Il pensiero religioso nell'India prima di Budda
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«Quel che di nuovo il lettore troverà nel mio volume è la dimostrazione dell'esistenza d'un pensiero dinamico che vietò alla casta sacerdotale d'irrigidire la religione nel formalismo del culto e venne poco per volta affermandosi fino alla vittoria finale. La storia d'ogni grande religione presenta, in fondo, lo stesso fenomeno: pochi eletti che fanno squillare le trombe sulle masse tendenti ad abbandonarsi al torbido sonno dell'ignoranza. La mia indagine abbraccia il periodo che dal Rigveda si estende fino alle Upanishad, ed ha lasciato fuori i sistemi filosofici, sì perché sarebbe occorso un altro intero volume per la loro trattazione, sì perché mi premeva di segnalare le grandi correnti upanishadiche che direttamente immettono nel Buddismo». (Carlo Formichi)

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788835812449
Categoria
Religion

I BRĀHMANA E LE UPANISHAD

I Brāhma n a rappresentano esclusivamente il pensiero e gl’interessi della casta sacerdotale.
Vanno sotto il nome di Brāhma na i numerosi e poderosi trattati di esegesi, commento e illustrazione dei quattro Veda. Sono evidentemente fattura del clero il quale, traendo la sussistenza dalla quotidiana esecuzione di riti esterni, tende, magari inconsciamente, a irrigidire la religione nel culto e a sostituire al lavorio del pensiero e agli ardori del sentimento la meccanica ripetizione di cerimonie liturgiche e pratiche sacrificali. La generalità degli uomini non ama pensare e volentieri si adagia nella comoda osservanza dei precetti tradizionali. È incredibile tutto quello che di assurdo si può far credere e praticare agli uomini. Ciò si avvera soprattutto in mezzo agli Indiani. Il bisogno religioso in loro è gagliardissimo e incanalandosi tra le aride sabbie della consuetudine e del formalismo li trascina alle massime aberrazioni, così come, d’altra parte, li sospinge verso le più alte vette della speculazione e dell’etica se riesce a svincolarsi dalle pastoie del costume inveterato e della superstizione. La storia religiosa dell’India ci mostra continuamente questi due estremi: la più abietta e cieca prosternazione all’idolo, il più nobile ed illuminato slancio verso il divino.
Durante il periodo secolare dei Brāhma na l’idolo non è né questo né quel dio ma la pratica sacrificale, tanto il prete è riuscito a far credere nella efficacia straordinaria dei versi che recita e di ogni atto che compie dinanzi all’ara. In altri termini, durante il periodo dei Brāhma na il culto ammazza la religione: difatti, gli dei contano poco o nulla, in quanto che la loro potenza è subordinata a quella del sacrificio. Nei Brāhma na, osserva giustamente Hermann Jacobi [1] , «il sacrificio si differenzia da quello dei Greci, dei Romani, dei Germani ecc. Non si fa l’offerta a un dio per onorarlo, propiziarselo o ringraziarlo. Il sacrificio supera la potenza degli dei, è un atto trascendente di magia di forma estremamente complicata, nel quale tutte le manipolazioni, le sentenze e i canti hanno un profondo significato e sono messe in relazione segnatamente con le potenze cosmiche dell’universo, con le forze spirituali e fisiche dell’uomo».
A credere ai Brāhma na il meglio della vita degl’Indi trascorreva nel compiere i preti il sacrificio e nell’assistere ad esso e pagare per esso gli altri. C’erano realmente dei sacrifici della durata di parecchi anni e per i quali si profondevano tesori. Figuriamoci se a una tale fonte di lucro poteva mai rassegnarsi a rinunciare il clero, e con quale e quanta diffidenza doveva guardare gli evangelizzatori d’un nuovo verbo inteso a persuadere l’uomo che la coscienza individuale è la sola e vera sede di Dio e le buone o cattive opere sono l’esclusivo viatico e durante questa vita e nel viaggio d’oltretomba; a persuaderlo, cioè, che preti e riti sono una cosa superflua, poiché ognuno è sacerdote a sé stesso e bene operando compie il rito più accetto alla divinità!
Di un tal nuovo verbo non abbiamo che scarse documentazioni, perché quel che ci avanza della letteratura di quei tempi remoti è produzione del clero. Tuttavia, i barlumi filosofici che abbiamo sorpreso nel Rigveda e nell’Atharvaveda e la necessità di ammettere un periodo d’incubazione e di evoluzione di tutte le audaci teorie anticlericali che vedremo fiorire nelle Upanishad e nei sistemi filosofici del Sā nkhya e dello Yoga, ci consentono di ricostruire quel nuovo verbo che il clero più o meno abilmente cerca di combattere e soffocare nei Brāhma na.

Ātman e Brahman.
Nel Rigveda e anche più nello Atharvaveda è cospicua la tendenza a vedere nell’uomo riflettersi l’universo non solo fisicamente ma psichicamente. Vero è che tale ragguaglio tra l’universo e l’uomo dovette dal lato fisico partire dal primo per giungere al secondo, dal lato psichico, invece, partire dal secondo per giungere al primo. Il processo naturale dell’osservazione è, in altri termini, il seguente: prima si constata che fuori di noi c’è il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, e poi si scopre che questi quattro elementi concorrono a formare il nostro organismo, in quanto anche in noi c’è il fuoco sotto forma di calore animale, di luce visiva ecc., c’è l’aria sotto forma di respiro, flatulenze ecc., c’è l’acqua sotto forma di sangue, umori ecc., c’è la terra sotto forma di ossa, carne ecc. Ma fuori di noi non percepiamo una volontà, un pensiero, un’anima. In tanto possiamo dire che anche il cosmo vuole, pensa ed ha una anima come ciascuno di noi, in quanto, stabilita la equazione: universo = uomo dal lato fisico, siamo dalla logica irresistibilmente spinti a compiere l’equazione invertendola: uomo = universo dal lato psichico. Con la intuizione della medesimezza sostanziale dell’anima individuale con l’anima universale il centro della religione fatalmente si sposta, i valori s’invertono e l’uomo piglia il posto e dei molti dei e dell’unico Dio. Il concetto dell’ātman, in altri termini, favorisce al massimo grado, le tendenze razionaliste, fa crollare ogni pantheon, dà origine, tutt’al più, ad una divinità panteistica che non si lascia effigiare in nessun marmo e sopra nessuna tela. Si può mai concepire un credente inginocchiato ad adorare o pregare un idolo dell’ātman? L’ātman si può adorare solo col pensiero, è il dio del pensatore e del filosofo, non è accessibile né ad incensi, né a preghiere, né a mistici ardori ed aspirazioni. Data una simile divinità è naturale che per accedere ad essa è necessario uno sforzo del pensiero, una particolare sapienza, una visione etica in cui al sacrificio degli dei o a Dio si sostituisca il retto operare dell’uomo, vale a dire al karma nell’accezione di pratica liturgica si sostituisca il karma nel significato di azione in generale.
La parola ātman è stata pure pronunciata nello Atharvaveda, sebbene timidamente e a bassa voce. Anzi, la stessa reticenza con cui la si pronuncia è una prova che incarnava un’idea rivoluzionaria, pericolosa.
Come si comportò il clero contro questo pericolo? Sul suolo occidentale si sarebbero accesi roghi a sterminare gli eretici: sul suolo indiano, che è stato sempre ignaro di persecuzioni religiose e ferace di tolleranza, si seguì un metodo altamente politico e scaltro, quello, cioè, d’intorbidare le acque, fondere, a dispetto della logica, il concetto laico e razionalista dell’ātman col concetto clericale e simbolico del brahman cercando di dar la prevalenza a quest’ultimo. Un ottimo spediente contro i nemici è quello d’incorporarseli, assimilarseli.
Quanto logica, perspicua, evidente è l’idea dell’ātman, altrettanto nebulosa, oscura, inafferrabile è quella del brahman. Johannes Hertel si è industriato recentemente di dimostrare che sotto il nome di brahman si nasconda der aus indogermanischer Zeit ererbte Feuerhimmel [2]. Hermann Jacobi acutamente osserva che nello scegliere brahman a rappresentante dell’Assoluto kannte man den Namen eher als die Sache [3]. Hermann Oldenberg afferma che brahman designa la parola del Veda e insieme la sostanza e la forza magica inerente a tale parola e al brahmano che ne ha il monopolio in contrapposizione alla parola profana e all’uomo laico [4].
Indubbiamente brahman designa la scienza sacra, tutto quello in cui il brahmano ossia il prete crede, di cui è orgoglioso; designa la quintessenza clericale.
Come mai un tale concetto poteva, se non forzatamente e per ragioni di opportunità, coesistere e scambiar le parti con quello dello ātman tanto fondatamente diverso? Per mero gusto non si calpesta mai la logica: un motivo di tornaconto c’è sempre. È quindi interessante vedere come nei Brāhma na si ammette l’ātman, si ragiona a fil di logica fino a un certo punto, e poi, bruscamente, per far luogo al brahman e metterlo sopra ad ogni cosa, si affermano equivalenze assurde, si farnetica, si delira.
In Taittirīya-Brāhma na 3, 10, 8 il prete, attenendosi alla teoria razionalistica la quale vede riflessi nell’ io dell’uomo singolo tutti gli elementi e le forze della natura esterna, dice: «il fuoco è nella mia parola [5], il vento nel mio fiato, il sole nel mio occhio, la luna nel mio manas, i punti cardinali nelle mie orecchie, l’acqua nel mio seme, la terra nel mio corpo, le erbe e gli alberi nei miei peli e capelli, Indra nella mia forza, Parjanya nel mio capo, Rudra nella mia collera, l’ātman (cosmico) nel mio ātman». Un pensatore laico, come quello atharvanico che proclama il folletto dotato d’un’anima la base dell’universo, si sarebbe fermato qui nel processo d’identificazione: l’ātman (cosmico) è nel mio ātman. Invece il prete brahmanico aggiunge: «l’ātman è nel mio cuore, il cuore in me, io in ciò che è immortale, ciò che è immortale nel Brahman». Ecco come quello che è chiaro diventa oscuro, quello che è logico diventa illogico, come il brahman intrudendosi intorbida le acque e si vanta di avere sull’ātman una superiorità che razionalmente non gli si può riconoscere.
Nello Çatapatha-Brāhma na 13, 7, 1, 1, leggiamo: «il Brahman, l’autogeno, praticò l’ascesi; poi considerò: nell’ascesi non c’è davvero l’infinito; orsù, voglio sacrificare me stesso negli esseri e gli esseri in me stesso. E così fece, e con ciò ottenne il primato, l’assoluto dominio, la supremazia su tutti gli esseri».
In questo passo il brahman ha preso arbitrariamente il posto di Viçvakarman. Le due figure classiche che creano il mondo mediante il sacrificio di sé stessi sono Viçvakarman e Purusha. Se il lettore ricorda quanto venimmo esponendo a proposito degli inni rigvedici X, 81, 82; X, 90, capirà subito perché al prete brahmanico conviene eliminare le due figure della speculazione laica e ad esse sostituire il brahman, la figura della speculazione clericale.
A proposito di Viçvakarman il Deussen osserva che solo sporadicamente fa la sua comparsa nei Brāhma na ed in generale viene fuso con Prajāpati e Brahma naspati. L’osservazione è giusta e preziosa, ma la motivazione che il Deussen dà a questo fatto non mi sembra la vera: «la figura di Viçvakarman era troppo astratta, il concetto di un Fattore universale troppo si adattava ad ogni altro principio creatore perché non si fondesse con questo agevolmente, e gli inni del Rigveda X, 81, 82 erano troppo oscuri ed impopolari per consentire che su di essi si fosse potuto costruire una figura concreta» [6].
Ma erano forse più concreti Prajāpati, Brahma naspati e soprattutto il brahman? La vera ragione del relegamento nell’ombra inflitto a Viçvakarman si trova nella sua natura di concetto razionale prestantesi a sviluppi di speculazione anticlericale.
Nei Brāhma na, a volte, le concessioni che si fanno ai concetti razionalistici incarnati nel Prā na, nel Purusha e nell’Ātman sono cospicue. Anche fra i preti c’era chi meno si lasciava preoccupare dagli interessi della casta e si abbandonava al fascino della disinteressata indagine del vero. Se non che, le dette concessioni, o prima o poi, restano annullate, da qualche inopportuno intervento del brahman, di Prajāpati o di altra personificazione di concetti clericali.
Mi limiterò a citare il passo dello Çatapatha-Brāhma na 10, 3, 3, 6: «Quando l’uomo dorme, la parola rientra nel Prā na (ossia nel fiato concepito come supremo principio vitale), e occhio, manas, orecchio rientran...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL PENSIERO RELIGIOSO NELL’INDIA PRIMA DI BUDDA
  3. Indice
  4. Intro
  5. PREFAZIONE
  6. IL RIGVEDA
  7. L’ATHARVAVEDA
  8. I BRĀHMANA E LE UPANISHAD
  9. CONCLUSIONE
  10. Ringraziamenti