Il
Maestro ha detto: “Apprendere una dottrina e poi metterla in
pratica quando si presenta l’occasione giusta: non è questa una
gioia? Ricevere degli amici che vengono da lontano: non è questo un
piacere? Non risentirsi se i propri meriti non vengono apprezzati:
non è questo il distintivo di un junzi?”
Gran parte dei passi dei
Dialoghi iniziano con la dicitura “il Maestro ha detto” (
zi yue). Numerosi commentatori hanno affermato che i detti
che cominciano con tale dicitura non sarebbero elaborazioni
posteriori dei discepoli, ma dovrebbero essere stati pronunciati da
Confucio in persona. Sarebbero quindi le
ipsissima verba di Confucio. Altri invece esitano ad
accettare questa conclusione, per il fatto che prima della dinastia
Han (221 a.C – 220 d.C.) il libro dei
Dialoghi era noto con il nome di
Kongzi lunyu – cioè “I Dialoghi di Confucio” – o
semplicemente come il
Kongzi, esattamente come per il
Laozi o il
Zhuangzi. Secondo questi esegeti quindi, “il Maestro ha
detto” potrebbe anche voler dire semplicemente: “il libro del
Kongzi dice.” Questa ipotesi tuttavia lascia perplessi,
perché numerosi detti dei Dialoghi sono attribuiti espressamente a
questo o quel discepolo invece che a Confucio, pur facendo anche
quelli parte del “libro del Kongzi.”
Notare ancora che nei
Dialoghi, oltre a Confucio, ci sono soltanto due persone
che vengono chiamate col termine di rispetto di “maestro”(
zi). Si tratta di Youzi e Zengzi, due dei discepoli più
affezionati al maestro Confucio. Lo studioso taiwanese Fu Peirong
sostiene che questo dato rivela che i compilatori dei
Dialoghi furono precisamente i discepoli di Youzi e
Zengzi, e che tali discepoli usarono per questi due personaggi
appunto il titolo
zi, che era un titolo di rispetto riservato al proprio
maestro. Nei
Dialoghi vi è un passo (11: 26) in cui compare un certo
Zeng Xi, che era il padre di Zengzi, ed era stato lui stesso uno
dei primi discepoli di Confucio; ma non viene chiamato
zi (maestro), perché non era il maestro dei compilatori
dei
Dialoghi.
Il primo passo dei Dialoghi si
presenta sotto forma di domande. Sono tre domande retoriche, dove
quindi è implicita la risposta: “Naturalmente è vero! È una gioia
imparare delle dottrine nuove utili per la vita e poi applicarle
nella pratica appena (o ogni volta che) si presenta l’occasione; è
un piacere incontrare persone che vengono da lontano e che
condividono i tuoi stessi ideali e desideri; è il segno distintivo
di un junzi quello di non prendersela se gli altri non ti
valorizzano, se ti ignorano.”
Prima domanda retorica
Apprendere una dottrina e poi metterla in pratica quando si
presenta l’occasione giusta: non è questa una gioia?
La prima domanda retorica riguarda
l’imparare. I
Dialoghi di Confucio iniziano con la parola
xue (imparare), una parola che è anche il leitmotiv di
tutto il libro. Infatti i detti di Confucio – dal primo all’ultimo
- riguardano tutti l’imparare. Imparare che cosa? Non tanto delle
nozioni o delle informazioni erudite, ma imparare a vivere da
essere umano completo e realizzato, e cioè da junzi. È ormai
divenuta classica la definizione del Confucianesimo formulata da Tu
Weiming:
learning to be human. Il junzi, la persona ideale, è colui
che si dedica con impegno ad imparare come deve agire un essere
umano; e una volta imparato, è felice di applicare nella vita
quello che ha imparato, ogni volta che se ne presenta
l’occasione.
Per poter imparare, uno ha bisogno
di un maestro e di materie di studio con dei libri di testo. Ai
tempi di Confucio i testi erano i Cinque Classici (Wujing), e cioè
il Libro dei Documenti (Shujing), il Libro dei Mutamenti (Yijing),
il Libro delle Odi (Shijing), il Libro dei Riti (Sanli) e gli
Annali delle Primavere e degli Autunni (Chunqiu). Questi libri
contenevano il meglio della cultura degli antichi cinesi.
S’imparavano poi le Sei Arti: tiro con l’arco, guida dei carri,
matematica, musica, calligrafia e riti, che comprendevano il
bagaglio di conoscenze tecniche allora disponibili.
Una traccia del curriculum di
studio seguito da Confucio si scorge anche qua e là nei
Dialoghi, per esempio là dove viene riferito: “
Il Maestro ha detto: ‘
Trarre ispirazione dalle Odi; trovare una base solida nelle
norme rituali; raggiungere la pienezza di vita nella musica.”
(8:8) Confucio racchiude l’essenza dei trecentocinque componimenti
del Libro delle Odi in una frase: “
Non avere pensieri malvagi.” (
Dialoghi, 2: 2) Ai riti o norme rituali, o meglio “Li”,
abbiamo già accennato nell’introduzione, e sottolineato quanto sia
importante il concetto. Quanto ai riti e alla musica, Confucio
mette bene in chiaro che sia i riti che la musica non si limitano
affatto ai dettagli e conoscenze tecniche: “
Il Maestro ha detto: ‘Un uomo privo di benevolenza che
relazione può avere con le norme rituali? Un uomo privo di
benevolenza che relazione può avere con la musica?’” (
Dialoghi, 3: 3)
Chi ha imparato molto, è diventato
una persona colta. Per Confucio non è “colto” chi ha tante lauree,
ma chi “
dà più valore alla virtù che non alla bellezza esteriore;
dedica tutte le sue energie a servire il padre e la madre; è
disposto a sacrificare la sua vita per il suo sovrano; è leale con
gli amici.” (
Dialoghi, 1: 7)
Uno che aveva la passione per
l’imparare era Yan Hui, il discepolo prediletto da Confucio: “
Yan Hui aveva amore per l’imparare: non riversava sugli altri
le proprie frustrazioni; non commetteva mai due volte lo stesso
errore. Purtroppo è morto giovane. Oggi non v’è nessun altro
discepolo che abbia tanto amore per l’imparare quanto lui.” (
Dialoghi, 6: 3)
Un altro elenco delle cose
meritevoli di essere imparate è questo: “
Ascoltare molto, essere cauto nelle cose dubbie, parlare con
cautela delle cose di cui non si è competenti;... guardare molto,
stare attenti dove sembra ci siano dei pericoli, agire con cautela
in qualunque caso. Così non si avrà alcun rimorso....” (
Dialoghi, 2: 18)
In un altro luogo Confucio descrive
chi è l’uomo che ama imparare:
“Il junzi
è uno che mangia senza rimpinzarsi lo stomaco; che cerca
un’abitazione senza pretendere tutti gli agi; che è diligente nel
suo lavoro e prudente nel parlare; che cerca la compagnia delle
persone virtuose per correggere se stesso.” (
Dialoghi, 1: 14)
“
Mettere in pratica quando si presenta l’occasione giusta.”
La maggior parte dei traduttori, seguendo Zhu Xi, traduce questa
frase in modo diverso, e cioè con “praticare spesso” oppure
“praticare costantemente.” La questione sta in un avverbio di
tempo, il termine “
shi” usato come avverbio, che ai tempi di Zhu Xi
significava “spesso”, o “continuamente”; ma numerosi commentatori
recenti hanno fatto notare che nei tempi antichi (cioè “Pre-Qin”,
ossia prima del grande rivolgimento politico causato
dall’unificazione della Cina ad opera della dinastia Qin nel 221
a.C) questo avverbio non significava “spesso”, ma significava “al
momento opportuno.”
In secoli recenti, la difficoltà
nell’interpretazione dell’avverbio
shi aveva spinto gli esegeti verso altre interpretazioni,
ora superate. Ad esempio,
shi lo si leggeva in funzione dell’età: cioè che
l’apprendimento andrebbe organizzato in base all’età degli allievi.
Tradizionalmente in Cina i bambini a sei anni cominciavano ad
imparare i caratteri; a sette-otto anni imparavano le norme rituali
più importanti; a dieci anni imparavano il calcolo; a tredici anni
la poesia, il canto e la danza.
Un’altra interpretazione vedeva
questo
shi nel significato di stagione, dato che nella Cina
tradizionale, fatta di villaggi contadini, l’imparare era regolato
dalle stagioni: in primavera ed estate la gioventù imparava poesia,
canto e danza; in autunno e inverno invece imparava la scrittura, i
riti e il tiro con l’arco.
È evidente comunque che nella mente
di Confucio l’imparare ha sempre uno scopo pratico: s’impara al
fine di praticare quanto imparato. Questo s’intravvede anche in
certi detti, come ad esempio in uno dei primi passi dei
Dialoghi, là dove Zengzi confessa di fare ogni giorno
l’esame di coscienza, e la prima cosa su cui si esamina è proprio
questa: “
Ogni giorno mi esamino se ho praticato quanto mi è stato
insegnato.” (
Dialoghi, 1: 4)
Quanto al metodo di apprendimento,
esso ovviamente comprende l’ascolto, la lettura di libri e la
memorizzazione; ma particolarmente importante è la riflessione.
Confucio la mette in debito rilievo:
“Studiare senza riflettere è futile; pensare senza studiare è
pericoloso.” (
Dialoghi, 2: 15). Senza la riflessione, non è possibile
interiorizzare e far proprio quanto si è imparato. Come velocemente
era entrato, altrettanto velocemente sparirà. Avviene come per
quegli studenti che studiano per gli esami: il giorno dopo l’esame,
tutto viene dimenticato.
Seconda domanda retorica
“
Quando degli amici vengono da lontano a trovarti e a parlare
con te, non è un piacere conversare con loro?” Confucio
ovviamente crede che gli esseri umani hanno tutti la stessa mente e
gli stessi sentimenti e pensieri, per cui viene facile scambiarsi
informazioni preziose circa l’apprendimento. Per diventare un
piacere, la conversazione dovrebbe svolgersi fra amici, cioè fra
persone che condividono gli stessi ideali nella vita (nel caso di
Confucio, l’ideale di perseguire la benevolenza
ren).
Nel cinese moderno la parola
pengyou significa amico. I glottologi c’insegnano che è un
composto di “peng” e “you”, due parole che nel cinese antico
significavano rispettivamente “discepolo dello stesso maestro” (
peng) e “persona che ha i miei stessi ideali” (persona che
nel cinese moderno si dice
tongzhi). Il testo dei
Dialoghi qui usa la parola
peng. Viene da domandarsi: qui Confucio sta parlando
dell’arrivo di compagni di classe (una
class reunion) oppure la parola
peng comprende entrambi i significati? Non lo sappiamo. È
bello pensare che qui
peng significhi una persona che condivide gli stessi
ideali, perché effettivamente è un grande piacere quando s’incontra
una persona, magari proveniente da lontano, e si scopre che su
certe cose importanti la pensa come noi.
Terza domanda retorica
La terza domanda retorica (
Non risentirsi se i propri meriti non vengono apprezzati
...) addita una caratteristica peculiare del junzi, cioè che è uno
che non s‘inquieta, non s’arrabbia, non si rode se gli altri non lo
apprezzano o lo ignorano. Una persona che, pur essendo qualificata
(cioè ha imparato le cose), rimane incompresa e sottovalutata dagli
altri, eppure non si agita, non si arrabbia, dimostra di essere un
vero junzi. Raggiungere un tale traguardo è senza dubbio una cosa
piuttosto impegnativa. Chi riesce a tenersi al di sopra delle lodi
o critiche altrui ha raggiunto un livello di maturità psicologica e
morale non da poco.
Questa caratteristica distintiva
del junzi doveva stare abbastanza a cuore a Confucio, perché nei
Dialoghi è un tema ricorrente:
Il Maestro ha detto: “Non preoccuparti se gli altri non
riconoscono i tuoi talenti (o i tuoi meriti). Preoccupati piuttosto
se non riconosci i loro. (
Dialoghi, 1: 16)
E ancora:
Il Maestro ha detto: “Non preoccupatevi se non avete una
posizione, preoccupatevi invece se non meritate una posizione. Non
preoccupatevi se non siete famosi; preoccupatevi invece se non
meritate di essere famosi.” (
Dialoghi, 4: 14)
E poi ancora:
Il junzi si rammarica di non essere competente; non si
rammarica di non essere conosciuto.(
Dialoghi, 15: 19)
Il primo detto dei
Dialoghi, strutturato in tre domande retoriche, gira
attorno a tre sentimenti: gioia (
yue), piacere (ancora
yue, ma un diverso carattere) e infine
yun, che significa rabbia, indignazione. I commentatori
puntualizzano che, sebbene i traduttori a volte traducano con lo
stesso termine
gioia, i primi due termini esprimono due cose diverse: il
primo indica una gioia intima, una soddisfazione interiore; il
secondo una gioia mostrata all’esterno, cioè l’allegria euforica
che dimostri quando ti arriva un amico da lontano, uno che non
vedevi da lungo tempo. Riguardo alla rabbia nel vedersi incompresi
o non apprezzati, c’è da ricordare che è un insegnamento comune nel
Confucianesimo che una persona dovrebbe rimanere calma e pacifica
anche quando incontra incomprensione o disprezzo. Questo
insegnamento si basa sul concetto di
ming (destino, o meglio “volere del Cielo”). È il Cielo
che decide se uno nella sua vita andrà incontro al successo o al
fallimento. Serenità di fronte a quanto ci tocca nella vita è un
concetto ribadito anche da Mencio là dove afferma: “uno quando
viene chiamato a servire lo stato, si mette a servire; quando viene
messo da parte, pratica i suoi ideali in privato…” (Mencio, 3B,2).
La terza domanda retorica parla
dunque di tre sentimenti, e quindi porta in campo l’argomento dei
sentimenti/emozioni. I
Dialoghi di Confucio riportano con notevole frequenza dei
sentimenti. Questo mette in rilievo una cosa, e cioè che per il
Confucianesimo i sentimenti non sono una cosa negativa, e tanto
meno sono un tabù. Sono reazioni naturali di ogni persona e
Confucio vuole che i suoi discepoli imparino non a reprimere, ma a
governare i loro sentimenti (in cinese:
qingxu guanli) in modo da riuscire a raggiungere sempre il
giusto equilibrio dei propri sentimenti e reazioni emotive (in
cinese:
fa er zhongjie).
Perché questo detto è stato scelto
come primo di tutto il libro? Non pochi commentatori se lo sono
domandato. Le risposte variano, da chi sostiene che la cosa sarebbe
puramente casuale (così la pensa il filosofo contemporaneo Li
Zehou), a chi ci vede un motivo ovvio nella tematica dei
Dialoghi. Secondo questi, il detto starebbe bene
all’inizio di un libro che parla interamente di come e perchè gli
esseri umani devono dedicarsi all’imparare, da intendersi come
”coltivazione morale”, e che vuole quindi fissare il leitmotiv
dell’opera, che ritorna ovviamente nelle tre frasi lapidarie del
finale, centrate sul “conoscere.” (Cf.
Dialoghi, 20: 3)