a reggere lo Stato, una previdenza anche minore della sua avrebbe scorto che il Piemonte si sarebbe perso da sé se non si fosse applicato a salvar l’Italia insieme con sé. E la libertà non si doveva tra noi salvare da chi l’avesse potuta opprimere, ma crearla e sostenerla contro chi voleva impedire che na...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. CAMILLO BENSO DI CAVOUR
  3. Indice
  4. Intro
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. Ringraziamenti