Scriveva Carlo Bo riferendosi alla poesia di Federico Garcìa Lorca: “Lorca lascia sempre l’impressione al suo lettore di essere sconvolto dal soffio della poesia, spesso fino al punto da far supporre che il mondo intero altro non sia che una fabbrica di poesia, una foresta incantata di simboli in cui è sufficiente camminare per credere in un’altra realtà e intravedere il punto vero delle cose”.
Ma qual è il punto vero delle cose? Qual era quello di Lorca? Metafore che camminavano tra i rigagnoli della pioggia, tra gli spiragli della luna, nei ritagli di un vento sul mare. Una poesia mai costruita ma dilatata sul passo di una nostalgia antica che spesso si fa eco.
Il vento e il mare. L’infanzia tracciata sulle onde delle banderuole e i silenzi che restano voci nei destini. Così si ascoltano gli echi di un viaggio nel tempo indefinibile di un misterioso che è incanto e religione della parola.
La voce di Federico Garcìa Lorca (nato il 5 giugno del 1898 a Fuente Vaqueros, Granata, e morto, fucilato, il 19 agosto del 1936 a Viznar) è un tracciato indelebile all’interno della poesia contemporanea. Mi accompagna da decenni e mi lascia segni, percorsi, echi che restano sensazioni nel vissuto di una memoria poetica che si fa (ed è) vita.
In Lorca si attraversa una poetica “delle impressioni” e “dei paesaggi” perché è in queste voci che il misterioso e la fantasia sono un intreccio e diventano incisioni nel quotidiano.
Il poeta andaluso aveva ben chiaro il concetto di poesia stessa. Infatti egli scriveva: “La poesia esiste in tutte le cose, nel brutto, nel bello, nel ripugnante; il difficile è saperla scoprire, saper svegliare i laghi profondi dell’anima. L’ammirevole per un’anima consiste nel percepire un’emozione, interpretarla in vari modi, tutti diversi e contrari, e vagare per il mondo così che, giungendo al ‘cammino solitario’, si possono verificare tutte le emozioni esistenti; la virtù, il peccato, il candore e la bruttura. Bisogna sempre interpretare estendendo la nostra anima sopra ogni cosa, scoprendo un’anima là dove non esiste, dando alle forme l’incanto dei nostri sentimenti; è necessario vedere nelle piazze solitarie le anime antiche che sono passate attraverso di esse, è imprescindibile essere uno ed essere mille per poter sentire le cose in ogni loro sfumatura”.
La meditazione si àncora più acuta quando tocca il senso e l’orizzonte della poesia stessa: “Bisogna essere religiosi e profani. Riunire il misticismo di un’austera cattedrale gotica con la meraviglia della Grecia pagana. Vedere tutto, sentire tutto. Nell’eternità riceveremo il premio per non aver avuto orizzonti. L’amore e la misericordia si trova in tutti ed il rispetto di tutti ci porterà al regno ideale” (in Impressioni e paesaggi, 1918).
Non ci sono dubbi. Ha ben contrassegnato un progetto di fare poesia attraverso un modulare linguistico che si è proposto (e tuttora lo si potrebbe leggere in questi termini) come rottura rispetto a tutta una poetica del linguaggio dei primi anni del Novecento. Soprattutto nella letteratura e nei linguaggi spagnoli, Garcìa Lorca ha costituito un modello. Un modello abbastanza diffuso anche nell’intaglio delle poetiche che hanno attraversato altri Paesi e altre generazioni.
La morte di Garcìa Lorca coincide in Italia con quella temperie letteraria (anno più anno meno, ma siamo proprio nel cuore di quel contesto) che è stata straordinariamente definita nell’Ermetismo. Ungaretti come riferimento con quel verso asciutto che giunge sino alla preghiera con gli approcci successivi.
Ci sono generazioni poetiche che hanno guardato con attenzione alla ricerca lorchiana. Soprattutto nella forma modulare del verso e anche a quel linguaggio che sembra teatralizzare le nostalgie e i sogni perduti nel radicamento di una terra che si fa viaggio-viaggiante. Penso alla generazione dei Sinisgalli, dei Bodini (Vittorio Bodini si è occupato della contemporanea poesia spagnola), Penna, Pavese ma anche a quelle successive.
La presenza della poesia di Lorca, all’interno del contesto italiano, a volte sembra una costante. Il fatto che si siano occupati della sua poesia studiosi e poeti come Vittorio Bodini, Mario Socrate e critici come Carlo Bo, Oreste Macrì e abbiano esteso il rapporto tra le metafore presenti nel contesto poetico italiano e quello andaluso, è una circostanza di eccezionale importanza.
A tal proposito è ancora Carlo Bo che lascia questo inciso: “Lorca è arrivato in Italia con le sue forze e con le sue forze ci è rimasto… a gloria di Lorca va detto che dopo tanti anni non si è ancora ‘sistemato’ mentre conserva la sua forza d’urto, il carattere di giovinezza”. Una poesia nel mondo gitano-andaluso che si è espressa con modelli profondamente mediterranei che non hanno mai smesso di confrontarsi con le visioni americane e tipicamente occidentali.
In Garcìa Lorca è dominante il lamento. Il lamento è una forma tipica della cultura popolare. Ma non è, comunque, essenziale. Lamento, Romacero, Canti Andalusi, Percorsi Gitani, Ballate. Sono la biografia di un processo poetico che diventa recita, nenia, malinconia. Come il testo postumo La ballata di Cappuccetto Rosso. Un intrecciare mistero e simbologie. Sacralità e laicità sono un incontro affascinante in Lorca. Così come è affascinante il tema del “bosco”. Il bosco come labirinto, come percorso onirico, come viaggio tra le pieghe di una nostalgia-infanzia. Ma dal bosco bisogna uscire, sia per vivere che per continuare a sognare.
La presenza dantesca (Lorca conosceva molto bene l’opera di Dante Alighieri) è una costante in questa Ballata, tanto da far dire a Piero Menarini che si avverte una “analogia” tra il bosco lorchiano e la “selva oscura” della quale parla Dante nell’avvio della Commedia. Metafora del tempo perduto, del buio che crea ombre e della nostalgia della luce.
Il tema del viaggio è abbastanza marcato. Sacralità e profano. Ma il poeta si confronta con i segni della cristianità. Segni che si ritrovano in molte sue poesie. Lorca non manca di dialogare con Dio, con Cristo, con i Santi. È un avvicinarsi alle voci della fede. E anche in questo compie un viaggio tra i passi del mistero. Un viaggio che non conosce realtà fisiche ma quei luoghi dell’anima che sono i luoghi dell’essere, del tempo e della metafora.
Piero Menarini: “Il viaggio che il poeta desidera intraprendere non si realizza infatti attraverso un luogo fisico, concreto, bensì in una dimensione interiore, nella quale i misteri da svelare appaiono ancora più profondi perché celano verità a volte crudeli”.
Il viaggio, dunque. Ma il viaggio è tratteggiato, tra le pause e le pieghe del quotidiano, dal sentiero della nostalgia.
Nostalgia e metafora.
Lorca è profondamente un nostalgico. La Spagna non è una storia. È un Mediterraneo tra le emozioni che non si lasciano soltanto ascoltare, ma anche afferrare.
Oreste Macrì ha scritto che “Il mistero, la discesa agli inferi della letizia Andalusa, si aprono direttamente dal familiare e dal cotidiano; i gitani, i toreri, si esemplarizzano quali modelli di superiore umanità; ma nulla di feticistico, di esteriormente dogmatico, nell’azione segreta delle categorie conservative e tradizionali dentro l’anima di Federico. Nei personaggi dell’epica lorchiana muoiono l’esemplarismo classico e l’aristotelico-riformista: il gitano è creatore in quanto è interprete purissimo; egli è la stessa scena inimitabile e irrepetibile della sua vita”.
Garcìa Lorca non è da collocare solamente nel Lamento per Ignacio Sànchez Mejìas (1935) o nei Canti popolari o ancora nelle Odi oppure in quel Poeta a New York (composto tra il 1929 e il 1930 ma pubblicato postumo nel 1940). Ma è tutta una dimensione del lirismo placato e del ritmo soffuso che si aggrappa alle pareti dell’anima. Certo, non si può fare a meno dell’atmosfera gitana, ma l’Andalusia è una canzone nella sua vita e nella sua morte, nello scorrere del giorno e nell’asciugare il sangue del torero ferito. Una parola, pensando al Romancero (1928), che ha una caratura marcatamente epico-lirica con delle radici antiche le cui matrici scavano nella frammentazione lirica risalente al XIV secolo.
Quasi tutto il ricercare di Garcìa Lorca è immerso in un ritmo cadenzato che rimanda alla ballata ma anche alla canzone. Il verso, già di per sé, è un battuto musicale. Musica e danza. Un viaggio di nostalgie e di immensi ricordi. Il viaggio è un entrare nei labirinti del tempo, tra gli aquiloni negli azzurri e nei crepuscoli.
Una poesia dell’immenso lirismo in un amore cantato nel quotidiano:
“Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.
Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.
T’amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!!”.
La cadenza di questa poetica vive di un costante attraversamento onirico perché la griglia simbolica dei sogni è dentro quella contestualizzazione di una poesia che supera la lezione del realismo che risulta una emblematica affermazione di supremazia delle metafore circostanziate.
In Garcìa Lorca il lamento di amore e morte (come anche la solitudine: “La solitudine vive trafitta nel fango…”, da Parla la Versine Santissima - Frammento) è una chiave di lettura di quel processo letterario che ha definito gran parte di quel Novecento poetico ancorato alle linee di un Mediterraneo inteso sul piano di un lirismo delle sensazioni e della sensibilità della parola. Pur non offrendo una immediata comunicazione, distribuisce su quella grata allegorica, sulla quale è costruito il Romancero o quello straordinario Libro de poemas (1921) o i versi de Suites, un impatto strutturale profondamente esistenziale.
Si pensi ai Madrigali. Madrigale è il titolo di una poesia risalente al 1919 che si presenta con delle definizioni fortemente liriche. Un lirismo strutturato secondo un sistema di una poesia che si offre con una impalcatura ad ascolto non tanto a lettura. E così si ascoltano delle malinconie andaluse:
“Mi allontanai dal tuo fianco
amandoti senza che tu sapessi.
Non so come sono i tuoi occhi,
le tue mani e i tuoi capelli.
Mi resta solo sulla fronte
la farfalla del bacio”.
(Gli orologi hanno lo stesso ritmo,/e le notti hanno le stesse stelle.)”.
Il tempo è un mosaico sulla tavolozza del quotidiano e i giorni sono una fantasia e danzano al cospetto delle ore che avanzano. Garcìa Lorca è un poeta del ritmo della luna e del vento. Spiegando il suo Romacero gitano, durante una lettura di poesie, è lo stesso poeta che sottolinea: “La luna in funzione di ballerina mortale e il vento di satiro. Mito della luna su terre di danza drammatica, Andalusia interna, concentrata e religiosa; mito di spiaggia tartesia, dove il vento è dolce come peluria di pesca, dove ogni dramma o danza è sostenuto da una punta intelligente di burla o ironia”.
Il mito in Garcìa Lorca è una drammatica “strategia” poetica nella quale il senso di morte diventa un orizzonte di viaggio. Quasi ancestrale.
La morte e il viaggio sono metafore ancestrali che vivono nella parola lorchiana. In quella parola ch’è la banderuola dell’anima. Nei versi della poesia dal titolo: Quasi-elegia si legge: “Non abbandonate l’anima/nel bicchiere/ della Morte”. Siamo in quell’atmosfera che sa di Inno o sa farsi Inno.
Come già si diceva, il lamento, la nenia, la canzone e la ballata sono un insistere su quel linguaggio che ha superato tutti gli stili per approdare a uno stile unitario che sembra un dettato del frammento. Nella poe-sia di Garcìa Lorca il frammento stesso è un recitativo poetico che va ascoltato, assorbito e mai affidato a una lettura senza la partecipazione della completa immedesimazione.
Una derivazione (se si vuole sottolineare l’incontro con il “frammentismo”) ellenica, mediterranea (insistendo su tale termine sulla base di una musicalità quasi etnica). Una poesia fatta di spazi, pause e di un intercalare che è una libertà (o liberalizzazione) di forme metriche ed espressive.
Bisogna starci dentro la poesia lorchiana. Non solo per capirla, ma per viverla. Un incontro che crea una comprensione di sensi. La poesia, in fondo, vive di questa trasposizione. E quella di Garcìa Lorca è una testimonianza emblematica.
Tutta la poesia di Lorca attraversa questa trasposizione. Compresa quella dei Sonetti dell’amore oscuro (1985). Qui la sua diversità (omosessualità) sembra giocare con l’estetica della parola-verso, pur in una consapevole attenzione nella misura del verso stesso. Ed è una omosessualità vissuta in modo diverso rispetto ad altra poesia (penso, per esempio, a quella di Sandro Penna, per citare un poeta italiano i cui rimandi a Garcìa Lorca sono abbastanza sensibili). Un eros, quello di Lorca, sempre pudico.
Un grecità profonda, marcata nel segno di una vita e nel verso. “E seppure il senso espresso da Lorca - sostiene Mario Socrate - può risalire direttamente e indirettamente alla tradizione umanistico-rinascimentale dell’eros tenebra e obnubilamen-to, questo non vuol dire ch’esso non acquisisca valenze più specifiche. (E, a voler risalire, non sarebbe da dimenticare neppure la lirica greca che non in un solo caso dà all’eros aggettivi consimili avviati in più direzioni di senso)”.
Il sentimento dell’amore trasposto è un intreccio di metafore nelle stagioni di esistenza dell’anima. È fondamentale, per Garcìa Lorca, dare un senso alla bellezza espressiva anche quando il tocco della propria esperienza assume contorni complessi dal punto di vista umano. Una umanità che si decodifica nel linguaggio poetico.
Si ascoltano versi di una estrema eleganza nell’incipit della poesia Il poeta dice la verità:
“Voglio dirti che la mia pena io piango
perché ad amarmi e a piangermi tu provi
su un imbrunire tardo d’usignoli
con un pugnale, e i baci, fianco a fianco”.
O negli ultimi tre versi della poesia Notte dell’amore insonne:
“E il sole entrò per la chiusa veranda
e aprì il corallo della vita
sopra il mio cuore in un sudario avvolto”.
Poesia tracciata sulla sabbia dell’amore, ma anche del dolore. Il viaggio come metafora nell’estetica delle memorie che disegnano ricordi tra il mare e il vento. Un viaggio tra metafore. O metafore tra il viaggio indefinibile dell’uomo e della parola. Una poesia dai toni pacati ma penetranti.
La sua poesia resta un riferimento in una temperie novecentesca che ha consumato e straziato stili e linguaggi, modelli di esistenza e problematiche culturali.
La poesia di Garcìa Lorca si trova nel bel mezzo di queste contestualizzazioni pur avendo vissuto, il poeta, soltanto trentotto anni. L’influenza di Lorca nella poesia italiana resta considerevole. Anzi, direi che c’è una vera e propria esperienza lorchiana che si è espressa attraverso codici che sono linguistici e a volte tematici, ma sono soprattutto processi simbolici che si sono immessi in quelle grandi metafore a partire dalle innovazioni stilistiche di natura ungarettiana. Parlerei di una vera e propria contaminazione attraverso ciò che Claudio Rendina ha chiamato “sublime intuizione” in un paesaggio di linguaggi “intensamente lirico”.
Ancora oggi Garcìa Lorca è un segno tangibile in una poesia che non è sperimentazione, ma che continua a segnare una dimensione: quella della tradizione nelle costanti innovazioni. Resta il sogno. Il sogno tanto amato dal poeta-romancero. Quel sogno che è dentro la poesia.
Sempre nello scritto del 1918 Lorca sottolineava: “Bisogna sognare. Sventurato chi non sogna, poiché non vedrà mai la luce…”. Questo grande sogno che è nella vita della poesia. Una poesia che non si dimentica in un...