Corrispondenze
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(1842)

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Corrispondenze

(1842)

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Le rare e preziose Corrispondenze "giornalistiche" di Stirner, qua riunite e pubblicate, sono apparse nella "Gazzetta del Reno" (dal 7 marzo al 13 ottobre del 1842) e nella "Gazzetta Universale di Lipsia" (dal 17 maggio al 31 dicembre del 1842). I testi sono stati formalmente controllati e prudentemente revisionati. Per completezza su Max Stirner, si rinvia alle Cinque Dissertazioni (1842-1844) (Tiemme Edizioni Digitali, 2020) e ovviamente a L'unico e la sua proprietà (Tiemme Edizioni Digitali, 2019).

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788835829775

GAZZETTA UNIVERSALE DI LIPSIA. LEIPZIG 1842

I. Numero 126. 8 maggio 1842.
PRUSSIA
Berlino, 3 maggio.
Un noto recente avvenimento, la decisione della Facoltà evangelico-teologica di Bonn contro il candidato alla licenza Bruno Bauer, fu già spesso scelto come oggetto di discussione da organi della pubblicità, e con la sua complessa importanza solleva una quantità di problemi, i quali dopo un sonno di molti anni, finalmente si destano e, con occhi ancora un po’ torpidi, salutano il chiaro mattino di un giorno futuro.
Così in questo momento appare un «Voto teologico circa l’impiego dei teologi nelle Università tedesche», al quale, presumibilmente, seguiranno molti altri e metteranno in luce sempre più propizia la questione e la sua intima sostanza. Ma c’è molto da dubitare che tale questione, anche nel caso che si trovi la miglior luce per guardarla sotto il miglior punto di vista, possa sperare un apprezzamento generale del suo vero valore, perché anche per ben giudicare un quadro occorre più che una buona luce, occorre un gusto sano. Per quanto riguarda il voto sopra citato, è anzitutto cosa assai rallegrante che esso sia comparso sotto la censura berlinese, perché con ciò resta provato come noi cerchiamo di avvicinarci a una coraggiosa sincerità; ma in realtà è cosa in sé stessa importante e significativa.
Due cose stanno particolarmente a cuore all’autore di quell’opuscolo, benché egli in conclusione si abbandoni alla rassegnata disperazione d’un uomo reso accorto dalle disillusioni: «Noi abbiamo parlato, ma è facile prevedere quale sarà il seguito di queste parole. La cosa che noi abbiamo in primo luogo discussa, non si avvererà, per quanto sia chiaro agli occhi di ognuno ciò che vi è di innaturale e di ingiusto nelle condizioni presenti; l’altra cosa invece avrebbe cessato di esistere, anche se noi l’avessimo combattuta». Con tali parole egli intende accennare alla sua prima proposta di «separare anche esteriormente, così come sono intimamente disgiunti, gli interessi della Chiesa da quelli della scienza, e da un lato lasciare intatta alle Università la loro importanza, consistente nell’essere sede della libera scienza, e dall’altro lato dare alla Chiesa gli Istituti suoi propri, in cui i suoi ministri vengono educati». Questo mezzo d’uscita, che l’autore raccomanda allo Stato allo scopo di rendere giustizia tanto alla scienza quanto alla Chiesa, è da lui motivato nel modo più convincente, pur partendo sempre dalla premessa che la Chiesa abbia all’assistenza dello Stato un titolo così valido come lo ha la scienza; e che la Chiesa non debba essere abbandonata a sé stessa, come per esempio nell’America del Nord è devoluta alle cure dei privati, o come fra noi in gran parte gli affari religiosi degli ebrei non godono nessuna cura speciale da parte dello Stato. Questo problema, se realmente importi allo Stato che i suoi membri siano ascritti a una determinata confessione, alla cattolica o alla protestante, e quindi esso debba prestare la sua assistenza e il suo appoggio per il mantenimento di questa confessione, fu lasciato non chiarito dall’autore, il quale soltanto nelle seguenti parole lasciò in qualche modo trapelare la sua opinione in merito: «Soltanto quando la tendenza moderna fosse diventata dominante e avesse riportato una evidente vittoria, quando la Chiesa non potesse più mantenersi di fronte alla scienza, soltanto allora si potrebbe pensare a introdurre la scienza immediatamente anche nella Chiesa; per ora la scienza deve seguitare tranquilla la sua strada in una salutare separazione dalla Chiesa. Quando giunge il tempo in cui un nuovo principio deve aprirsi il cammino, esso irresistibilmente, tutto penetrando come l’atmosfera in cui viviamo, si diffonderà attraverso la società». Molte cose giuste sono esposte succintamente in questo passo, e se anche esse non appaiono proprio nuove a un uomo esperto, tanto maggior valore hanno per il grosso pubblico, al cui tribunale si presenta l’opuscolo. Il secondo punto cui l’oratore rivolge la sua attenzione riguarda la «uscita dalla Chiesa», a cui, come è noto, fu alluso negli «Annali tedeschi» in uno scritto che fu rapidamente sfruttato da amici e nemici. In questa parte, l’esposizione soffre di molti tentennamenti, e l’autore vi vede troppo una «questione puramente pratica», come se fosse più pratica della prima. Per contro, i suoi argomenti portano almeno l’apparenza di riguardi mondani, quando per esempio egli condanna l’uscita dalla Chiesa perché «con ciò viene infranta la fiducia; perché quella forma di pensiero che in una scienza non conforme alla sua fede ravvisa non soltanto l’errore, ma anche il delitto; quel fanatismo, che non si contenta di combattere i suoi avversari con argomenti scientifici ma attacca anzitutto il santuario delle loro persone, per ridurlo implacabilmente in polvere, è soltanto l’ultima conseguenza di quella reazione che si è introdotta nello spirito del tempo, ha soltanto il torto di essere interamente e compiutamente ciò, che l’usuale maniera di pensare è soltanto per metà, e perciò anche si è negli ultimi tempi sempre più diffuso». Si deve però confessare, che simil gente non deve essere risparmiata, e che invano si spera di «non infrangere la loro fiducia», e che quindi contro l’uscita dalla Chiesa non si devono esporre precisamente simili ragioni. Ma l’autore non si accontenta di questo, e aggiunge altre più convincenti ragioni, per le quali si può rimandare il lettore a quell’opuscolo molto intonato al nostro tempo.

II. Numero 137. Supplemento 17 maggio 1842.
PRUSSIA
Berlino, 12 maggio.
Che Königsberg meriti sempre più di attirare su di sé gli occhi dell’intera Germania, perché come coscienziosa guardiana dei confini pone ogni cura a difenderci dalla soggezione e dalla servilità di fronte allo slavismo, viene di giorno in giorno più apertamente riconosciuto con l’interesse crescente che da tutte le parti si manifesta per quella città. Ma recentemente è uscito di là uno scritto che, qualunque cosa si pensi del suo contenuto, può con tutta ragione venir chiamato un avvenimento, nel senso in cui si è cominciato a dare a questa parola un’importanza cospicua. È intitolato: «Glosse e note marginali a testi del nostro tempo. Quattro lezioni pubbliche tenute in Königsberg da Ludovico Walesrode; Königsberg, 1842». Questo scritto ha per il tempo presente un valore straordinario non soltanto perché per mezzo di esso è venuta alla luce per noi lettori la virile franchezza dell’autore, ma perché più di 400 persone nella seconda residenza del paese hanno collaborato alla manifestazione della mentalità nascosta in quello scritto. A tal proposito l’autore così si spiega nella «Prefazione per l’egregio sconosciuto che leggesse il libro»: «Il nostro libriccino è sorto da pubbliche lezioni. Come fatto e non sotto il rapporto critico, l’autore può chiamare quelle lezioni un fenomeno, caratterizzante lo spirito pubblico di Königsberg. Le lezioni, a cui assistettero più di 400 uditori, dame e signori, di tutte le classi sociali, assunsero formalmente l’aspetto di un comizio, coi suoi drammatici rapporti fra oratore e pubblico. Ogni espressione simpatizzante con le tendenze progressiste, ogni parola evocante il nostro tempo fu salutata con clamorose acclamazioni e con applausi. Fenomeno questo, che l’autore non menzionerebbe se egli si lusingasse che il consenso andasse a lui piuttosto che alle idee generali che agitano la nostra epoca. Il suo unico merito singolare può essere quello di aver detto in pubblico, dinnanzi a centinaia di testimoni, cose sulle quali invece si suole discutere soltanto fra quattro mura. Ma anche questo merito viene diminuito all’autore dal fatto che egli conosceva il suo pubblico».
Queste lezioni compaiono ora stampate quali furono tenute, e danno così occasione all’autore di dire le cose seguenti sulla censura di Königsberg, dopo aver espresso il suo malumore contro la censura in genere: «Io non ho in realtà motivo di essere malcontento del mio censore, se io non fossi irritato contro i censori in generale. In Königsberg la libera parola è diventata già moneta spicciola del commercio intellettuale, e là nessun censore è in grado di metterla fuori corso, anche se volesse. Noi abbiamo in Königsberg dei censori che hanno assunto con penosa abnegazione il più odioso di tutti gli uffici, per non lasciarlo cadere nelle mani di gente che lo assumerebbe con gioia. Königsberg, di fronte all’oriente, è una città di confine non soltanto secondo la geografia statistica, ma anche in senso spirituale. Già da lungo tempo ivi, prima ancora che si trattasse di costruire fortificazioni presso il Pregel, l’idea ha costrutto le sue torri all’uso di Montalembert contro gli asiatici prementi; e i censori, là dove appena poterono farlo, e spesso anche là dove non potevano, non hanno messo ostacoli ai lavori che si compievano nei fortilizi avanzati dall’intelligenza. Ma noi vogliamo aspettare a fare il panegirico dei censori Königsberghesi fin quando la censura tedesca morirà d’una beata morte. Un simile elogio fa miglior figura in un discorso funebre».
Quattro lezioni formano il contenuto del libro. Nella prima intitolata: «Le maschere della vita. Fantasia d’un mercoledì delle ceneri», è detto a pagina 19: «Certi storici che non vogliono la controrivoluzione assicurano che il costume medioevale non soltanto è pregevole in senso poetico, ma è anche una garanzia per il riposo spirituale del mondo. Essi non hanno torto! Il redattore di Corte non ha soltanto da scrivere il programma di tutte le mascherate di Corte e i bollettini della cucina di Corte e farli stampare per edificante lettura di tutto l’impero romano, ma ha anche l’incombenza di trarre dalle nubi auspici felici per ogni rappresentazione del teatro di Corte e di comunicare i fenomeni celesti ufficiali nella parte ufficiale della sua gazzetta. Egli è l’unico uomo nel sacro romano impero al quale il cielo deve in tutte le circostanze dar ragione. Se per esempio piove durante il viaggio trionfale d’un imperatore, il redattore di Corte scrive: «Il cielo stesso pianse lagrime di gioia sulla terra felice». Se il sole brilla, allora «sorride il cielo azzurro e dorato e non sa contenersi dalla gran gioia». Se lampeggia e tuona, ciò significa una salva di gioia da parte dell’artiglieria celeste; se nevica, il cielo stesso spande i suoi fiori del candore del giglio sul trionfatore; insomma, il povero Cielo deve, su ordine dell’imperiale gazzettiere di Corte, fare i suoi devoti omaggi in occasione d’ogni grande mascherata, come uno stipendiato lacchè. Però, per la simbolica galantemente leggiadra della imperiale gazzetta di Corte, il cielo più perfetto è quello che dapprima si mostra fortemente annuvolato – dovrebbero magari cadere alcune gocce di pioggia – e da cui improvvisamente, in un dato indescrivibile momento, il chiaro sole prorompe, tagliando le nubi».
Nella seconda lezione: «La nostra aurea età», sono particolarmente ben riusciti i «tratti fondamentali della storia naturale dei ricchi». Alla terza lezione: «Torneo letterario di Don Chisciotte», si può togliere quanto segue: «La lingua tedesca è nata libera e repubblicana; essa raggiunge le più alte cime montane e i ghiacciai dell’arte poetica e del pensiero, per librarsi con l’aquila nel sole. Ma essa si concede anche, come gli Svizzeri, per la guardia del corpo al dispotismo. Quello che il re dell’Hannover disse al suo popolo in pessimo tedesco, non avrebbe potuto dirlo nel miglior inglese. In breve, la nostra lingua, come le pillole di Morrison, è buona e utile a tutto: solo una cosa le manca di cui ha molto bisogno, «lo stile politico!». Certamente, in epoche di gravissimo pericolo, quando la cattedrale di Colonia si specchia nel Reno, cosa che essa suole fare soltanto in circostanze gravissime, la lingua tedesca assume, con l’alto permesso dei superiori, una specie di enfasi politica; allora ogni campo di patate vien chiamato «giardino» e onesti borghesi di piccole città sono promossi «uomini», e ogni cucitrice si cambia bruscamente durante la notte in una «donzella» tedesca. Ma questo è soltanto lo stile difensivo politico, che di solito viene chiamato alle armi insieme con la riserva; finora la nostra lingua non è giunta all’offensiva. Quando il tedesco vuole avanzare pretesa al suo più elementare diritto politico, che gli è confermato su carta bollata così legalmente come la sua sposa dal contratto di nozze, allora egli chiosa la sua richiesta con tante circonlocuzioni curialesche, professioni di devozione, segni di rispetto e con tante assicurazioni di una fedeltà e d’un amore imperituri, che si dovrebbe ritenere tutto ciò piuttosto la cerimoniosa lettera d’amore d’un garzone sarto che una legittima richiesta. Perché il tedesco non ha abbastanza il coraggio di avere ragione, e quindi chiede mille volte perdono se ha per avventura osato credere, pensare, pretendere o anche soltanto immaginarsi di poter sostenere anche una pretesa politica presso una persona d’alto grado. Forse che per esempio, il maggior numero delle suppliche per la libertà di stampa non ricorda quel Marchese di Posa, completamente vestito in costume nella guardaroba del teatro, che si getta ai piedi del re Filippo gridando «Sire! largite la libertà di pensiero!». Ci si può dunque ancora meravigliare, quando simili suppliche vengono pure respinte e passate agli atti con le parole del re Filippo: «Strano visionario!». I pochi tedeschi che ebbero il coraggio di esporre, quali avvocati della loro patria, i diritti politici di quella in lingua chiara e concisa, come si conviene a uomini, devono alla viltà del nostro sistema politico di essere caduti come vittime nelle mani dell’inquisizione di Stato. Perché là dove la viltà è la norma, il coraggio è delitto! Uno scrittore politico del nostro tempo, potrebbe molto facilmente, per semplici peccati di stile, per aver lasciato apparire le sue parole e i suoi pensieri nella nuda verità, anziché vestiti del costume prescritto dal maestro delle cerimonie, venire dolcemente giustiziato, e ciò in conformità del diritto. Quindi lo stile tedesco è così eunuchescamente vile, quando deve valorizzare diritti politici, e così goffamente agita il turibolo sotto il naso dei potenti. Se avviene che un principe in qualche luogo dica: «Io voglio esercitare il diritto e la giustizia!», subito interi sciami di frasi giornalistiche si precipitano come api selvagge sulle macchie di miele, e ronzano di gioia intorno alla preziosa scoperta da essi fatta nella deserta landa politica. Ma c’è cosa più offensiva per un principe, che la semplice manifestazione della volontà di esercitare il primo dovere di un regnante, trascurando il quale egli dovrebbe mutare il proprio nome in quello di un Nerone e di un Busiride, venga strombazzata da tutti i giornali come una straordinaria, inaudita virtù principesca? E ciò si verifica nella Gazzetta di Stato, sotto l’occhio del censore, sotto gli auspici della Dieta federale! Non si dovrebbe impiegare a un tale sgarbato lodatore il paragrafo 92 del Codice penale in tutta la sua severità?»
Rinunciamo a saccheggiare la quarta lezione: «Variazioni sopra melodie moderne e nazionali in voga». Le poche cose esposte bastano a mostrare al resto della Germania dove essa debba cercare le sue simpatie.

III. Numero 140. 20 maggio 1842.
PRUSSIA
Berlino, 17 maggio.
Il re ha fatto conoscere al Ministro della giustizia la sua intenzione che a datare da un tempo da destinarsi ulteriormente venga assegnata agli assessori non pagati un onorario, e ai referendari delle rimunerazioni. Certamente era ingiusto che servitori di cui lo Stato non può fare a meno, fossero assunti senza pagarli e quindi gli assessori venissero posposti ai luogotenenti. La Gazzetta di Königsberg è quasi effettivamente, sebbene non nominalmente, redatta dal maestro superiore Witt, là impiegato in una scuola dello stato. Per ciò si tentò già prima d’ora di privare il maestro superiore Witt del suo posto d’insegnante, come incompatibile con l’opera di giornalista, senza che tale richiesta avesse finora avuto nessun seguito. Ora Witt fu citato davanti al Concistoro, dove dovette provare con certificati che la sua attività professionale non è minimamente danneggiata dal suo lavoro di redattore. Gli si fa particolarmente carico anche della circostanza che egli l’anno scorso lasciò stampare in una certa occasione, nella tipografia della Gazzetta di Königsberg, due poesie anonime, opera del professore Lengerke, e nel memoriale indirizzato al Concistoro di là si notò espressamente che il professor Lengerke avrebbe propriamente meritato un castigo molto grave, che tuttavia anche questa volta sarebbe stata condonato. Difficilmente il maestro superiore Witt sfuggirà a una rimozione in «via amministrativa!».

IV. Numero 141. 21 maggio 1842.
PRUSSIA
Berlino, 18 maggio.
Benché il signor di Savigny dal momento in cui il defunto Gans fu nominato professore sia partito dalla facoltà giuridica e abbia soltanto continuate le sue letture, rimase tuttavia il celebre e illustre capo della Facoltà, che non poté sottrarsi alla direzione da lui impressa. Ora il signor di Savigny, essendo stato nominato ministro, è diventato estraneo alla facoltà, e quindi è giunto per questa il momento di chiedersi se debba continuare nella vecchia strada o dar ascolto al rimprovero molte volte rivoltole di tenere ingiustamente separate la teoria e la pratica giuridica e di far sì che «i membri e i semplici scolari della facoltà di leggi sembrino spettri di un’epoca passata, i quali, se cercano di immischiarsi nella vita, possono agire soltanto disturbando il prossimo e diffondendo il terrore». Coglie questo momento di un importante periodo della vita, di un’epoca della facoltà giuridica berlinese l’autore di un opuscolo appena comparso: «La facoltà giuridica della Università di Berlino, dalla chiamata del signor di Savigny fino alla sua dimissione dal posto accademico; e la necessaria trasformazione di quella facoltà». L’autore cerca non soltanto di scoprire la radice del vecchio male, ma anche di aiutare ad estirparla.
Il signore di Savigny fu chiamato nell’anno 1810, quindi al tempo della fondazione dell’Università berlinese, e da allora in poi la Facoltà si formò e si completò quasi unicamente alla scuola di lui, alla scuola storica. La storia di questa scuola e del suo capo quindi è strettamente connessa con quella della facoltà giuridica. Quando la scuola storica cominciò la sua lotta contro i giuristi della filosofia aprioristica, ebbe un avversario facilmente vincibile, e salì facilmente in considerazione fra i contemporanei affluenti al romanticismo. Perché la scuola storica e il suo capo non sono altro che forme del nostro periodo romantico, che ora giacciono avvizzite sul suolo di un presente appena sbocciato, e spiccano abbastanza mirabilmente col loro sbiadito colore malaticcio di fronte al fresco verde di una nuova vita. Ogni salute doveva venir cercata nel passato, lingua, arte e religione dovevano ritornare nel costume antico-tedesco, e accanto ai Nibelunghi le Pandette dovevano essere l’eterna verità. Questa romantica scienza del diritto cominciò a tremare leggermente e senza accorgersene quando nell’anno 1818 Hegel venne a Berlino e operò un nuovo e potente risveglio con le sue lezioni sul diritto naturale. Ma «l’avversario non era ancor penetrato nella facoltà giuridica stessa. Ciò avvenne quando il dottor Gans, discepolo di Thibaut e di Hegel, fu assunto come professore straordinario nell’anno 1826. A lui deve il suo primo impulso la scuola giuridica prussiana che ora fiorisce». In tal modo la filosofia aveva dato aiuto alla scienza giuridica contro la scuola giuridica unilaterale dei cosiddetti storici, o, come Gans li definì esattamente, dei «Non-filosofici». Frattanto però anche quella scuola giuridica in sé stessa era crollata in molte parti, in quanto che «i germanisti e canonisti si affezionarono talmente alle loro proprie fonti giuridiche, da un lato il costume legale germanico e dall’altro il diritto canonico, che con mentalità unilaterale, come i romanisti, che volevano ristabilire il puro diritto romano, pensavano soltanto alla risurrezione del diritto germanico e canonico. Il signor di Savigny tentò di evitare lo scoppio di una vera lotta pronunciandosi, nella prefazione al primo volume, edito nel 1840, del suo «sistema del diritto romano odierno», contro l’unilateralità che tratta il diritto romano con singolare preferenza senza tener conto delle modificazioni che quello ebbe a soffrire nel Medio Evo per opera del diritto canonico e del costume legale tedesco. Per togliere di mezzo anche il soprannome della scuola non-filosofica, egli prese sotto la sua protezione il professore Stahl e favorì la recente chiamata di costui alla Facoltà giuridica facendola proporre dai suoi partigiani. Ma entrambe le misure non furono appropriate né capaci di scongiurare la tempesta prorompente. Perché l’opinione generale si esprime nel senso che le vedute manifestate nella citata prefazione non trovano conferma nel libro stesso, e che quindi non si è affatto conchiusa la pace fra i Germanisti amici del presente e i Romanisti ammiratori dell’antichità. E per quanto riguarda la filosofia del professore Stahl, questa non viene riconosciuta come vera filosofia né dai filosofi né dai giuristi aventi cultura filosofica. Essa aderisce ai principii generali della scuola storica, ma inoltre si avvolge in un manto mistico-religioso e persegue scopi gerarchici e reazionari sotto il pretesto di voler combattere la rivoluzione. «A queste lotte teoriche si aggiunse recentemente un forte impulso in quanto che la pratica del diritto tedesco trovò nella filosofia una mediatrice per elevare sé stessa al grado di scienza». La scienza del diritto prussiano crebbe in poco tempo formidabilmente e guida la schiera dei giovani pratici. Così corredata, essa picchia alla porta della Facoltà giuridica, che finora le era rimasta chiusa, e chiede di entrare. Si potrà resistere a questa giustificata richiesta? C’è da aspettarsi che l’attuale ministro dell’istruzione riconosca la giustezza di quella domanda, poiché egli, come distinto giurista prussiano, non può misconoscere la necessità di riformare la Facoltà giuridica secondo lo spirito della patria. Che in ciò noi non ci inganniamo, ce lo garantisce la nomina da poco avvenuta del praticista prussiano, munito di cultura filosofica, dottor Heydemann, al posto di professore straordinario. L’autore dell’opuscolo citato desidera quindi, allo scopo che la scienza giuridica e la vita giuridica si riconcilino dopo la lunga separazione, che venga soddisfatto il bisogno da lungo tempo sentito d’una riforma della Facoltà, e anzi traccia i contorni della riforma auspicata. Egli vuole che il diritto comune continui ad essere insegnato, ma non «come diritto comune tedesco, cioè come diritto sussidiario per tutti i paesi appartenenti all’antico impero tedesco, ma come base storica delle varie legislazioni dei singoli Stati tedeschi»; domanda quindi una interpretazione filosofica e uno sviluppo storico fino alla formazione delle diverse legislazioni. Per il diritto prussiano si deve andare più oltre. Non basta più come finora tenere una lezione su quello, ma «si richiederanno diverse dissertazioni sul diritto prussiano, che lo trattino sotto l’aspetto storico, sistematico ed esegetico». Ma dove prendere dei maestri idonei a trattare in tal modo la scienza del diritto, quale la rende necessaria lo spirito del tempo? L’autore obbietta a questa domanda: «Si assegni agli assessori dell’Alto Tribunale, sotto certe condizioni utili a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. CORRISPONDENZE
  3. Indice
  4. Intro
  5. INTRODUZIONE
  6. GAZZETTA DEL RENO PER LA POLITICA, IL COMMERCIO E L’INDUSTRIA. COLONIA, 1842
  7. GAZZETTA UNIVERSALE DI LIPSIA. LEIPZIG 1842
  8. Ringraziamenti