Spiriti Estensi
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I rari e preziosi saggi qua riportati, tutti dedicati ad aspetti artistici, storici e culturali della città estense, sono nell'ordine: Ferrara: lo spleen e l'arte (di Vittorio Sgarbi), Lo sguardo di Farinata. La sfida di scrivere a Ferrara dopo Bassani (di Roberto Pazzi), Francesco Viviani, ferrarese di Verona (di Giuseppe Inzerillo) ed Ebrei a Ferrara (di Luciano Caro).

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788835375203
Argomento
Art

FERRARA: LO SPLEEN E L’ARTE

Vittorio Sgarbi

Ferrara assente
La mia idea di Ferrara è quella di un luogo di estrema infelicità che ha la sua rappresentazione e la sua ragione soprattutto nella nebbia; grazie a essa a Ferrara le stagioni hanno ancora un volto e il passaggio dell’una nell’altra è perfettamente avvertibile. Così avviene che, corrispondendo a richiami interiori della memoria infantile e alle categorie precostituite nella nostra mente, Ferrara è sempre la stessa, come una stabile metafora dell’ordine della natura. Qualunque cosa accada altrove, qualunque novità trasformi il mondo, siamo sicuri che, tornando a Ferrara, tutto sarà come prima; che lì le persone fanno le stesse cose, che nelle case il ritmo della vita è inalterato. Ma non si tratta della solita condizione della provincia, come potrebbe essere per Brescia, per Macerata o per Forlì: si tratta propriamente di una condizione metafisica.
La prova è questa: se passate a Ferrara in una qualunque ora del giorno, in qualunque mese dell’anno, con qualunque tempo, troverete come per un appuntamento fissato, infallibilmente ma senza che nessuno lo abbia stabilito, le stesse persone, negli stessi luoghi. Stanno lì inamovibili, come entità incomparabili, libere da ogni esigenza fisica e psicologica. Stanno. Ogni generazione fornisce il suo obolo di immoti in alcuni angoli predisposti, sulla soglia di alcuni caffè della città. Sono i simboli dell’infelicità della permanenza, o dell’infinito appagamento dell’assenza, non meno delle strade vuote e dei gatti turchini che incantarono il presidente de Brosses.
Ho detto questo subito perché è la sensazione che ho provato, e provo, ogni volta che, invece che nella mia casa di campagna, passo qualche ora in città, a Ferrara; seguendo i ritmi della vita quotidiana attraverso i miei amici. Delle due l’una: o trascino loro nel vortice gratuito e inarrestabile di Ro o mi adagio, io, nei ritmi molli della città ovattata nella nebbia e nell’afa. L’infelicità esalta la bellezza dei monumenti, degli affreschi, i dati assoluti: le sculture del Maestro dei Mesi, gli affreschi di Schifanoia o le atmosfere del monastero di Sant’Antonio in Polesine.
Tutto quanto si alza, e appare come una visione, sorge da una città morta; non nel senso di una città dei morti, mito simbolista, ma nel senso che attribuiamo ai grandi comprensori archeologici: come Pompei o Delfi, città che vivono soltanto per ciò che sono state. C’è un mito di Ferrara che può apparire inspiegabile a chi la visiti distrattamente, ma che cattura immediatamente chi si disponga con «intelletto d’amore», come avrebbe detto Dante la cui madre era di famiglia ferrarese. Ferrara è una città piatta. L’unico limite delle sue campagne è segnato dagli argini del grande fiume che le scorre accanto con calma forza. Dalla sua piattezza, per contrasto, si innalzano emergenze, che solo potremo chiamare metafisiche se appartengono all’intelligenza, alla sensibilità e alla fantasia dell’uomo.
La corte degli Estensi in pochi anni riunì a Ferrara i vertici della poesia, della pittura e dell’architettura. Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento nessuna città d’Italia può competere col primato di Ferrara, che celebra il trionfo della fantasia con la poesia cavalleresca dell’Orlando furioso; con le sfrenate invenzioni, al limite della follia, negli affreschi per Schifanoia di Francesco del Cossa e di Ercole de’ Roberti che, insieme a Cosmè Tura e ad Antonio da Crevalcore, trasfigurarono l’insegnamento di Piero della Francesca, di Pisanello e di Roger Van der Weyden, attivi alla corte di Ferrara. La stessa immagine della città si rinnova con l’urbanista Biagio Rossetti. Per quella che, dal nome del duca di Ferrara, Ercole, viene chiamata Addizione Erculea, Biagio Rossetti raddoppia la città alla fine del Quattrocento, aggiungendo al nucleo medioevale una zona spaziosa e ben ordinata, percorsa da strade lunghe e ampie e collegata alla precedente attraverso l’interramento di un canale. Grazie a questa impresa Ferrara fu giudicata dal grande storico della civiltà del Rinascimento, Jacob Burckhardt, la prima città moderna d’Europa.
I primati di Ferrara continuano anche nel corso del Cinquecento, con i grandi poeti, pittori e musicisti, come Torquato Tasso, Dosso Dossi, l’Ortolano, il Bastianino, Gerolamo Frescobaldi. I colti viaggiatori cedono al suo incanto: Montaigne non può dimenticare il profumo dei suoi giardini.
Il sipario su Ferrara cala, emblematicamente, fin da quando il suo ultimo pittore, il Bastianino, circonfonde e gonfia di nebbia le sue sparute immagini derivate da Michelangelo, dichiarandosi piuttosto un Munch che un Blake del manierismo italiano, per rettificare una celebre illuminazione critica di Roberto Longhi.
Ma è per il sentimento della fine, più che per mille altre cose, e forse perché ci sono nato, che amo Ferrara e la evito, e quando vi ritorno sento l’irresistibile attrazione a diventare uno degli immobili, come se quella e nessun’altra fosse la condizione per viverci.
Devo scappare per non essere travolto dalla pigrizia, da quella suprema indifferenza che De Chirico attribuì alle sue bianche statue nelle piazze deserte, e che Montale definì infallibilmente: «Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina indifferenza: / era la statua della sonnolenza / nel meriggio, e la nuvola, e il falco levato».
Questa definizione del bene come rinuncia chiude la poesia iniziata con il verso: «Spesso il male di vivere ho incontrato». A Ferrara come non altrove il male di vivere si trova allo stato puro, non per conseguenza di traumi o lacerazioni storiche o sociali, ma come spleen, e di specie particolarissima. Uno spleen di assenza. In pittura lo ha colto benissimo un americano, James Rosen, che ha proposto rarefatte variazioni su alcuni dipinti conservati nel monastero di Sant’Antonio in Polesine. Negli studi di Rosen appaiono immagini dai contorni malcerti, dietro un velo, figure monocrome appena percettibili, fantasmi. È un’intuizione felicissima, che fa coincidere l’effetto atmosferico della nebbia con il velo del tempo. Esserci ed essere lontani: questo è lo stato e la vertigine negativa di Ferrara, cui nessuna forza può opporsi.
È inutile cercare rifugio. La salvezza è dietro ogni portone, dove la vita è ferma, dentro le case: basta sostare, presi da incantamento nel cortile semplice e solenne, vero hortus conclusus, del Palazzo da Varano, in via Montebello. Lì finisce il mondo.

Nicholaus a Ferrara
Per quattordici anni la facciata nobilissima di una delle cattedrali più belle d’Italia, una facciata culminante con tre timpani di eguali forme e dimensioni che l’assimilano più a un palazzo civile che a un edificio religioso, apparve deturpata, impedita, occultata nella sua parte centrale da un’altissima impalcatura prima precaria, poi, col passare del tempo sempre più stabile e assestata, come una capanna di legno, disposta per il restauro del protiro. Un periodo così lungo fece disperare anche i più ottimisti, tanto che si arrivò a pensare che, a evitare la distruzione delle sculture, fosse indispensabile una protezione permanente. Immaginiamo come avrebbe sofferto (e reagito) Ludovico Ariosto in una situazione analoga, lui cui si devono questi versi di invincibile amore e malinconia: «S’io non fossi d’ogni cinque o sei / mesi stato uno a passeggiar fra il duomo / e le due statue dei marchesi miei / da sì noiosa lontananza domo/ già sarei morto» 1. Versi che poteva dettare soltanto uno spirito profondamente radicato alle pietre e ai giorni lenti della città padana, luogo di sogni al quale sempre tornare col pensiero e col cuore.
Eppure quei quattordici anni sono stati determinanti non solo per la Cattedrale, ma per la metodologia stessa degli interventi di restauro. Le operazioni vere e proprie sono infatti durate un tempo naturalmente più breve; ma quando Cesare Gnudi e i suoi collaboratori della Soprintendenza 2 decisero questo restauro, già molto avanzata era la consunzione della pietra, e il primo obiettivo fu quello di frenare il processo di degrado, isolando le sculture con sistemi protettivi, di tamponamento, in attesa di individuare gli strumenti più idonei all’intervento. Se così il restauro vero e proprio è durato non più di cinque anni, l’arresto temporaneo del progressivo deterioramento della pietra ha guadagnato dieci anni alle sculture, preservandole dagli irreparabili danni che sarebbero certamente intervenuti nel frattempo. Un’attesa per la scienza, esemplare anche per altre analoghe situazioni. Ora finalmente se ne ammirano i risultati: Ottorino Nonfarmale e la sua scuola, hanno condotto a termine la pulitura e il consolidamento dimostrando l’utilità degli studi e delle ricerche preliminari: infatti la grande scoperta cui, con occhi increduli, siamo chiamati ad assistere è che portale e protiro della Cattedrale di Ferrara erano, e in parte ancora sono, vividi di colori. Dei grandi complessi romanici padani, quello di Ferrara è l’unico di cui sia sopravvissuta una parte notevole della policromia originale. Ancora ricordo il gioioso stupore di Nonfarmale che, rimossa la protezione di granulato di polistirene espanso, la materia più vile che si possa immaginare, veniva ricuperando, sotto gli strati di polvere e di smog, gli azzurri preziosi e gli ori, i rossi e i verdi: questa volta il nuovo rallentamento che si prospettava non era più uno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. SPIRITI ESTENSI
  3. Indice
  4. Intro
  5. SPIRITI ESTENSI
  6. FERRARA: LO SPLEEN E L’ARTE
  7. LO SGUARDO DI FARINATA. LA SFIDA DI SCRIVERE A FERRARA DOPO BASSANI
  8. FRANCESCO VIVIANI, FERRARESE DI VERONA
  9. EBREI A FERRARA