Cinque Dissertazioni
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Cinque Dissertazioni

(1842-1844)

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Cinque Dissertazioni

(1842-1844)

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Le preziose e rarissime Cinque Dissertazioni di Stirner - apparse in periodici fra il 1842 e il 1844 - qua riunite e pubblicate sono: "Il falso principio della nostra educazione, ovvero Umanismo e Realismo", "Arte e Religione", "Lo Stato fondato sull'Amore, considerazioni e pregiudiziali", "I Misteri di Parigi, di Eugène Sue" e "Sul libro di Bruno Bauer: La tromba del giudizio universale". I testi sono stati formalmente controllati e prudentemente revisionati. Per completezza su Max Stirner, si rinvia a Corrispondenze (1842) (Tiemme Edizioni Digitali, 2020) e ovviamente a L'unico e la sua proprietà (Tiemme Edizioni Digitali, 2019).

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788835828495

IL FALSO PRINCIPIO DELLA NOSTRA EDUCAZIONE, OVVERO UMANISMO E REALISMO

Poiché il nostro tempo lotta per trovare la parola con cui significare il suo spirito, molti nomi si presentano e affacciano ogni pretesa di essere il nome giusto. Il nostro tempo presente mostra da tutti i lati la più variopinta confusione di partiti, e le aquile del giorno si radunano intorno alla putrefacentesi eredità del passato. C’è però una grande quantità di cadaveri politici, sociali, ecclesiastici, scientifici, artistici, morali e simili, e fin quando questi non saranno tutti consumati l’aria non diventerà pura e il respiro delle creature viventi resterà oppresso.
L’epoca non mette in luce la giusta parola se noi non l’aiutiamo; tutti dobbiamo collaborare a ciò. Ma se tanto dipende da noi, abbiamo ragione di chiedere che cosa si sia fatto di noi e che cosa si pensi di fare; noi domandiamo di diventare i creatori di quella parola in conformità dell’educazione con cui si tenta di foggiarci. Si educa coscienziosamente la nostra disposizione a divenire creatori, oppure ci si tratta soltanto come creature la cui natura ammette unicamente un addestramento? La questione è così importante come può esserlo una delle nostre questioni sociali, anzi è la più importante, perché le altre riposano sulla base di quest’ultima. Se voi siete uomini valenti, opererete cose belle; se ognuno è «completo in sé», anche la comunità cui voi appartenete e la vostra vita sociale saranno perfette.
Perciò ci diamo innanzitutto pensiero di quello che si fa di noi all’epoca della nostra educazione; il problema della scuola è un problema di vita. Ora ciò salta abbastanza agli occhi, e da molti anni si combatte su questo campo con un fervore e con una franchezza che superano quelli che si manifestano nel campo della politica, perché non urtano negli ostacoli frapposti da una violenza arbitraria. Un onorevole veterano, il professore Teodoro Heinsius, che, come il defunto professore Krug ha conservato fino nella più tarda età le forze e lo zelo, cerca adesso di rinfocolare con un piccolo scritto l’interesse per questo problema. Egli lo intitola: «Concordato fra scuola e vita, ossia conciliazione dell’Umanismo e del Realismo, considerati dal punto di vista nazionale. Berlino, 1842». Due partiti lottano per la vittoria, e ciascuno vuole raccomandarci il suo principio educativo a noi come il migliore e più giusto per i nostri bisogni: gli umanisti e i realisti. Senza volersi guastare con gli uni o con gli altri, Heinsius parla nell’opuscolo con ogni dolcezza e spirito conciliativo, crede di far esporre da ciascuno le proprie ragioni e con ciò fa alla questione stessa il più grave torto, perché questa può essere servita soltanto con una tagliente decisione. Questo peccato contro lo spirito della questione rimane l’inseparabile eredità di tutti i morbidi mediatori. I concordati offrono soltanto un pigro mezzo d’uscita:
«Diciamo chiaramente, da uomo: pro o contro! E il motto d’ordine sia: schiavo o libero! Perfino gli Dei scendevano dall’Olimpo e combattevano nell’arena del partito».
Heinsius, prima di esporre le sue proposte, abbozza un breve schizzo dello sviluppo storico dalla Riforma in poi. Il periodo fra la Riforma e la Rivoluzione è (io voglio qui limitarmi ad affermare questo, senza motivarlo, perché penso di spiegarlo più dettagliatamente in altra occasione) il periodo dei rapporti fra maggiorenni e minorenni, fra dominanti e asserviti, fra potenti e impotenti, in breve, il periodo della sudditanza. Prescindendo da ogni altro motivo che potesse giustificare una superiorità, la cultura sollevò, come una forza, colui che la possedette, al di sopra degli impotenti cui la cultura mancava, e l’uomo colto ebbe nel suo ambiente (fosse questo grande o piccolo) il valore di un uomo potente, forte, imponentesi; perché egli fu un’autorità. Non tutti poterono essere chiamati a questa dominazione e autorità; quindi anche la cultura non fu, per tutti, e una cultura universale fu in contraddizione con quel principio. La cultura genera superiorità e fa diventare padroni: così in quell’epoca di padroni fu un mezzo per giungere alla dominazione. Soltanto la rivoluzione spezzò il regime dei padroni e dei servi, e allora entrò nella vita il principio che ciascuno è il padrone di sé stesso. A ciò si annodò la necessaria conseguenza che la cultura, la quale rende padroni, dovesse d’allora in poi diventare universale, si pose da sé il compito di trovare la vera cultura universale. L’impulso verso una cultura universale, accessibile a tutti, dovette avvicinarsi a una lotta contro la cultura che ostinatamente si pretendeva esclusiva, e la rivoluzione dovette sguainare la spada anche in questo campo contro l’aristocrazia del periodo della Riforma. La nozione della cultura generale urtò contro quella della cultura esclusiva, e con diverse vicende e sotto ogni genere di nomi la guerra e la battaglia si trascinarono fino ai nostri giorni. Per gli avversari che stanno in campi nemici, Heinsius sceglie i nomi di Umanismo e Realismo, e noi li vogliamo conservare come i più comuni, per quanto siano poco appropriati.
Fin quando, nel secolo XVIII, il razionalismo cominciò a diffondere la sua luce, la cosiddetta alta cultura rimase, senza che alcuno protestasse, nelle radici degli umanisti e riposò quasi unicamente sulla conoscenza dei vecchi classici. Accanto a quella si fece strada un’altra cultura, la quale pure cercava il proprio modello nell’antichità ed essenzialmente si fondava sopra una profonda conoscenza della Bibbia. Il fatto che in entrambi i casi si sia scelto per unica materia la miglior cultura del mondo antico, prova abbastanza quanto poco la propria vita offrisse cose notevoli e degne, e quanto eravamo ancora lontani dal poter creare con originalità nostra le forme della bellezza, e ricavare dalla nostra ragione il contenuto della verità. Dovevamo prima imparare forma e contenuto, eravamo degli allievi. E come il mondo antico per mezzo dei classici e della Bibbia comandava sopra di noi, così (e ciò si può dimostrare storicamente) la qualità di padrone o di servo costituiva completamente l’essenza di tutta la nostra azione, e unicamente con questa natura dell’epoca si spiega perché si aspirasse così serenamente a una «alta cultura» e ci si applicasse a distinguerci mediante quella del volgo. Colui che possedeva la cultura diventava, in grazia di essa, un padrone degli ignoranti. Una cultura diffusa tra il popolo sarebbe stata avversa a colui, perché di fronte al padrone istruito il popolo doveva rimanere nel ceto plebeo e soltanto venerare e ammirare la signoria di persona a lui estranea. Così fra i dotti continuò il romanesimo, e i sostegni di questo sono il latino e il greco. Inoltre non poteva non accadere che questa cultura restasse generalmente formale, sia perché dell’antichità morta e da lungo tempo sepolta soltanto le forme, quasi gli schemi, della letteratura e dell’Arte erano in grado di conservarsi, sia soprattutto perché la dominazione sopra uomini può soltanto venir acquistata e mantenuta per mezzo di una sopraffazione formale: c’era bisogno soltanto di un certo grado di abilità intellettuale per esercitare una superiorità sopra le persone incolte. Perciò la cosiddetta alta cultura era una cultura «elegante», un «senso di tutte le eleganze», una cultura del gusto e del senso della forma, che minacciava di fiorire in una decadenza grammaticale, e profumava talmente la stessa lingua tedesca con l’olezzo del Lazio, che ancor oggi per esempio nella pur ora comparsa «Storia dello Stato brandeburgico-prussiano, libro per tutti, di Zimmermann» si ha occasione di ammirare le più belle costruzioni grammaticali latine.
Frattanto si svolgeva a poco a poco dal razionalismo uno spirito di avversione a questo formalismo, e al riconoscimento degli universali e inalienabili diritti dell’uomo si accompagnò la richiesta di un’istruzione che comprendesse tutti, che fosse umana. La mancanza di una dottrina reale e connessa con la vita era evidente nei procedimenti fino allora seguiti dagli umanisti e generò l’esigenza di una istruzione pratica. In avvenire ogni scienza doveva diventare vita, la scienza doveva essere vissuta; perché precisamente la realtà del sapere è il perfezionamento del sapere stesso. Se si riusciva a introdurre nella scuola la materia della vita, a offrire per mezzo di questa alcunché di utile a tutti, e appunto perciò a guadagnare tutti a questa preparazione alla vita e a rivolgerli alla scuola, non c’era più ragione d’invidiare i padroni istruiti e la loro privilegiata sapienza, e il popolo finiva di essere volgo. Eliminare il clero dei dotti e il laicato del popolo, è lo sforzo compiuto dal Realismo, e a tal fine deve superare l’Umanismo. L’appropriazione delle forme classiche dell’antichità cominciò a essere respinta, e con quella la signoria dell’autorità perdette il suo nimbo. I tempi si levarono contro il rispetto della erudizione, tramandato dall’antichità, così come in genere si levano contro ogni genere di rispetto. La prerogativa essenziale dei dotti, cioè la cultura universale, dovette diventare buona per tutti. Che cosa mai d’altro è la cultura universale (si chiedeva), se non la capacità, per esprimersi trivialmente, di «saper parlare di tutto», definita con parole gravi, la capacità di diventar padroni di ogni materia? Si vedeva che la scuola era rimasta indietro dalla vita, in quanto che non soltanto si sottraeva al popolo, ma anche nei propri alunni trascurava la cultura universale per quella esclusiva, e non si dava pensiero di spingerli a impadronirsi d’una quantità di materia che ci è urgentemente imposta dalla vita. Si pensava che la scuola deve segnare le linee fondamentali della nostra conciliazione con tutto ciò che la vita ci offre, e quindi deve curare che nessuno degli oggetti di cui dovremo un giorno occuparci ci sia completamente estraneo e fuori del dominio della nostra padronanza. Quindi si cercò col massimo zelo di prendere confidenza con le cose e i rapporti del tempo presente e si accolse una pedagogia che doveva trovare applicazione per tutti, perché soddisfaceva il bisogno comune a tutti di trovarsi nel proprio mondo e nella propria epoca. In tal modo i principii dei diritti dell’uomo guadagnarono vita e realtà nel terreno pedagogico: l’eguaglianza, perché quella cultura comprendeva tutti, e la libertà, perché l’uomo istruito in ciò che gli abbisogna diventava con ciò indipendente e bastava a sé stesso.
Però il comprendere il passato, come l’Umanismo insegna a fare, e l’abbracciare il presente, come vuol fare il Realismo, conduce l’uno e l’altro a dominare le cose temporali. Unicamente quello spirito è eterno, che intende sé stesso. Quindi anche eguaglianza e libertà ricevettero soltanto un’esistenza subordinata. Si poteva bensì diventare eguali ad altri ed emanciparsi dall’autorità di altri; ma in quel principio si poteva appena riconoscere una vaga idea dell’eguaglianza con sé stesso, della pacificazione e conciliazione della nostra personalità temporale con l’eterna, della trasfigurazione della nostra natura in spiritualità, in breve dell’unità e onnipotenza del nostro Io, il quale basta a sé medesimo perché non lascia sussistere nulla di estraneo a lui. E la libertà apparve bensì come indipendenza da autorità, ma era ancora vuota di un diritto a disporre di sé stessi e non forniva ancora azioni di un uomo libero in sé, auto-manifestazioni di uno spirito senza riguardo, cioè salvo dalle fluttuazioni della riflessione. L’uomo avente una cultura formale, certamente, non doveva più spiccare sul livello della cultura generale, e da «uomo di alta cultura» si trasformava in uomo di «cultura speciale» (e come tale, naturalmente, conserva il suo incontestato valore, perché ogni cultura generale è destinata a irradiarsi nelle più diverse specialità di una cultura particolare); ma l’uomo istruito nel senso del Realismo non usciva dalla uguaglianza con altri e dalla libertà degli altri, non superava il cosiddetto «uomo pratico». Realmente, la vuota eleganza dell’umanità, del «Dandy», non poteva sfuggire alla rovina, ma il vincitore brillava del verderame della materialità e non era nulla di più elevato che un industriale senza gusto. Dandismo e Umanismo lottano per far bottino di ragazzi e di ragazze dilette, e spesso si scambiano amabilmente le armi, cosicché il Dandy appare in un rozzo cinismo e l’industriale si mostra con biancheria pulita. È ben vero che il vivo legno dei bastoni industriali romperà le canne secche dello smidollato Dandismo; ma vivo o morto, il legno resta legno, e se la fiamma dello spirito brilla, il legno piglia fuoco.
Tuttavia, perché mai anche il Realismo, se egli (e non gli si deve negare la capacità di far questo) accoglie in sé ciò che vi è di buono nell’Umanismo, deve egualmente perire? È ben certo che il Realismo può accogliere in sé quello che nell’Umanismo vi ha di immutabile e di vero, l’educazione formale, cosa che gli viene resa sempre più agevole dal fatto che tutti gli oggetti d’insegnamento possono assumere carattere scientifico ed essere trattati razionalmente (ricordo soltanto, a titolo d’esempio, i lavori di Becker sulla grammatica tedesca), e, così nobilitandosi, può scacciare il suo avversario dalla sua balda posizione. Poiché così il Realismo come l’Umanismo partono dal presupposto che sia la funzione di ogni educazione quella di procurare all’uomo capacità, ed entrambi per esempio concordano nel ritenere che in fatto di lingua si debba abituare l’uomo a tutti gli impieghi dell’espressione, in fatto di matematica gli si debba inculcare l’uso delle dimostrazioni, ecc., e che quindi si debba tendere alla maestria nel maneggio del materiale, alla padronanza di questo; così non può non accadere che anche il Realismo finisca per riconoscere la cultura del gusto come scopo finale e metta in cima l’attività «formatrice», come già ora avviene in parte. Perché nella educazione ogni materiale dato deriva il suo valore soltanto da questo, che i bambini imparano a cominciare qualche cosa con quel materiale, a servirsene. Sia pure che, come i realisti pretendono, soltanto le cose utili e servibili restano impresse; ma l’utile deve essere unicamente cercato nel «formare», nel generalizzare, n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. CINQUE DISSERTAZIONI
  3. Indice
  4. Intro
  5. INTRODUZIONE
  6. IL FALSO PRINCIPIO DELLA NOSTRA EDUCAZIONE, OVVERO UMANISMO E REALISMO
  7. ARTE E RELIGIONE
  8. LO STATO FONDATO SULL’AMORE, CONSIDERAZIONI E PREGIUDIZIALI
  9. I MISTERI DI PARIGI, DI EUGÈNE SUE
  10. SUL LIBRO DI BRUNO BAUER: LA TROMBA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE
  11. Ringraziamenti