I giardini di Adone
eBook - ePub

I giardini di Adone

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

I giardini di Adone

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Un testo di riflessioni filosofiche su etica e metafisica, pubblicato nel 1913, all’interno del quale rivive la forma caratteristica della filosofia greca del “dialogo” di stampo socratico. Emilio Bodrero (Roma, 3 aprile 1874 – Roma, 30 novembre 1949) è stato un giornalista, docente e politico italiano.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a I giardini di Adone di Emilio Bodrero in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Filosofia e Storia e teoria della filosofia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9788835802266

VITA, FORTUNA ED OPERE DI PAOLO TANNERY.


I.

Paolo Tannery fu al nostro tempo per universale sentenza pensatore sommo, ma fu pure uomo ammirevole per la tenacia del volere e per la serenità dell’animo, poiché non passò giorno della sua vita che qualche avversità, provocata o spontanea non venisse a colpirlo, né passò giorno che egli non aprisse un libro per instruirsi. Se quanto al sapere giunse a conseguire la fama invidiabile che ora alle sue opere insigni si collega, fu in vece quanto alla fortuna l’uomo cui maggiormente abbian fallito i fati. Pure nulla lo atterrí o lo vinse, ma se bene tristissime vicende gli avevano travagliata l’esistenza, egli sino al giorno della morte guardò sorridendo di là dalle cure del mondo, sempre chiedendo la consolazione dalle sorti contrarie solamente a se stesso.
Nacque a Parigi di modesta famiglia l’anno 1844. Suo padre fu onesto insegnante del Secondo Impero, uomo buono, colto, intelligente ma come molti altri del tempo suo, meno adatto a operare che non a meditare. Sua madre fu la donna angelica che giustifica a ognuno come gli uomini abbian fatto della madre una religione. Il figliuolo fece precocemente intravedere attitudini non comuni a gli studi dell’antichità, ed in età giovanissima meravigliava amici e maestri per la dottrina dimostrata in ogni discorso, la qual nessuno riesciva a comprendere come potesse capire in mente ancor tanto infantile, né in qual modo avesse il piccolo Paolo potuto procacciarsela. In fatti, il fanciullo che solitario e lungi dai trastulli dell’età sua preferiva transcorrere i giorni, oltre che dall’amorevole disciplina dei suoi ammaestrato, si diede non a pena seppe leggere, a passar lunghe ore su i libri di casa; concepí sin d’allora grande e fervente amore per lo studio tanto che spesso convenne ai suoi distoglierlo dal troppo applicarsi che avrebbe potuto nuocergli nello sviluppo del corpo assai sano, ma bisognoso delle cure e dei rinforzi alla puerizia opportuni.
A pena di otto anni poté andare al Ginnasio e vi compí regolarmente gli studi, senza conseguir mai né gran lode dai suoi maestri né del resto biasimo alcuno. Sembrava insofferente di metodo e di consuetudini, ed impacciato nel dover seguire un programma che non egli aveva disegnato per la sua perfezione. Sino al giorno in cui fu prosciolto per l’esame di baccelliere, il che avvenne quando aveva da poco toccato l’anno sedicesimo, parve che la scuola fosse per lui sacrifizio al quale si assoggettava solo per adempire un dovere che riconosceva legittimo senza però potervi congiungere alcuna passione dell’animo o dell’intelletto. Al punto che, nell’età in cui si transformava di fanciullo in adolescente, sembrò fosse spento in lui ogni gusto per lo studio, ma fu per poco, poiché in breve si riprese e tornò alla fredda e tranquilla assiduità del suo lavoro.
Uscito dalle scuole mediane, manifestò risolutamente il desiderio d’inscriversi alla facoltà letteraria e filosofica. Gli ultimi due anni del Liceo avean rivelato all’animo suo una vivace tendenza a concezioni poetiche e ad astrazioni od esercizi di pensiero, ed una curiosità acuta per tutte le discipline delle lettere e della storia, per le quali aveva intraveduto un complesso disegno di studi. Ma nelle vacanze di quell’anno, mentre in campagna con i suoi prendeva riposo dalle durate fatiche, dovette mutar di proposito. Poiché il padre, come colui che era sfiduciato della propria fortuna né voleva avesse a divenir tale in progresso il giovane Paolo senza pensar che questi avrebbe vissuto e operato in tempi diversi dai suoi, in quel momento assai tristi per il paese, tenne al figliuolo lunghi ed amorevoli discorsi per dissuaderlo dal suo intento. Gli disse che nell’avvenire ben poco sarebbe stato riserbato all’esercizio teorico del pensiero, in quanto il nuovo spirito si sarebbe piú tosto rivolto alla pratica della vita che non alle astrazioni. Soggiungeva che il progredir su quella via era aspro, faticoso, lento, richiedendo sforzo, lotta, pazienza, e ad altro non conducendo salvo in casi rarissimi se non ad un assentimento fra pochi senza verun materiale vantaggio. Gli faceva presente sopra tutto, che volendo eleggere una professione d’inclinazione, occorreva esser ben certi della fermezza di tali disposizioni e sicuri del valore delle proprie attitudini per non prepararsi al disinganno piú doloroso di ogni altro, come quello che tocca non solo la speranza che si poteva concepire sul consenso degli altri, ma anche l’opinione che poteva aversi su l’intima virtú propria.
Piú dei precedenti questo argomento scosse Paolo Tannery. Il quale, per indole sospinto piú a ritrarsi in se stesso che a slanciarsi, piú che a fare, a meditare, e per la prima volta in sua vita posto di fronte al problema della realtà, si chiese sinceramente se da vero la inclinazione che presumeva di sentir accennarsi in sé, non fosse meglio una vanità, una imitazione, una voglia, che non quell’abito fatale ed ardente di cui, a costo della vita, l’uomo segnato non possa spogliarsi, come già Eracle della camicia di Nesso, ma debba in quello consumarsi per una fiamma di passione. Ed a lungo esitò domandandosi se proprio in séguito avrebbe egli avuto il coraggio di consacrar la vita intiera a quell’ideale, la forza di perseguirlo, la tenacia di mantenerne in sé quel vigore molteplice che solo poteva dargliene tutti i risultati. Si presentava a lui in fine il problema della vita a contradire a quello dello spirito, pronunciando verità cosí inesorabili, che al padre ben vigilante, presto apparve nel figlio cedere a grado a grado il desiderio dell’intelletto alla considerazione delle necessità e della sorte dubbiosa. E per conseguenza, reso ben certo della debolezza in cui Paolo veniva a trovarsi per tali inusitati pensieri, volle profittar del momento opportuno, ed al figliuolo consigliò di seguire i corsi della facoltà di matematica o di giurisprudenza, i quali gli avrebbero offerto piú facile, sicuro ed immediato lucro, avvertendolo pure che quando l’antica inclinazione fosse stata da vero possente, avrebbe potuto sempre favorirla, pur se ad altri studi rivolto.
Pochi anni di poi, in fatti, Paolo Tannery entrò nell’amministrazione dello Stato e vi rimase sino a due mesi prima della morte. Poiché, venutogli a mancare il padre prima che avesse compito l’intrapreso corso di studi, dovette, per non restare a carico della famiglia, appigliarsi al partito di trovare impiego al piú presto, e ciò avvenne quando egli aveva da poco raggiunto l’anno diciannovesimo, durante il quale entrò a far parte dell’azienda dei tabacchi.
Fu quello, per il giovane Tannery un giorno assai triste. Si era creduto nato alle opere virtuose e alla gloria, aveva tutta la pensierosa adolescenza informata al disegno di dedicarsi alla libera serenità dei suoi studi e, pur non essendo avido di ricchezze, non aveva mai ritenuto di doversi trovare una volta ad impiegar la vita per il mezzo di viverla anzi che per lo scopo. Sentí per ciò il primo giorno della sua servitú come il piú doloroso di quanti n’avesse passati, dopo quello della morte del padre da lui profondamente amato. Comprese d’aver perduto ogni libertà di se stesso e quando uscí dall’ufficio, mentre il sole tramontava, gli parve che non avrebbe potuto goder la luce mai piú, condannato com’era a restar chiuso sino a tardi nella sua umile cella, e solo allora quasi smarrito accertò che dall’ideale della sua fantasia, la sorte lo respingeva per sempre.
Ma poco durò quell’abbattimento. Per rassegnazione, per consuetudine, per riflessione venne lentamente ad adattarsi alla nuova vita, adempiendo per forza ma con esattezza al suo dovere. Erano umili le cure cui doveva intendere e le piú contrarie all’indole sua, e pure vi dedicava la miglior volontà possibile, riflettendo essergli imposta tal convivenza con uomini diversi ed assegnato tale lavoro, da una necessità piú forte del suo desiderio. Oltre a ciò, insofferente d’acquetarsi a simil decreto del suo destino, né d’altra parte volendo gettar via tutte le speranze ond’erano stati illuminati gli anni piú giovanili, a poco a poco ribellandosi alla schiavitú morale della sua condizione ed all’assorbimento demolitore della sua professione, riescí ad invertire l’ordine delle sue giornate e riprendendo nelle ore lasciate libere dall’ufficio gli antichi studi, a considerar di nuovo questi come scopo precipuo dell’esser suo, e l’impiego come tributo da pagarsi alla sorte gravoso ma ineluttabile.
Con eroica disperazione Paolo Tannery si riattaccò alla vita, tenendovisi stretto con ogni forza. Lunghi anni passò cosí in questo doppio esercizio della sua attività, di giorno nell’ufficio, di notte a casa vegliando su i libri. Senza riposo e senza né meno aver mai l’idea del riposo, transcorse tutta la nobilissima vita tra l’affanno del tempo prezioso ch’era constretto a dare allo Stato, con il quale di fronte a sé ed a gli altri voleva onestamente sdebitarsi dell’assegno che guadagnava ottenendo se non lode, al meno riputazione di esattezza e diligenza, e quello del tempo limitato che poteva consacrare al preferito lavoro. Con volontà ammirevole riescí poco meno che quarantenne a pubblicare il libro cui è or mai indissolubilmente legato il suo nome, su la scienza dei Greci sino ad Empedocle. Non senza intensa commozione si legge la prefazione da lui dettata per questo volume, in cui è raccolto e coordinato un séguito di scritti già apparsi su rassegne filosofiche, firmata con il suo nome da lui superbamente fregiato della sua qualità di Directeur des Tabacs du Lot-et-Garonne, non come parrebbe ai malevoli per suscitar compianto o se non altro per mendicare indulgenza, ma per dimostrazione di sincerità di fronte a chiunque, poi che della povertà e delle disavventure sue non sapeva vergognarsi. Incomincia con queste parole: «Il y a dix ans que ce livre est commencé; j’en ai poursuivi le rêve au milieu des occupations d’un métier qui ne le favorisait guère et, en même temps, je me laissais aller à consacrer de plus en plus mes loisirs à des recherches spéciales touchant l’histoire des mathématiques». E finisce cosí: «Quant aux difficultés que j’ai eu à surmonter elles sont bien connues de tous les juges compétents et je n’ai pas à y insister; mais peut-être serais-je plus satisfait moi même des traductions contenues dans ce volume si je n’avais pas dû en poursuivre le travail bien loin de Paris, où je l’avais conçu et longuement médité».
Era in fatti giunto a viver due vite, ambedue dominate dalla volontà ed assoggettate al dovere, né mai gli riescí di riunirle in una sola ove il dovere e la volontà guidassero alla sodisfazione. Troppo orgoglioso per lasciarsi sopportar nella professione imposta come un intruso svogliato, troppo appassionato nel suo lavoro per pensare in alcun modo di rinunciarvi, non volle mai che le sue due persone si servissero reciprocamente di scusa, ma con coraggio le accettò entrambe, l’una considerando come corporea, l’altra come spirituale. Ma nella prima vigilava a non impegnar nulla di prezioso della seconda nella quale d’altra parte gli ripugnava di ricercar lucri, vantaggi, rinomanze. Si ribellava ad intendere ad opere che potessero avere un fine per la sua comodità proficuo, poiché diceva che sí come non poteva esser ricco di sostanze, voleva al meno quanto al sapere posseder piú del superfluo; che come tutta la sua pratica era gravata di servaggi voleva al meno quanto alle opere volontarie goder piena indipendenza; che se il dovere lo portava a far solamente cose utili, voleva al meno là dove il piacere lo guidava non sentirsi oppresso da veruna necessità; che in fine sí come tale era il suo destino da constringerlo ad aver continua premura per le faccende indispensabili, voleva al meno per l’attività dello spirito piú tosto che il vantaggio esteriore, cercar sodisfazione a tutti i capricci della spirituale curiosità.
Amò in fine lo studio, il lavoro, l’ingegno per se stessi, quasi fossero una dovizia sua di cui non volesse ad alcuno render conto, né chiese mai loro nulla per sé, sembrando godere della sua oscurità, come se questa lo lasciasse piú solo, e però piú suo ed anche piú sicuro dominatore della sua ricchezza. D’altra parte il suo pensiero non era di quelli che conseguono subitaneo consenso od acquistano corrispondente professione, ma quando pur riescano a tradursi per intiero, abbisognano di lunga riprova d’anni e di applicazioni per esser compiutamente intesi. Fu questa la causa dei suoi danni, poiché stimando sufficiente aver adempiuto, quanto alle responsabilità di se stesso, quel che riteneva necessario per essere, non si curò di dare opera a quanto è indispensabile per divenire. Gli sembrava che quanto piú si sentiva perfetto, tanto meno era degno di lui l’operare alcun che per ottenere il riconoscimento tangibile delle sue attitudini e qualità. Con tutto ciò per un profondo senso di equanimità chiaroveggente, diceva che come l’ingegno non si compone sol tanto di pura energia intellettuale, per quanto altissima, sí bene di questa unita a volontà, conscienza di sé, carattere, attività e persino buona salute, cosí il vero merito non è tale se non s’accompagni alle convenienti energie per farsi valere, ma in difetto di queste è personale felicità mancante di qual si voglia diritto ad ogni vital compimento.
Per le opere e l’altezza del pensiero fecero gran stima di lui i piú eminenti scienziati del tempo suo. Lo Zeller, il Gomperz, il Weil, il Grote, il Piccolomini e molti altri tennero carteggio con Paolo Tannery ed ebbero di frequente a chieder consiglio e sussidio per le opere loro al suo acume ed alla sua dottrina. Conobbe i letterati piú insigni ed anche molti uomini d’azione, e gli uni e gli altri dalla consuetudine amichevole con lui ritraevano per ogni maniera di opere, conferme e direzioni. Ma tale diffuso apprezzamento del suo valore, tale stima ond’era da per tutto circondato, mentre gli davano una piú sicura conscienza di sé insieme con una piú chiara visione della sua sorte, non però lo rendevano superbo. Ben comprendeva che colui il quale vuol operare solo per l’indipendente e disinteressata gioia di esprimere liberamente il meglio di sé, non può mirare alle ricompense date dagli uomini a coloro i quali dimostrano di lavorar per i loro contemporanei esaudendone desideri e curiosità, favorendone passioni e sollecitudini, presentandosene interpreti attuali e devoti, ma che ove si abbia l’orgoglio di salir piú in alto del proprio tempo, quanto all’espressione di se stessi, si va ben sí in contro all’immortalità, acquistandola però a prezzo d’indifferenza al consenso dell’epoca. Chi cerca eterna fama tutto si slancia nei pensieri universali, e al secolo deve straniarsi, se vuol viver nei secoli. Cosí chi voglia qualche cosa ottenere nel proprio stato convien si pieghi a far quanto gli si richiede per quel conseguimento e parimenti nel piú umile commercio morale nulla si dà, se non in cambio di quanto si riceve. Il sistemarsi, il nome, la fama, la gloria, son termini di una progressione inversa alla libertà dell’operare e però dello spirito né rispettivamente si raggiungono se non di solito per successiva e sempre maggiore e piú grave rinuncia alle immediate sodisfazioni che può dar l’umana convivenza.
Nulla per ciò ebbe mai dalla vita Paolo Tannery. Per un certo orgoglio che mascherava forse una sua timidezza, per desiderio di ritrarsi in sé corrispondente ad un suo scetticismo, per timore fors’anche di addossarsi impegni che avrebbero in modo piú intimo, diretto, imperioso vincolata la sua persona interiore, non seppe né chiedere né prendere. Oltre di che, probabilmente a causa della sprezzante irresolutezza in cui si riassumevano e si affermavano quelle esitazioni, qualunque sperimento di migliorar la sua condizione gli fallí: per complicatissimi intrecci di circonstanze ogni qual volta si presentò a tentar se l’opera sua potesse valergli o vantaggi o riconoscimenti od onori, si vide da altri preceduto, pur se da ciascuna di tali profferte di sé ricavasse inutili conferme al suo merito indiscutibile. Del rimanente non avrebbe mai accettato che nessun degli uomini per tante ragioni eminenti da lui frequentati parlasse in suo favore. Gli obiettò qualcuno gli altri non comportarsi cosí: e sempre essergli stati anteposti i procaccianti ed i compiacenti: rispose: – Ogni fatica merita premio. – E chiestagli ragione di tal sua strana parola, soggiunse: – È tutto lavoro. – E all’insistenza spiegò: – Io ho lavorato alle mie opere e nessuna gioia pareggerà quella goduta nel farle. Coloro lavorarono per procurarsi appoggi e nessun compenso li ristorerà delle umiliazioni cui dovettero sottoporsi. Essi ed io abbiamo impiegato molte energie spirituali per conseguir qualche cosa, ma le loro, statene certi, costavan di piú. Credete voi che essi non m’invidiassero quando si toglievano servilmente il cappello mentre io procedevo a testa alta? Essi hanno rinunciato prima a tanta lor dignità, io dopo a tanti piaceri: non merita dunque premio il sacrificio maggiore? Non rappresenta un lavoro anche quello? In me non è ombra di amarezza se vi dico che essi afferrano ora ben meno di quanto non abbia io avverato in me per lo innanzi.
E con onesta se ben paradossale chiarezza, si persuadeva ogni volta, che in fondo per le leggi della vita sociale non a torto non era riuscito nei suoi tentativi d’assestarsi, pur se a tal riguardo gli fossero intervenuti casi talmente strani ed inverosimili, che egli, sempre sereno e sorridente dinanzi a qualunque evento, scherzosamente aveva avuto a definirsi un giorno come il gabinetto sperimentale perpetuo degli esiti contrari. Se non ché oltre a queste, molte altre avversità ebbe a sostenere, le quali si susseguivano incessantemente, senza lasciargli un instante di requie. Il poco avere di casa perdette un parente in affari finiti a male, onde ebbe a travagliarsi per sostentar la famiglia, collocar congiunti, fra loro accordarli; malattie di persone care, morti precoci, dissidi domestici, sfortune di denaro, amarezze nell’ufficio e nella professione, malvagità di colleghi, molti altri dolori, tutto in fine sembrava conspirare a fargli perder quella serenità ch’egli intendeva ad ogni costo serbare. Si sarebbe detto che il destino volesse fargli severamente scontare i pochi doni, se ben grandissimi da lui ricevuti, la buona salute, la buona volontà, l’affetto dei suoi cari. E pure nulla del suo aspetto esteriore avrebbe mai tradito una segreta angoscia, per quanto dolorosa e febrile, poiché riteneva saviezza il piú decoroso silenzio di sé, e voleva serbar la dignità dello spirito intangibile dalle congiunture volgari.
Cosí transcorse la gioventú e l’età matura e giunto sul limitare della vecchiaia fece il proposito di lasciare l’ufficio non a pena la tenue pensione che lo Stato gli avrebbe corrisposta giungesse a cifra tale da permettergli di seguitar le sue consuetudini modeste e operose senza constringerlo a privazioni le quali in età a bastanza avanzata e resa piú grave dal lavoro assiduo e faticoso in che s’era logorato, l’avrebbero disturbato ben piú di quanto non fosse per avvantaggiarlo la recuperata libertà. Dal giorno in cui quest’idea si fece strada nell’animo suo egli non attese piú che a stabilire il programma di lavoro da condurre a termine per il resto dei suoi giorni, a riordinar libri e carte, a compir gli studi arretrati, poichè voleva ricominciare da capo rifiorendo in una nuova giovinezza, come per rifarsi una verginità di propositi e prepararsi un terreno libero e quasi inesplorato ove esercitare l’ingegno.
Ma dopo due mesi soli da che aveva scosso la quarantenne schiavitú, un male improvviso e violento lo tolse di vita. Come colui che tenuto lunghi anni all’oscuro, condotto a veder d’un tratto lo splendore del sole s’acceca, o colui che, estenuato per l’inedia, muore allor che alla bocca appressa il primo cibo, cosí Paolo Tannery parve spezzarsi per aver conseguito ciò cui tanto ardentemente aveva anelato. Forse la gioia, forse la noia, forse un confuso repentino terrore per sentirsi come abbandonato a se stesso senza lo stimolo della ribellione, forse ancora una sovraeccitazione di tutto il suo corpo, sciolto dai ceppi della necessità, forse tutto ciò insieme lo condusse alla tomba.
Ed in vero, com’egli stesso ebbe a dire una volta, l’uomo d’intelletto non ha diritto d’esser felice ed esaudito, ma per operar bellamente conviene si senta oppresso da un suo destino e molto desideri e nulla consegua se vuol giustamente vivere di là dalla morte.

II.

Fui un giorno a trovarlo, a pena quattro mesi prima che passasse di vita: avevo con lui grandissima intrinsechezza poiché era stato uno degli amici piú cari di mio padre e mi conosceva sin dall’infanzia. Mi accolse nella stanza d’ufficio e fin che vi restammo, continuò ad accudire ai suoi doveri, pur dirigendomi di tanto in tanto parole cortesi ma comuni. Nella stanza erano ogni specie di carte d’affari, volumi di leggi, trattati e stampati, buste e cartelle di lavori correnti, ma tutto relativo a quel suo mestiere esteriore. Nessuno avrebbe potuto imaginare che ivi passasse le ore migliori un uomo che la vera professione aveva eletto negli studi scientifici piú ardui della filosofia, della filologia, della letteratura, della storia e possedeva un’anima tutta impregnata di poesia.
Giunse finalmente l’ora di escire ed insieme ci avviammo ad una delle porte della città che già declinava il giorno. A pena in istrada, egli apparve tutt’altro e prese animatamente a discorrere dei suoi e, gentilmente, dei miei lavori, presto dimostrandosi uomo pronto ed aperto, abile ad afferrar subito ogn’idea ed a transformarla con parole proprie per testimoniare d’averla intesa, sí da dar la sicurezza del suo possesso di qualunque pensiero gli fosse enunciato. Quanto gli dicevo compiva benignamente ed infiorava di idee sue e poneva in relazione con fatti e teorie nuove e riprovava con esempi e giustificava con elementi di metodo o di vita, in modo tanto sottile ed elevato che, pur là dove le sue opinioni non corrispondevano alle mie, mi pareva d’averlo in vece ausiliare, stimolatore, cooperatore poiché s’esprimeva con tal garbo da farmi pensare egli fosse un altro me stesso, situato però su altissima vetta.
Fuor di porta, in campagna arrivammo che il sole già poggiava su l’ultima linea dell’orizzonte e fra il fiacco splendore vespertino il gran disco giallastro si lasciava impunemente guardare nel cielo soffuso dalla rosea luce estrema del giorno. S’arrestò ad un tratto e, fissando il tramonto con un sorriso triste e orgoglioso su le labbra: – Addio sole! – esclamò. – Discendi dunque dietro alla terra ché io attendo la mia aurora! – E rivolgendosi a me, disse: – A quest’ora incomincia ordinariamente la mia giornata. Ora io vivo, ora io sono me stesso, e da quarant’anni a questa parte solo nella notte si svolge la mia piú vera attività.
— In fatti – gli dissi – nel sapervi addetto ad ufficio d’indole cosí diversa da quella dei vostri studi io mi son di frequente meco meravigliato che riusciste a trovare il tempo necessario al vostro lavoro.
— È la notte – mi rispose – è la notte la mia benefica dea. Come v’è stato un pittor delle notti e ne fu il poeta Epicarmo, cosí vorrei della notte esser io il filosofo. Sono or mai cosí assuefatto a questo costume di studio notturno che attendo il tramonto con l’animo stesso con cui avrà atteso l’aurora un antico Persiano. Il sole m’impaccia, m’ingombra, mi turba, come se la sua luce violenta avesse ad intorbidare quella del mio pensiero. La notte è taciturna e tranquilla, non ha limiti se non nella volontà di chi la passa nel lavoro, non ha momenti né oscillazioni, non tempi né stanchezze, ma tutto libero lascia chi la sa vivere e solitario con le macchine operose del cuore e del cervello. Chi passa a tavolino la notte non s’accorge di vivere poiché nessun richiamo dall’esterno lo fa consapevole della natura e del mondo, ma si crede di transcorrer le ore in comunione perfetta con le idee e con i sogni, senza intermediari e senza testimoni, quasi che lo circondasse armonioso e discreto l’amabile coro delle Muse. Solo la notte sa dar quelle esaltazioni divine in cui sembra d’abbracciar con la mente tutto il cielo sconfinato di un’idea toccandone ogni punto per quell’attimo immortale in che un uomo d’intelletto può sostener fisso lo sguardo cieco e abbagliante dell’eternità e dell’infinito. La notte è la liberazione, è la libertà, come se il giorno, con la sfacciata luce del sole pesasse su l’uomo rendendo in lui vano ogni conato d’ascesa, e tutto sembra di notte piú agevole, chiaro, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I giardini di Adone
  3. Indice dei contenuti
  4. DIALOGO METAFISICO DI LUCIANO DI SAMOSATA ED ALESSANDRO DI ABONUTEICO.
  5. DIALOGO DI ELENA TROIANA E DEL GIOVINETTO TEOCLE O DELLE DONNE.
  6. LA PASSEGGIATA. DIALOGO DI POLIFILO POETA, ZENODOTO ARCHEOLOGO ED ELIODORO FILOSOFO.
  7. PERORAZIONE DI FIDIA A GLI ARCONTI O DELLA RICCHEZZA.
  8. DIALOGO DEL CAVALIERE BERARDINO ROTA POETA E DELLA SIGNORA PORZIA CAPECE SUA MOGLIE O LA CONCEZIONE.
  9. EPISTOLA RELIGIOSA.
  10. DIALOGO DI IRO DA ITACA E DI SUO PADRE O DELL’EDUCAZIONE.
  11. DIALOGO DI POLIFILO, POETA, E DI MOUSARION, CORTIGIANA O DELLA POESIA.
  12. DIALOGO DI GIOVANNI FILOPONO, GRAMMATICO, E DI AMRU, GENERALE DEL CALIFFO OMAR, O DELL’INVIDIA DEL TEMPO.
  13. DIALOGO MEGARICO DI TRISTANO ED ELEUTERIO. – CONSIGLI AD UN’ANIMA DEBOLE, PER IL DOLORE E PER LA SPERANZA.
  14. CLEOMBROTO D’AMBRACIA O DELLA BELLEZZA. RACCONTO.
  15. PRIMO DIALOGO DEI MORTI O IL CONGRESSO DEI FILOSOFI.
  16. L’OTTIMATE O DELLA FELICITÀ.
  17. EPISTOLA ALL’AMICA LONTANA O DELL’AMORE.
  18. AHASVERO O LA VERITÀ.
  19. ELOGIO DEL MIO GATTO.
  20. SECONDO DIALOGO DEI MORTI O LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA.
  21. VITA, FORTUNA ED OPERE DI PAOLO TANNERY.
  22. LA CROCE. – DIALOGO FRA SIMONE DI CIRENE ED ALESSANDRO E RUFO SUOI FIGLI.
  23. PANEGIRICO DELL’AVIATORE O LA NUOVA COSMOGONIA.
  24. Annotazioni