Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio
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Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio

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È un’abitudine inveterata dei cinesi di dividere le persone in due categorie: i junzi (galantuomini, persone per bene, gente che ha il senso della giustizia, uomini nobili di animo) e i xiaoren (uomini dappoco, uomini meschini, che guardano solo al profitto personale e mai al bene comune). Anche quest’abitudine è un’eredità di Confucio, che ha trasformato il significato dei due appellativi.
Il termine junzi - giapponese kunshi, coreano kwunca, vietnamita quân t? - esisteva già prima di Confucio, e aveva un significato semplicemente di indicazione dello stato sociale di una persona. Come indicazione dello stato sociale, junzi significava figlio (zi) di un signore feudale (jun) o di un aristocratico, e quindi un membro della classe nobile che in quel regime governava.
La società dei tempi di Confucio era suddivisa in due classi: i junzi (gli aristocratici) e i xiaoren (la gente comune, il popolino).
Il significato originale affiora ancora occasionalmente nei Dialoghi, come a suo luogo faremo notare. Ma nella maggior parte dei casi il termine viene usato con un altro significato. È stato trasformato da Confucio in una qualifica morale: da “figlio di un signore feudale (o di un aristocratico)” a “ persona che ha le qualità ideali di un signore feudale o di un aristocratico.”
Da una qualifica sociale (“uomo nobile di sangue”) a una qualifica etica (“uomo nobile di animo”).
Il junzi è l’essere umano ideale secondo Confucio.
E naturalmente il suo opposto, il xiaoren, non significa allora (nella gran parte dei casi) persona del popolino, ma uomo meschino, uomo egoista, che non sa vedere più in là del proprio piccolo interesse personale. Come vedremo, il junzi di Confucio non è una condizione ereditaria; è un ideale di vita, un traguardo da conquistare, al quale ovviamente può aspirare qualsiasi persona, non solo chi appartiene alla classe nobile.
Le descrizioni della personalità del junzi, o del suo contrario il xiaoren, che Confucio ci offre sono di fatto delle definizioni da parte sua dell’essere umano ideale, di come secondo lui un essere umano degno di questo nome “dovrebbe” o “non dovrebbe” comportarsi. Umberto Bresciani, nativo di Cremona, ha conseguito il dottorato in Lettere cinesi alla National Taiwan University di Taipei, Taiwan. Attualmente è docente presso l’Università Cattolica Fujen di Taipei. Esperto dei temi attinenti al dialogo religioso e culturale con il mondo cinese, ha pubblicato, in particolare, ReinventingConfucianism. The New Confucian Movement (2001), tradotto in italiano come La filosofia cinese nel ventesimo secolo. I nuovi Confuciani (2009). Per Passerino Editore ha pubblicato Il primo principio della filosofia confuciana (ebook, 2014); WangYangming: An Essential Biography (ebook, 2016).

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9788835852902

Dialoghi, 1: 1

Il Maestro ha detto: “Apprendere una dottrina e poi metterla in pratica quando si presenta l’occasione giusta: non è questa una gioia? Ricevere degli amici che vengono da lontano: non è questo un piacere? Non risentirsi se i propri meriti non vengono apprezzati: non è questo il distintivo di un junzi?”

Gran parte dei passi dei Dialoghi iniziano con la dicitura “il Maestro ha detto” ( zi yue). Numerosi commentatori hanno affermato che i detti che cominciano con tale dicitura non sarebbero elaborazioni posteriori dei discepoli, ma dovrebbero essere stati pronunciati da Confucio in persona. Sarebbero quindi le ipsissima verba di Confucio. Altri invece esitano ad accettare questa conclusione, per il fatto che prima della dinastia Han (221 a.C – 220 d.C.) il libro dei Dialoghi era noto con il nome di Kongzi lunyu – cioè “I Dialoghi di Confucio” – o semplicemente come il Kongzi, esattamente come per il Laozi o il Zhuangzi. Secondo questi esegeti quindi, “il Maestro ha detto” potrebbe anche voler dire semplicemente: “il libro del Kongzi dice.” Questa ipotesi tuttavia lascia perplessi, perché numerosi detti dei Dialoghi sono attribuiti espressamente a questo o quel discepolo invece che a Confucio, pur facendo anche quelli parte del “libro del Kongzi.”

Notare ancora che nei Dialoghi, oltre a Confucio, ci sono soltanto due persone che vengono chiamate col termine di rispetto di “maestro”( zi). Si tratta di Youzi e Zengzi, due dei discepoli più affezionati al maestro Confucio. Lo studioso taiwanese Fu Peirong sostiene che questo dato rivela che i compilatori dei Dialoghi furono precisamente i discepoli di Youzi e Zengzi, e che tali discepoli usarono per questi due personaggi appunto il titolo zi, che era un titolo di rispetto riservato al proprio maestro. Nei Dialoghi vi è un passo (11: 26) in cui compare un certo Zeng Xi, che era il padre di Zengzi, ed era stato lui stesso uno dei primi discepoli di Confucio; ma non viene chiamato zi (maestro), perché non era il maestro dei compilatori dei Dialoghi.

Il primo passo dei Dialoghi si presenta sotto forma di domande. Sono tre domande retoriche, dove quindi è implicita la risposta: “Naturalmente è vero! È una gioia imparare delle dottrine nuove utili per la vita e poi applicarle nella pratica appena (o ogni volta che) si presenta l’occasione; è un piacere incontrare persone che vengono da lontano e che condividono i tuoi stessi ideali e desideri; è il segno distintivo di un junzi quello di non prendersela se gli altri non ti valorizzano, se ti ignorano.”

Prima domanda retorica
Apprendere una dottrina e poi metterla in pratica quando si presenta l’occasione giusta: non è questa una gioia?
La prima domanda retorica riguarda l’imparare. I Dialoghi di Confucio iniziano con la parola xue (imparare), una parola che è anche il leitmotiv di tutto il libro. Infatti i detti di Confucio – dal primo all’ultimo - riguardano tutti l’imparare. Imparare che cosa? Non tanto delle nozioni o delle informazioni erudite, ma imparare a vivere da essere umano completo e realizzato, e cioè da junzi. È ormai divenuta classica la definizione del Confucianesimo formulata da Tu Weiming: learning to be human. Il junzi, la persona ideale, è colui che si dedica con impegno ad imparare come deve agire un essere umano; e una volta imparato, è felice di applicare nella vita quello che ha imparato, ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Per poter imparare, uno ha bisogno di un maestro e di materie di studio con dei libri di testo. Ai tempi di Confucio i testi erano i Cinque Classici (Wujing), e cioè il Libro dei Documenti (Shujing), il Libro dei Mutamenti (Yijing), il Libro delle Odi (Shijing), il Libro dei Riti (Sanli) e gli Annali delle Primavere e degli Autunni (Chunqiu). Questi libri contenevano il meglio della cultura degli antichi cinesi. S’imparavano poi le Sei Arti: tiro con l’arco, guida dei carri, matematica, musica, calligrafia e riti, che comprendevano il bagaglio di conoscenze tecniche allora disponibili.
Una traccia del curriculum di studio seguito da Confucio si scorge anche qua e là nei Dialoghi, per esempio là dove viene riferito: “ Il Maestro ha detto: Trarre ispirazione dalle Odi; trovare una base solida nelle norme rituali; raggiungere la pienezza di vita nella musica.” (8:8) Confucio racchiude l’essenza dei trecentocinque componimenti del Libro delle Odi in una frase: “ Non avere pensieri malvagi.” ( Dialoghi, 2: 2) Ai riti o norme rituali, o meglio “Li”, abbiamo già accennato nell’introduzione, e sottolineato quanto sia importante il concetto. Quanto ai riti e alla musica, Confucio mette bene in chiaro che sia i riti che la musica non si limitano affatto ai dettagli e conoscenze tecniche: “ Il Maestro ha detto: ‘Un uomo privo di benevolenza che relazione può avere con le norme rituali? Un uomo privo di benevolenza che relazione può avere con la musica?’” ( Dialoghi, 3: 3)
Chi ha imparato molto, è diventato una persona colta. Per Confucio non è “colto” chi ha tante lauree, ma chi “ dà più valore alla virtù che non alla bellezza esteriore; dedica tutte le sue energie a servire il padre e la madre; è disposto a sacrificare la sua vita per il suo sovrano; è leale con gli amici.” ( Dialoghi, 1: 7)
Uno che aveva la passione per l’imparare era Yan Hui, il discepolo prediletto da Confucio: “ Yan Hui aveva amore per l’imparare: non riversava sugli altri le proprie frustrazioni; non commetteva mai due volte lo stesso errore. Purtroppo è morto giovane. Oggi non v’è nessun altro discepolo che abbia tanto amore per l’imparare quanto lui.” ( Dialoghi, 6: 3)
Un altro elenco delle cose meritevoli di essere imparate è questo: “ Ascoltare molto, essere cauto nelle cose dubbie, parlare con cautela delle cose di cui non si è competenti;... guardare molto, stare attenti dove sembra ci siano dei pericoli, agire con cautela in qualunque caso. Così non si avrà alcun rimorso....” ( Dialoghi, 2: 18)
In un altro luogo Confucio descrive chi è l’uomo che ama imparare: “Il junzi è uno che mangia senza rimpinzarsi lo stomaco; che cerca un’abitazione senza pretendere tutti gli agi; che è diligente nel suo lavoro e prudente nel parlare; che cerca la compagnia delle persone virtuose per correggere se stesso.” ( Dialoghi, 1: 14)

Mettere in pratica quando si presenta l’occasione giusta.” La maggior parte dei traduttori, seguendo Zhu Xi, traduce questa frase in modo diverso, e cioè con “praticare spesso” oppure “praticare costantemente.” La questione sta in un avverbio di tempo, il termine “ shi” usato come avverbio, che ai tempi di Zhu Xi significava “spesso”, o “continuamente”; ma numerosi commentatori recenti hanno fatto notare che nei tempi antichi (cioè “Pre-Qin”, ossia prima del grande rivolgimento politico causato dall’unificazione della Cina ad opera della dinastia Qin nel 221 a.C) questo avverbio non significava “spesso”, ma significava “al momento opportuno.”
In secoli recenti, la difficoltà nell’interpretazione dell’avverbio shi aveva spinto gli esegeti verso altre interpretazioni, ora superate. Ad esempio, shi lo si leggeva in funzione dell’età: cioè che l’apprendimento andrebbe organizzato in base all’età degli allievi. Tradizionalmente in Cina i bambini a sei anni cominciavano ad imparare i caratteri; a sette-otto anni imparavano le norme rituali più importanti; a dieci anni imparavano il calcolo; a tredici anni la poesia, il canto e la danza.
Un’altra interpretazione vedeva questo shi nel significato di stagione, dato che nella Cina tradizionale, fatta di villaggi contadini, l’imparare era regolato dalle stagioni: in primavera ed estate la gioventù imparava poesia, canto e danza; in autunno e inverno invece imparava la scrittura, i riti e il tiro con l’arco.
È evidente comunque che nella mente di Confucio l’imparare ha sempre uno scopo pratico: s’impara al fine di praticare quanto imparato. Questo s’intravvede anche in certi detti, come ad esempio in uno dei primi passi dei Dialoghi, là dove Zengzi confessa di fare ogni giorno l’esame di coscienza, e la prima cosa su cui si esamina è proprio questa: “ Ogni giorno mi esamino se ho praticato quanto mi è stato insegnato.” ( Dialoghi, 1: 4)
Quanto al metodo di apprendimento, esso ovviamente comprende l’ascolto, la lettura di libri e la memorizzazione; ma particolarmente importante è la riflessione. Confucio la mette in debito rilievo: “Studiare senza riflettere è futile; pensare senza studiare è pericoloso.” ( Dialoghi, 2: 15). Senza la riflessione, non è possibile interiorizzare e far proprio quanto si è imparato. Come velocemente era entrato, altrettanto velocemente sparirà. Avviene come per quegli studenti che studiano per gli esami: il giorno dopo l’esame, tutto viene dimenticato.

Seconda domanda retorica
Quando degli amici vengono da lontano a trovarti e a parlare con te, non è un piacere conversare con loro?” Confucio ovviamente crede che gli esseri umani hanno tutti la stessa mente e gli stessi sentimenti e pensieri, per cui viene facile scambiarsi informazioni preziose circa l’apprendimento. Per diventare un piacere, la conversazione dovrebbe svolgersi fra amici, cioè fra persone che condividono gli stessi ideali nella vita (nel caso di Confucio, l’ideale di perseguire la benevolenza ren).
Nel cinese moderno la parola pengyou significa amico. I glottologi c’insegnano che è un composto di “peng” e “you”, due parole che nel cinese antico significavano rispettivamente “discepolo dello stesso maestro” ( peng) e “persona che ha i miei stessi ideali” (persona che nel cinese moderno si dice tongzhi). Il testo dei Dialoghi qui usa la parola peng. Viene da domandarsi: qui Confucio sta parlando dell’arrivo di compagni di classe (una class reunion) oppure la parola peng comprende entrambi i significati? Non lo sappiamo. È bello pensare che qui peng significhi una persona che condivide gli stessi ideali, perché effettivamente è un grande piacere quando s’incontra una persona, magari proveniente da lontano, e si scopre che su certe cose importanti la pensa come noi.

Terza domanda retorica
La terza domanda retorica ( Non risentirsi se i propri meriti non vengono apprezzati ...) addita una caratteristica peculiare del junzi, cioè che è uno che non s‘inquieta, non s’arrabbia, non si rode se gli altri non lo apprezzano o lo ignorano. Una persona che, pur essendo qualificata (cioè ha imparato le cose), rimane incompresa e sottovalutata dagli altri, eppure non si agita, non si arrabbia, dimostra di essere un vero junzi. Raggiungere un tale traguardo è senza dubbio una cosa piuttosto impegnativa. Chi riesce a tenersi al di sopra delle lodi o critiche altrui ha raggiunto un livello di maturità psicologica e morale non da poco.
Questa caratteristica distintiva del junzi doveva stare abbastanza a cuore a Confucio, perché nei Dialoghi è un tema ricorrente:
Il Maestro ha detto: “Non preoccuparti se gli altri non riconoscono i tuoi talenti (o i tuoi meriti). Preoccupati piuttosto se non riconosci i loro. ( Dialoghi, 1: 16)
E ancora:
Il Maestro ha detto: “Non preoccupatevi se non avete una posizione, preoccupatevi invece se non meritate una posizione. Non preoccupatevi se non siete famosi; preoccupatevi invece se non meritate di essere famosi.” ( Dialoghi, 4: 14)
E poi ancora:
Il junzi si rammarica di non essere competente; non si rammarica di non essere conosciuto.( Dialoghi, 15: 19)

Il primo detto dei Dialoghi, strutturato in tre domande retoriche, gira attorno a tre sentimenti: gioia ( yue), piacere (ancora yue, ma un diverso carattere) e infine yun, che significa rabbia, indignazione. I commentatori puntualizzano che, sebbene i traduttori a volte traducano con lo stesso termine gioia, i primi due termini esprimono due cose diverse: il primo indica una gioia intima, una soddisfazione interiore; il secondo una gioia mostrata all’esterno, cioè l’allegria euforica che dimostri quando ti arriva un amico da lontano, uno che non vedevi da lungo tempo. Riguardo alla rabbia nel vedersi incompresi o non apprezzati, c’è da ricordare che è un insegnamento comune nel Confucianesimo che una persona dovrebbe rimanere calma e pacifica anche quando incontra incomprensione o disprezzo. Questo insegnamento si basa sul concetto di ming (destino, o meglio “volere del Cielo”). È il Cielo che decide se uno nella sua vita andrà incontro al successo o al fallimento. Serenità di fronte a quanto ci tocca nella vita è un concetto ribadito anche da Mencio là dove afferma: “uno quando viene chiamato a servire lo stato, si mette a servire; quando viene messo da parte, pratica i suoi ideali in privato…” (Mencio, 3B,2).
La terza domanda retorica parla dunque di tre sentimenti, e quindi porta in campo l’argomento dei sentimenti/emozioni. I Dialoghi di Confucio riportano con notevole frequenza dei sentimenti. Questo mette in rilievo una cosa, e cioè che per il Confucianesimo i sentimenti non sono una cosa negativa, e tanto meno sono un tabù. Sono reazioni naturali di ogni persona e Confucio vuole che i suoi discepoli imparino non a reprimere, ma a governare i loro sentimenti (in cinese: qingxu guanli) in modo da riuscire a raggiungere sempre il giusto equilibrio dei propri sentimenti e reazioni emotive (in cinese: fa er zhongjie).
Perché questo detto è stato scelto come primo di tutto il libro? Non pochi commentatori se lo sono domandato. Le risposte variano, da chi sostiene che la cosa sarebbe puramente casuale (così la pensa il filosofo contemporaneo Li Zehou), a chi ci vede un motivo ovvio nella tematica dei Dialoghi. Secondo questi, il detto starebbe bene all’inizio di un libro che parla interamente di come e perchè gli esseri umani devono dedicarsi all’imparare, da intendersi come ”coltivazione morale”, e che vuole quindi fissare il leitmotiv dell’opera, che ritorna ovviamente nelle tre frasi lapidarie del finale, centrate sul “conoscere.” (Cf. Dialoghi, 20: 3)

Dialoghi, 1: 2

Il maestro You ha detto: “Coloro che rispettano i genitori e i fratelli maggiori è raro che sfidino i superiori. Uno che non è incline a sfidare i superiori non fomenterà mai una ribellione. Il junzi s’impegna con la radice. Una volta che la radice è ben piantata, la Via crescerà. Non è vero che rispettare i genitori e gli anziani è la radice della benevolenza?”

Il detto viene attribuito al “maestro You” - cioè You Ruo, soprannominato Ziyou o Youzi, nato intorno al 508 a.C. - uno dei più affezionati discepoli di Confucio nella fase della sua vecchiaia (c’era una quarantina d’anni di differenza fra lui e Confucio). La frase iniziale “ il maestro You ha detto” fa capire che lo stesore di questo detto era ovviamente un discepolo di Ziyou. Come già accennato, secondo un’opinione abbastanza diffusa sarebbero stati i discepoli di Ziyou e i discepoli di Zengzi a mettere insieme la raccolta di detti nota come i Dialoghi.
Anche se i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione
  5. Il Termine Junzi
  6. Retroscena storico
  7. Breve Sintesi del Concetto di Junzi
  8. Dialoghi, 1: 1
  9. Dialoghi, 1: 2
  10. Dialoghi, 1: 8
  11. Dialoghi, 1: 14
  12. Dialoghi, 2: 12
  13. Dialoghi, 2: 13
  14. Dialoghi, 2: 14
  15. Dialoghi, 3: 7
  16. Dialoghi, 3: 24
  17. Dialoghi, 4: 5
  18. Dialoghi, 4: 10
  19. Dialoghi, 4: 11
  20. Dialoghi, 4: 16
  21. Dialoghi, 4: 24
  22. Dialoghi, 5: 3
  23. Dialoghi, 5: 16
  24. Dialoghi, 6: 4
  25. Dialoghi, 6: 11
  26. Dialoghi, 6: 18
  27. Dialoghi, 6: 26
  28. Dialoghi, 6: 27
  29. Dialoghi, 7: 26
  30. Dialoghi, 7: 31
  31. Dialoghi, 7: 33
  32. Dialoghi, 7: 37
  33. Dialoghi, 8: 2
  34. Dialoghi, 8: 4
  35. Dialoghi, 8: 6
  36. Dialoghi, 9: 6
  37. Dialoghi, 9: 14
  38. Dialoghi, 10: 6
  39. Dialoghi, 11: 1
  40. Dialoghi, 11: 20
  41. Dialoghi, 11: 26
  42. Dialoghi, 12: 4
  43. Dialoghi, 12: 5
  44. Dialoghi, 12: 8
  45. Dialoghi, 12: 16
  46. Dialoghi, 12: 19
  47. Dialoghi, 12: 24
  48. Dialoghi, 13: 3
  49. Dialoghi, 13: 23
  50. Dialoghi, 13: 25
  51. Dialoghi, 13: 26
  52. Dialoghi, 14: 5
  53. Dialoghi, 14: 6
  54. Dialoghi, 14: 23
  55. Dialoghi, 14: 26
  56. Dialoghi, 14: 27
  57. Dialoghi, 14: 28
  58. Dialoghi, 14: 42
  59. Dialoghi, 15: 2
  60. Dialoghi, 15: 7
  61. Dialoghi, 15: 18
  62. Dialoghi, 15: 19
  63. Dialoghi, 15: 20
  64. Dialoghi, 15: 21
  65. Dialoghi, 15: 22
  66. Dialoghi, 15: 23
  67. Dialoghi, 15: 32
  68. Dialoghi, 15: 34
  69. Dialoghi, 15: 37
  70. Dialoghi, 16: 1
  71. Dialoghi, 16: 6
  72. Dialoghi, 16: 7
  73. Dialoghi, 16: 8
  74. Dialoghi, 16: 10
  75. Dialoghi, 16: 13
  76. Dialoghi, 17: 4
  77. Dialoghi, 17: 7
  78. Dialoghi, 17: 21
  79. Dialoghi, 17: 23
  80. Dialoghi, 17: 24
  81. Dialoghi, 18: 7
  82. Dialoghi, 18: 10
  83. Dialoghi, 19: 3
  84. Dialoghi, 19: 4
  85. Dialoghi, 19: 7
  86. Dialoghi, 19: 9
  87. Dialoghi, 19: 10
  88. Dialoghi, 19: 12
  89. Dialoghi, 19: 20
  90. Dialoghi, 19: 21
  91. Dialoghi, 19: 25
  92. Dialoghi, 20: 2
  93. Dialoghi, 20: 3
  94. ​Glossario delle Parole Cinesi