Tra eredità e tempo presente
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Antropologia e oltre

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Antropologia e oltre

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Ernesto De Martino è l’antropologo che ha portato sulla scena la magia del Sud o il Sud che recita la sua magia o che recita con la sua magia. Potrebbe essere questo il filo conduttore del discorso. Quando De Martino, napoletano di formazione, è giunto nelle terre lucane e del Salento, scavando nella cultura popolare e contadina in cui il senso del lamento era espressione di un popolo e di una civiltà, si è reso conto come questa territorialità avesse matrici e origini molto antiche.
Qui il neolitico ha costruito la sua civiltà. Una civiltà in cui l’intreccio tra identità e memoria resta una prospettiva e una profezia nello scavo dei radicamenti popolari.
La cultura matriarcale ha rappresentato un punto di riferimento, non solo sul piano archeologico, ma anche su quello antropologico. L’antropologia non nasce con Ernesto De Martino. Non si era ancora coniato il termine, ma già esisteva. L’archeologia aveva senso soltanto se leggeva gli strumenti che rintracciava nelle tombe e oltre, mediante una interpretazione che andava “oltre” l’archeologia stessa. Una lettura che portava a comprendere il sistema delle civiltà, la struttura dei popoli, “lo stare insieme” delle genti. Antropos è lo stare insieme delle genti e delle civiltà. Proprio per questo motivo De Martino, ponendo l’attenzione sui fenomeni colti nel Sud tra territorio e uomini, tra territorio e civiltà, è andato oltre il tempo della sua ricerca e ha fatto sì che quei popoli raccontassero le sfumature delle leggende.
Siamo fatti di tempo e viviamo nello spazio.
Siamo fatti di civiltà e viviamo nei luoghi.
Siamo fatti di dubbio, ma cerchiamo il senso della certezza.
Un percorso in cui l’antropologia non è rivelazione, ma proposta di una vera e propria comprensione. Ernesto De Martino ha cercato di fornirci gli elementi per comprendere un Sud di certo “magico”, ma anche meticciato di parole, pensieri e coscienze. Un Sud scavato nel Mediterraneo.
Pierfranco Bruni è nato in Calabria. Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all'Estero, è presidente del Centro Studi “Grisi”.
Ha pubblicato libri di poesia (tra i quali "Via Carmelitani", "Viaggioisola", “Per non amarti più", "Fuoco di lune", "Canto di Requiem"), racconti e romanzi (tra i quali vanno ricordati "L'ultima notte di un magistrato", "Paese del vento", "L’ultima primavera", “E dopo vennero i sogni", "Quando fioriscono i rovi"). Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D'Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro. Numerosi sono i suoi testi sulla letteratura italiana ed europea del Novecento.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e si considera profondamente mediterraneo. Ha scritto, tra l'altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo", giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9788835380047
Categoria
Antropologia

Morte e pianto rituale. Un caso di “resistenza” culturale

Alessandro D’Amato

Ernesto de Martino (1908-1965) è stato sicuramente uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento. La formazione del pensiero dello studioso fu caratterizzata da un’iniziale e prolungata riflessione teorica che condusse, tra le altre cose, alla pubblicazione di Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941) e de Il mondo magico (1948). In particolare, quest’ultimo volume si dipana attorno a un concetto centrale, qual è quello della “crisi della presenza”, che influenzerà chiaramente anche gli scritti della fase successiva, durante la quale de Martino condurrà una serie di campagne di ricerca etnografica nelle cosiddette « Indie di quaggiù », vale a dire le regioni del meridione italiano.
Ma procediamo con ordine.
Come accennato, nel 1948 de Martino pubblica Il mondo magico, a parere di chi scrive l’opera più ragionata e suggestiva dello studioso di origini napoletane. Il nucleo fondante della riflessione demartiniana è rappresentato dal concetto di “crisi della presenza”, vale a dire quel rischio di dissoluzione dell’equilibrio esistenziale a cui si è legati e che, culturalmente, può trovare un orizzonte di risoluzione in un insieme di tecniche volte a riscattare l’uomo dalla crisi, per riaffermare il proprio “esserci nel mondo”. L’equilibrio esistenziale può essere messo a rischio, naturalmente, dalla perdita di un proprio familiare ma anche, secondo la disamina di de Martino, dalla “perdita di vista” di alcuni punti di riferimento in grado di tranquillizzare, di restituire la «domesticità del mondo». In tal senso, l’esempio più eloquente proposto dallo studioso fu quello del “campanile di Marcellinara”, che approfondì nel suo capolavoro postumo, La fine del mondo: qui è descritto lo stato di «angoscia territoriale» che colpì un anziano pastore calabrese quando, guardando dal finestrino dell’automobile mentre si allontanava per la prima volta nella sua vita dalla propria cittadina, non vide più il rassicurante e familiare campanile di Marcellinara, «suo estremamente circoscritto spazio domestico» (de Martino 2002: 481) [1] .
Nel corso degli anni cinquanta, nell’intimo convincimento che si potesse effettuare ricerca etnografica anche nelle aree rurali della nostra penisola senza doversi necessariamente recare in qualche lontano luogo esotico, de Martino soggiornò, in più ‘puntate’, in Lucania e nel basso Salento, le già citate « Indie di quaggiù». Ed è in virtù di tali esperienze di ricerca sul campo che lo studioso pubblicò i tre volumi, riassunti dalla storiografia etnoantropologica sotto l’etichetta di “trilogia meridionalistica” che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbero dovuto contribuire all’elaborazione di una ragionata «storia religiosa del Sud». Si trattava di Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958), cui sarà dedicata l’attenzione di questo breve contributo [2], di Sud e magia (1959) e del suo libro più celebre, La terra del rimorso (1961), opera dedicata allo studio del fenomeno del tarantismo. In particolare, per il futuro lavoro dedicato alle lamentazioni funebri, de Martino tornò più volte in Lucania, nel periodo compreso tra il 1952 e il 1956 [3].
Nel 1952 effettuò la sua prima spedizione, con al seguito un’équipe multidisciplinare composta dall’etnomusicologo Diego Carpitella, al quale si devono le registrazioni audio, dal fotografo Franco Pinna, i cui scatti documentarono personaggi e luoghi della campagna etnografica, e da Vittoria de Palma, assistente sociale e sua compagna di vita, il cui ruolo risultò determinante nel delicatissimo compito di superare la diffidenza delle donne avvicinate nel corso della ricerca [4].
La spedizione del 1952 fu effettuata a Tricarico allo scopo di compiere una rilevazione dei canti dei braccianti agricoli lucani: all’epoca, infatti, l’oggetto di studio della ricerca demartiniana risultava essere ancora in fieri e, quasi casualmente, allo studioso capitò di imbattersi nel fenomeno culturale delle lamentazioni funebri, come parte di una più ampia struttura rituale concernente le manifestazioni del cordoglio. Durante questa prima campagna etnografica, de Martino si trovò di fronte a forme eterogenee dell’oralità contadina, comprendenti canti di lavoro e d’amore (dei braccianti agricoli), le già citate lamentazioni funebri, oltre a numerosissime testimonianze relative alla magia popolare e alla farmacopea tradizionale che saranno poi riutilizzate nella stesura di Sud e magia, pubblicato nel 1959. Tuttavia, ciò che sin da subito lo colpì maggiormente fu il tema culturale delle lamentazioni funebri, attorno al quale decise di concentrare la propria attenzione nel corso dei due anni successivi, quando ebbe modo di recarsi a Grottole, Pisticci, Ferrandina, Colobraro, Rotondella, Stigliano, Valsinni…
In questa circostanza l’etnologo iniziò a prefigurare l’esistenza di un rapporto tra mito e rito, collegato alle crisi del cordoglio per la perdita di un proprio caro. Da un lato, infatti, il mito sulla morte, con la relativa angoscia per il “rischio” della dissoluzione assoluta o per il «ritorno irrelativo del morto» sottoforma di rappresentazione ossessiva o di dolorosa immagine allucinatoria (ma anche, nel folklore europeo, del riemergere dall’oltretomba delle anime dei defunti) e il timore che tutto ciò possa determinare uno scompenso di quella «domesticità» in grado di rassicurare. Dall’altro lato, i rituali del cordoglio, culturalmente definiti, complessi e sedimentati, mediante i quali tale rischio viene fronteggiato, con l’obiettivo di restituire un orizzonte risolutivo.
L’oggetto di studio prenderà corpo e forma grazie all’ultimo periodo di permanenza in Lucania, tra il 31 luglio e il 27 agosto 1956, organizzato a seguito di un progetto di ricerca finanziato dal Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare dell’Accademia di Santa Cecilia, che in quel periodo promosse una campagna di raccolta di canti popolari in tutte le regioni d’Italia, affidando l’area lucana proprio a de Martino e Carpitella [5]. L’esito definitivo fu rappresentato dalla pubblicazione, nel 1958, della monografia Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, [6] che entrò a far parte della celebre “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, meglio nota come Collana Viola, nata in seno alla casa editrice Einaudi e soltanto da pochi mesi confluita tra le edizioni della Bollati Boringhieri [7].
Man mano che Morte e pianto rituale prendeva corpo, de Martino andava progressivamente costruendo una più complessa teoria del rito connessa al cordoglio in quanto pratica simbolica. Del resto, notava lo studioso, le lamentazioni non erano altro che una porzione di un più ampio complesso rituale funebre ricomprendente, tra le altre cose, la veglia, il corteo e il banchetto.
Quella sul lamento funebre rituale rappresentò la ricerca etnografica più duratura (e anche più corposa) compiuta da de Martino, nel corso della quale fu raccolta una mole considerevole di dati e che lo condusse alla pubblicazione di un libro di grande fascino, anche se in alcune parti ostico, comprendente al proprio interno una meditata analisi delle risultanze etnografiche oltre a una ricostruzione storiografica puntuale e completa.
Paradossalmente, nonostante il tema del pianto funebre non fosse una novità assoluta nell’ambito della ricerca demoetnoantropologica italiana, essendosene già occupati, seppur in modo contestualmente limitato (in rapporto alla lezione demartiniana), sia Saverio La Sorsa, negli anni trenta, che Alberto M. Cirese, nei primissimi anni cinquanta, il volume non ebbe un immediato riscontro da parte della critica accademica. O, meglio, quando Morte e pianto rituale vide la luce, la critica disciplinare non fu in grado di percepire né la portata della ricerca etnografica ivi contenuta né la solidità e la profondità dell’apparato teorico e storiografico in esso presente. Al contrario di quanto accadde nell’ambito della critica letteraria, dove l’opera venne immediatamente compresa e valorizzata, tanto da indurre la giuria del prestigiosissimo Premio Viareggio, istituito sin dal 1929, a conferirgli il relativo riconoscimento per la sezione saggistica. All’epoca, si trattava probabilmente del più importante premio letterario organizzato in Italia, spesso capace di cogliere l’importanza e il valore di autori e opere in anticipo rispetto ad altri. Solo per citare un caso, in quello stesso anno 1958 in cui de Martino risultò vincitore, per la sezione poesia fu premiato Salvatore Quasimodo, con la raccolta La terra impareggiabile: solo un anno dopo, il poeta modicano avrebbe ricevuto dall’Accademia di Stoccolma il Premio Nobel per la Letteratura [8].
Morte e pianto rituale fu un testo completo, la cui complessità è senza dubbio l’esito della capacità del suo autore di fondere in un’unica anima le varie tradizioni di studio e di ricerca che ne influenzarono il pensiero. Dal pensiero marxista alla psicanalisi freudiana, dalla filosofia esistenzialista allo storicismo crociano, fino alla critica storica e letteraria, lo scorrere delle pagine del libro consente di cogliere in tutta la sua essenza la capacità dello studioso di destreggiarsi e saper amalgamare le relative influenze, dopo un travagliato percorso di riflessione, durato un decennio: dalla pubblicazione de Il mondo magico sino a quella del volume sui rituali del cordoglio.
D’altronde, l’influenza determinata dal concetto-chiave attorno al quale si dipana Il mondo magico costituirà una costante sempre presente all’interno dei libri della cosiddetta “trilogia meridionalistica”. Il concetto di “crisi della presenza”, applicato da de Martino a quel mondo dominato dall’irrazionalità della magia che, tuttavia, l’etnologo non aveva, fino alla pubblicazione de Il mondo magico, osservato nelle sue espressioni vive e vitali del meridione italiano. Con le campagne etnografiche in Lucania (così come con la successiva, nel Salento, propedeutica alla pubblicazione de La terra del rimorso), invece, egli ebbe modo di ottenere conferma di come operasse concretamente l’orizzonte simbolico di risoluzione della crisi, determinata da particolari circostanze. In particolare, nel caso di Morte e pianto rituale, il lamento funebre garantisce alla piccola comunità coinvolta nell’evento luttuoso il superamento di quello stato che, con grande efficacia didascalica, Ernesto de Martino definì di «ebetudine stuporosa» (condizione che tende ad alternarsi a momenti di «scarica convulsiva»), consentendo una reintegrazione culturale – l’«addomesticamento», il «superamento» – di quella situazione di crisi della presenza determinata dalla condizione di crisi del cordoglio.
Come già anticipato, il pianto rituale costituisce soltanto una parte di un più esteso e prolungato insieme di rituali del cordoglio, che trovano espressione anche nel lamento funebre, costituito a sua volta dal procedere reiterato di un complesso di «stereotipie mimiche», comprendenti modelli di comportamento in grado di simboleggiare l’annientamento totale della parte materiale di una persona, «terrificante esplosione parossistica, tendenzialmente autoaggressiva» (p. 78): dall’incidersi le carni fino a farle sanguinare, al graffiarsi le gote o gli avambracci, dal percuotersi il volto o le gambe, fino a tirarsi i capelli o stracciarsi gli abiti, in un tentativo di «trascendimento della situazione luttuosa» mediante la messa in atto di gesti estremi. L’insieme di tali gesti rituali era inoltre integrata dalla messa in atto di altre azioni, ben testimoniate, tra l’altro, dall’appendice fotografica annessa al testo, nella quale sono riportate alcune illustrazioni tratte da tombe egizie. Grazie a queste testimonianze storiche, rinvenute, tra gli altri luoghi, nelle tombe delle necropoli di Saqqarah, Tebe e Guizah, de Martino mise in evidenza la continuità di una mimica gestuale che egli stesso rilevò nel corso della propria campagna di ricerca lucana: dal movimento alternato e sincopato di braccia e mani al chinarsi ripetutamente [9], ogni gesto dava conferma di quella condizione di alienazione, straniamento e prostrazione determinata dalla crisi del cordoglio.
Oltre all’apparato mimico-gestuale, nei momenti di crisi del cordoglio il rituale lucano colto da de Martino prevedeva anche la rappresentazione di moduli coreutici che, ancora una volta, erano messi in atto in base a ben precisi e storicamente sedimentati schematismi, così come precisato dall’etnologo a pagina 85: «l’ordine di tali moduli potrà mutare nei singoli casi, ma se si chiede di ripetere un lamento di figlia a padre ogni lamentatrice farà ricorso agli stessi moduli, che essa considera ciò che “si dice” o “si deve dire” in una circostanza luttuosa del genere» [10]. Un’ulteriore prova, dunque, del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tra eredità e tempo presente
  3. Indice
  4. Introduzione di Pierfranco Bruni
  5. Un Sud scavato nel Mediterraneo
  6. La cultura popolare come filosofia della memoria tra civiltà e popoli
  7. Un vissuto di civiltà
  8. Il sistema immateriale dei beni culturali tra identità contaminazioni
  9. Grazia Deledda “antropologa” dei berbos
  10. Morte e pianto rituale. Un caso di “resistenza” culturale
  11. Etnolinguistica e ricerca dialettologica
  12. Appendice
  13. Un antropologo poeta Luigi Maria Lombardi Satriani
  14. Una antropologia della fede