Il libero scambio
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Proemio di Friedrich Engels

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Proemio di Friedrich Engels

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Karl Marx pronunciò il suo celebre (e controverso) Discorso sul libero scambio - qua preceduto da un acuto e documentatissimo Proemio di Friedrich Engels - il 9 gennaio 1848, a Bruxelles, mentre era impegnato nella stesura del Manifesto del Partito Comunista. Intervenendo nella polemica riguardante l'abolizione delle tariffe doganali sui cereali, Marx prese posizione a favore dei liberoscambisti, ben sapendo che tale libertà corrispondeva alla "libertà del capitale", che implicava l'oppressione e la schiavitù dei salariati. Tuttavia, egli era convinto che la conservazione dei dazi si sarebbe risolta in una sconfitta per la classe operaia.

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Informazioni

PROEMIO

PROEMIO [1]


Verso la fine del 1847 veniva convocato a Bruxelles un Congresso di liberoscambisti. Era una manifestazione di quella campagna per il libero scambio che si faceva allora dagli industriali inglesi. Vittoriosi in patria per la revoca della legge sui cereali nel 1846, essi passavano sul continente chiedendovi il libero accesso dei prodotti delle manifatture inglesi, in cambio del varco aperto in Inghilterra ai cereali del continente. A quel Congresso Marx si era inscritto fra gli oratori ma, come era da attendersi, le cose vennero condotte per guisa che il Congresso si chiudesse prima del suo turno. Così quel che aveva da dire, dovette esporlo invece all’Associazione democratica internazionale di Bruxelles, di cui era fra i vicepresidenti.
Essendo oggi la questione del libero scambio e del protezionismo all’ordine del giorno, si credette utile pubblicare una versione del discorso di Marx, e me ne è chiesto un proemio.
«Il sistema protezionista, dice Marx [2] , fu un mezzo artificiale per fabbricare industriali, per espropriare i lavoratori indipendenti, per capitalizzare gli strumenti nazionali di produzione e di sussistenza e per abbreviare colla forza il passaggio dalla forma medievale di produzione alla odierna». Tale fu il protezionismo al suo sorgere nel secolo XVII e tale è rimasto ben innanzi nel XIX. Esso venne elevato a regola di ogni Stato civile nell’occidente d’Europa. Sole eccezioni i piccoli Stati della Germania e la Svizzera – non perché dissentissero, ma per la impossibilità di applicare il sistema nei loro minuscoli territorî.
Fu sotto le materne ali del protezionismo che la moderna industria meccanica, a base di vapore, sorse in Inghilterra e si sviluppò durante gli ultimi trent’anni del secolo XVIII. E, quasi la protezione delle tariffe non bastasse, le guerre contro la Rivoluzione francese contribuirono ad assicurare all’Inghilterra il monopolio dei nuovi sistemi industriali. Per più di vent’anni, vascelli da guerra inglesi tennero lontano i produttori rivali dell’Inghilterra dai rispettivi mercati nelle colonie, aprendoli a forza al commercio inglese. La secessione delle colonie sud-americane dall’egemonia delle madri patrie europee, la conquista inglese di tutte le principali colonie francesi ed olandesi, l’assoggettamento progressivo dell’India, trasformarono gli abitanti di quegli immensi territori in consumatori di prodotti inglesi. L’Inghilterra così associava il protezionismo all’interno col libero scambio imposto ai consumatori dell’estero; e, grazie a questo felice connubio dei due sistemi, finite nel 1815 le guerre, essa ebbe virtualmente conquistato il monopolio del commercio mondiale per tutte le industrie più importanti.
Questo suo monopolio si estese e rafforzò nei successivi anni di pace. Il suo slancio era aumentato di anno in anno. I possibili rivali erano lasciati sempre più addietro. Ormai la sempre crescente esportazione di manifatture divenne per l’Inghilterra una vera questione di vita o di morte. Due soli ostacoli avevano di fronte: le leggi proibitive o protettive di altri paesi e le imposte gravanti la importazione delle materie gregge e dei generi alimentari in Inghilterra.
Allora divennero popolari nella patria di John Bull le dottrine libero-scambiste della economia politica classica – dei fisiocratici francesi e dei loro successori d’Inghilterra, Adamo Smith e Ricardo. Il protezionismo in paese tornava inutile a industriali che vincevano tutti i loro rivali dell’estero e la cui esistenza stessa dipendeva dall’espandersi della loro esportazione. Il protezionismo non giovava che ai produttori di generi alimentari e di materie gregge, agli interessi agricoli, ossia, data l’Inghilterra d’allora, ai percettori di rendita, all’aristocrazia fondiaria. E questa specie di protezionismo era perniciosa agli industriali. Gravando d’imposte le materie prime si aumentava il prezzo dei prodotti manufatti, imponendo i generi alimentari si elevava il Prezzo della mano d’opera; e in ambo i casi l’industriale inglese soffriva uno svantaggio di fronte al suo competitore dell’estero. E siccome tutti gli altri paesi mandavano in Inghilterra principalmente prodotti agricoli, e prendevano dall’Inghilterra prodotti industriali, abolire i dazi protettori inglesi sui cereali e sulle materie prime era nello stesso tempo un far appello agli altri paesi perché togliessero, o almeno riducessero, in compenso, i dazi d’importazione sui prodotti industriali inglesi.
Dopo una lunga e violenta lotta, i capitalisti dell’industria che erano già in Inghilterra la classe dirigente e prevalente, riuscirono vincitori. L’aristocrazia fondiaria piegò. I dazi sui cereali ed altre materie prime vennero soppressi. Il libero scambio divenne la parola d’ordine del giorno. Convertire tutti gli altri paesi al vangelo del libero scambio, e così creare un mondo nel quale l’Inghilterra fosse il gran centro manifatturiero, e gli altri paesi ne fossero dipendenze agricole: ecco il nuovo problema per gli industriali inglesi o pei loro interpreti, gli economisti.
Fu questa l’epoca del Congresso di Bruxelles e del discorso di Marx. Pur riconoscendo che il protezionismo può, in date circostanze (per esempio nella Germania del 1847), vantaggiare gli industriali, e che il libero scambio non è la panacea dei mali dei lavoratori e può anzi aggravarli; Marx si pronuncia per principio ed in conclusione in favore del libero scambio.
Per lui il libero scambio è la condizione normale della odierna produzione capitalistica. Solo con esso ha pieno sfogo l’immensa energia produttiva del vapore, dell’elettricità, delle macchine, al cui più rapido sviluppo si accompagnano, conseguenze inevitabili: lo scindersi della società in due classi, capitalisti e salariati; ricchezza ereditaria ed ereditaria povertà; l’eccesso di produzione in rapporto al bisogno dei mercati; la assidua vicenda di prosperità, sovrabbondanza, crisi, panico, depressione cronica, indi graduale ma effimero rialzarsi del commercio, per metter capo di nuovo alla crisi di sovraproduzione; in breve, l’espandersi delle forze produttive fino a ribellarsi alle catene di quegli stessi istituti sociali onde ricevettero l’impulso: unica soluzione una rivoluzione sociale, liberatrice delle forze produttive dalle pastoie di un ordine sociale antiquato, liberatrice dei produttori attuali, la grande maggioranza della popolazione, dalla schiavitù del salario. E poiché il libero scambio è l’atmosfera naturale per questa evoluzione storica, l’ambiente economico ad essa più propizio – per ciò, e soltanto per ciò, Marx si dichiarò in favore del libero scambio.
Ad ogni modo gli anni immediatamente successivi al trionfo del libero scambio in Inghilterra sembrarono cresimare le previsioni dei suoi più ottimisti fautori.
Il commercio inglese toccò cifre favolose, il monopolio dell’industria inglese sul mercato mondiale sembrò più che mai consolidato, spuntarono a centinaia ferriere e tessiture, dappertutto nuove industrie allignarono. Una seria crisi scoppiò nel 1857, ma fu superata, e il progresso dell’industria e del commercio si riaccelerò fino al nuovo panico del 1866, un panico destinato pare, a far epoca nella storia economica del mondo.
L’espansione senza esempio della industria e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL LIBERO SCAMBIO
  3. Indice
  4. Intro
  5. PROEMIO
  6. DISCORSO SUL LIBERO SCAMBIO
  7. Ringraziamenti