La scuola dell'odio
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La scuola dell'odio

Sette anni nelle prigioni israeliane

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La scuola dell'odio

Sette anni nelle prigioni israeliane

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Militante ticinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Bruno Breguet ha appena vent'anni quando, nel 1970, viene arrestato ad Haifa dalle autorità israeliane. Accusato di svolgere attività terroristica per conto del Fronte, Breguet viene percosso e torturato a lungo prima di essere trasferito nel carcere di Ramleh dove, per ben sette anni, rimarrà a disposizione dei suoi aguzzini, che riservano ai prigionieri politici i trattamenti più duri senza riuscire ad avere la meglio sulla determinazione con cui i militanti riescono a lottare perfino dietro le sbarre di una cella di sicurezza. Nella prigione, Breguet continuerà la sua battaglia antisionista, rifiutando di scendere a patti con i servizi segreti e, in seguito, organizzando sommosse, preparando piani di evasione e tentando sempre e comunque di comprendere, attraverso lo studio, la natura dei mostri generati da una società divisa in classi nel contesto della guerra di conquista condotta ai danni della Palestina dall'imperialismo israeliano.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788867182077
Argomento
Storia

Ramleh

1.

Quando giunsi a Ramleh fui separato dagli altri e chiuso da solo in una cella. Dopo avermi accuratamente perquisito e avermi spinto fuori dal locale, mi tolsero le manette e i ferri ai piedi e mi condussero lungo una serie di corridoi a cielo aperto. Attraversate diverse porte di ferro e corridoi deserti giungemmo in un piccolo locale al pianterreno, dove c’era un grande tavolo, come una cattedra su un podio di legno. Fui consegnato a due guardie assegnate al settore. Uno dei due si chiamava Asis e parlava francese. Mi disse subito che ero fortunato di trovarmi in quel settore del carcere e non in quello degli arabi. Perché, soggiunse, gli arabi erano molto sporchi.
Era il settore delle celle di punizione, e vi rimasi chiuso per due giorni, non so per quale motivo. Ma non sapevo ancora cosa fosse il carcere. Pensavo a quanti anni della mia vita avrei dovuto passare in queste celle. Rinchiuso 24 ore su 24 in una cella di quattro metri cubi, quanto avrei potuto resistere?
Quella notte, per la prima volta, sentii di essere senza speranza, di non avere più nulla in cui sperare. Mi sembrava umanamente impossibile trascorrere anni in un buco simile. In quei momenti di smarrimento dimenticai l’esistenza di altri prigionieri che, accanto a me, cercavano di sopravvivere. Tutto si riduceva a una lotta tra me e quella piccola cella. Per la prima volta mi sentii sconfitto, impotente davanti a un muro sporco e minaccioso. Pensai che per me era finita, finita del tutto. Quando un uomo non può più nemmeno sognare, quando la sua unica certezza è di vedersi morto-vivo, chiede una sola cosa, di non esistere, di essere finalmente inghiottito nel vuoto, un vuoto che non teme più perché divenuto familiare. L’uomo teme solo l’ignoto.
Un detenuto ebreo di origine tedesca, condannato per tre giorni nella cella di punizione accanto alla mia, mi disse che non sarei rimasto là e che, dopo il processo, mi avrebbero trasferito nella sua sezione. Nella sua sezione, aggiunse, avrei trovato celle grandi che rimanevano aperte durante il pomeriggio, una biblioteca, un cortile, una mensa. Gli chiesi se vi erano prigionieri politici. Rispose che c’erano terroristi arabi che avevano fatto saltare molte case a Haifa e incendiato una raffineria. Non volle dirmi di più, ma mi bastava. Nella prigione vi erano combattenti palestinesi! Forse membri del più famoso gruppo della resistenza palestinese operante all’interno delle frontiere dello Stato sionista.
Si trattava di una formazione clandestina della città araba di Acra, fra cui Fauzi Nimr, Yusuf Abu Al Khair, Abd Hasbus, Mohammed Grifat, Fathalla Sakka, Abu Taufiq. Un segnale in codice, trasmesso dalla radio siriana, li aveva informati che armi ed esplosivi erano stati deposti da un commando palestinese sul fondale del mare al largo di Acra, in un luogo convenuto. La notte, travestiti da pescatori (e Abd Hasbus pescatore lo era stato veramente), erano andati a recuperare il materiale. Delle operazioni condotte da questo gruppo, la più famosa era stata l’incendio della raffineria di Kishon, presso Haifa, nel ’68, un’azione che aveva provocato gravi danni. Sempre a Haifa il gruppo aveva fatto esplodere bombe negli scantinati di parecchie case, distruggendole. Fauzi lavorava come birraio e, consegnando le casse di birra, poteva facilmente introdursi nelle cantine per depositarvi l’esplosivo ad alto potenziale. All’inizio della sua attività, nel 1967, il gruppo faceva capo, per quanto riguardava armi e materiale necessario, a Mohammed Grifat, un ex sergente dell’esercito israeliano di origine beduina. Erano stati traditi dalla delazione, strappata sotto tortura, di un corriere (soprannominato al-Hajj) arrestato mentre tornava da Amman. Costui aveva rivelato un solo nome, ma l’intera famiglia di Fauzi era stata arrestata, compresa sua moglie, una ragazza ebrea. Parecchi di loro erano stati torturati davanti alle rispettive famiglie.
Per due notti fui costretto a dormire sul cemento armato, ma il fatto che nella prigione, a pochi metri da me, vi fossero compagni che avevano intrapreso azioni contro lo Stato sionista, mi dava coraggio. Dovevo solo attendere e forse un giorno ci saremmo potuti mettere in contatto.

2.

Due giorni dopo il mio arrivo nel carcere di Ramleh fui convocato dal direttore Elias. Era appena rientrato dalle vacanze trascorse in Svizzera. Dopo essersi meravigliato che uno svizzero avesse potuto compromettersi con dei banditi arabi, disse che in prigione non si faceva politica. Disse che la parola «politica» non esisteva e dovevo dimenticarla nel mio stesso interesse. Aggiunse che avrei dovuto studiare l’ebraico e, in quel momento, promisi a me stesso di non studiarlo mai.
Dopo il colloquio fui posto in cella di isolamento e trasferito nel settore XXX (pronunciato in ebraico ixim, in arabo ixat). Era forse un modo di indicare le molte incognite a cui il prigioniero andava incontro? Questo settore si trovava allora a pianterreno, nella parte più vecchia del carcere, tra gli uffici dell’amministrazione e le celle di punizione. Era diretto dallo stesso sergente che controllava il settore delle celle di punizione. Poteva ospitare fino a 23 prigionieri, ma quando vi entrai, nel luglio 1970, eravamo in sei o sette. Qui trascorsi più di cinque mesi, di cui tre in isolamento completo.
Cambiai cinque celle: passai dalla 139 alla 138, poi alla 137, alla 140 e infine alla 141. In quest’ultima rimasi più a lungo. Le ore, le giornate, i mesi passati in cella di isolamento furono i più difficili: il tempo pareva non trascorrere mai. Non avevo nulla da leggere, nulla da fare. Fumare le quattro sigarette regolamentari che mi davano ogni giorno era una gran gioia, l’unica distrazione. Io, che non avevo mai fumato, aspettavo con ansia che il sergente aprisse lo spioncino e mi passasse quelle quattro sigarette. Se ritardava, venivo assalito dalla paura di dovervi rinunciare.
Anche i pasti erano uno svago, qualcosa che rompeva la noia e mi scuoteva dall’apatia. Mangiavo tutto, lentamente, tirando in lungo così che il tempo trascorresse. Non c’era molto da mangiare e avevo sempre paura di non riceverne. Attendevo con ansia che passasse il carrello del cibo, avvertivo già in lontananza il rumore delle ruote e i passi del prigioniero che lo spingeva. Poi il suono del campanello della porta d’ingresso del settore, il tintinnio delle chiavi, il guardiano che si alzava dalla sedia facendo scricchiolare il pavimento di legno, l’introduzione e il rumore secco della chiave che girava nella serratura, ferro contro ferro, poi un grande sbattere di latte e secchi. E il carrello, lentamente spinto lungo il corridoio, per uscire dalla porta opposta a quella da cui era entrato. I momenti più duri erano attendere che la guardia, aiutata da un detenuto, distribuisse il pasto. Attendere con la paura folle di essere dimenticato, di non poter mangiare. C’era da uscirne pazzi. Poi, appena si apriva la porta della cella, accontentarsi di un intruglio indefinibile, doversi accontentare e rallegrare di poter mettere qualcosa sotto i denti. Il pane non bastava mai, dovevo sempre chiederne, e il più delle volte ne ricevevo. Mangiare una fetta di pane, lasciarla sciogliere in bocca, è un’operazione che può durare anche mezz’ora. Era l’unica attività che mi permetteva una certa concentrazione. Per tre mesi aspettai che il sergente della sezione mi portasse gli indumenti e l’asciugamano che avevo nella valigia al momento dell’arresto. Quando venni trasferito da Yagur a Ramleh, avevo soltanto ciò che indossavo.
Il grande problema era la mancanza di sapone. Nella cella, sopra il cesso turco, c’era un rubinetto, quindi avrei potuto lavarmi tutti i giorni. Ma senza sapone l’acqua fredda non poteva togliermi tutti gli strati di sporco e mi sentivo veramente sudicio. Un giorno, mentre il sergente mi consegnava il necessario per rasarmi, approfittai di un suo attimo di distrazione per rubare tre quarti del pezzetto del sapone da barba, un cilindro di alcuni centimetri di lunghezza avvolto in carta argentata. Che bottino! La rasatura era l’unica occasione per potersi guardare nello specchio, una volta alla settimana, tanto da non dimenticare i propri connotati.
Il settore era sotto la responsabilità di tre sergenti: Zion, che mi ricordava il sedicente studente Mordechai Rachamim, killer della El Al a Kloten; Ohayon, che parlava un po’ il francese essendo di origine marocchina; e Dayan, un sadico. Fu Zion che, per primo, due mesi dopo che mi trovavo in cella di isolamento, un pomeriggio mi chiese se volevo fare una doccia calda. Che gioia! Dopo la doccia mi sembrava di essere rinato, mi sentivo un altro. Fu sempre Zion che, dopo quattro mesi, mi portò gli indumenti di ricambio e un asciugamano.
Ohayon invece se ne infischiava di tutto e di tutti, voleva solo essere lasciato in pace e non voleva problemi. Voleva poter sorseggiare tranquillo il suo caffè e mangiare, soprattutto mangiare. Se un prigioniero gli chiedeva di accendere una sigaretta doveva chiamare per ore, picchiare alla porta, urlare. L’esperienza mi insegnò che bastava togliere un filo dalla coperta, accenderne un’estremità tenendolo in posizione verticale così da lasciarlo bruciare lentamente: le sigarette si potevano accendere per contatto. Sigarette scadenti, che spesso si spegnevano a metà.
Dayan, il sadico, era un tipo zelante che non permetteva al detenuto di rimanere in cella senza camicia e neanche con il colletto sbottonato. Proibiva pure di sdraiarsi sulla branda durante il giorno. Chi non eseguiva alla lettera i suoi voleri capricciosi, veniva pestato per insubordinazione. Tanto, una ragione la trovava sempre: era la parola di un sergente contro quella di un detenuto, un essere insignificante senza alcuna personalità né sentimenti, una cosa fra le cose.
Fu Dayan che un giorno volle obbligarmi a fare la doccia con un altro prigioniero perché mancava poco alla fine del suo turno. Il sadico volle obbligarci a stare in due sotto un filo d’acqua. La doccia altro non era che un tubo sporgente dal soffitto di una cella adibita al lavaggio dei piatti del settore, e dove venivano portate le immondizie. L’acqua calda, combinandosi coi rimasugli di cibo e con le immondizie, formava vapori nauseanti. Però era pur sempre piacevole poter fare una doccia calda di tanto in tanto!

3.

Il settore era uno dei più sporchi. Già al tempo degli inglesi era adibito a isolamento e punizione. Le vecchie mura erano state in parte abbattute, altre costruite più tardi. Gli scarafaggi e altri insetti se la facevano da padroni ed era impossibile sterminarli.
Durante il giorno si rifugiavano nelle crepe dei muri e, di notte, uscivano a centinaia in cerca di cibo. Ne schiacciavo moltissimi. Schiacciandoli si udiva un rumore particolare e ne usciva una sostanza rosacea che mi ricordava il ripieno di cioccolatini che, a Natale, vengono appesi all’albero. Ma gli scarafaggi si potevano sopportare, anche se non era simpatico svegliarsi e trovarsene uno sulla faccia o schiacciato sotto la schiena.
Ciò che più mi preoccupava era il continuo prurito, un dolore lancinante alle braccia, al collo, alle gambe, all’inguine. Passai parecchie notti insonni a causa di questi dolori. Avevo tutto il corpo gonfio e infiammato. Dovetti aspettare una settimana per vedere un medico. Poi, un giorno, stanco di attendere, iniziai uno sciopero della fame rifiutando quattro volte il cibo. Allora venni condotto dal medico, che però si limitò a chiedermi se avevo mangiato qualche cosa di velenoso, per esempio le uova cotte che a volte distribuivano per pranzo. E cosa avrei dovuto mangiare? Mi prescrisse delle pillole. Ero sicuro di essere allergico alla sudicia coperta che mi avevano dato e per questo chiesi un lenzuolo. Lo potei ottenere solo grazie alla mia ostinazione, ma ciò non valse a nulla.
Passai settimane di tormento. Poi, una notte, alzandomi, scoprii che il lenzuolo brulicava di bestioline che si muovevano velocissime. Ne uccisi una decina. Erano nere e, le più piccole, di un colore rosso. Ve n’erano di varie dimensioni, da un’unghia alla punta di uno spillo. Molte erano piene di sangue, il mio sangue. Erano pidocchi, e per la prima volta potei osservarne uno. Alcuni giorni dopo disinfettarono la cella con il petrolio, che loro chiamavano ddt. Rimasi per due giorni a respirare i miasmi velenosi di quel petrolio. Vomitavo il cibo appena mangiato, ma gli scarafaggi poche notti dopo ripresero i loro giri d’ispezione. I pidocchi però sparirono e, ripresomi dagli effetti del petrolio, potei finalmente dormire.
Durante il giorno trascorrevo gran parte del mio tempo a camminare su e giù per la cella: cinque passi in tutto. Di tanto in tanto mi fermavo per riposare, poi riprendevo.
Decifrare le scritte e i graffiti sui muri mi tenne occupato all’inizio per qualche ora. Trovai singolare l’abitudine dei detenuti di scrivere il proprio nome sulle pareti delle celle. Disegnare con le unghie le iniziali del Fronte popolare era invece un atto di accusa contro il sionismo e una testimonianza di lotta, un voler dare senso alla vita.
I muri delle celle di punizione e di isolamento erano completamente scarabocchiati da scritte in arabo o ebraico, mescolate a disegni osceni raffiguranti organi genitali in una girandola di atti erotici, frutto evidente della repressione sessuale a cui tutti eravamo costretti. Accanto a un cuore e a una parola d’amore vi era una stella di Davide sovrapposta alla croce uncinata. E poi una lunga lista di date, giorni e anni ormai passati ma mai dimenticati, testimonianze di sofferenze o di follia, ma anche di eroica resistenza.
Scrostando le mani sovrapposte di vernice, ne contai sette strati, tutti di colore diverso. Quanti anni? Ogni strato aveva la sua storia, impregnata di chissà quante sventure. Testimonianze di storie di uomini, delle loro umiliazioni, delle loro speranze. Questa parte del carcere era sorta su una rocca costruita al tempo delle crociate, in un punto dove le strade provenienti da Gerusalemme, Giaffa e Acra s’incontrano; un punto strategico per dominare i traffici tra il Mediterraneo e le piste carovaniere che si spingono in infiniti deserti.
Per allontanarmi con il pensiero dalla nudità della cella (non v’erano sedie né tavolo, solo tre letti di ferro a castello e il cesso turco), passavo lungo tempo affacciato all’unico finestrino. Ma era ben difficile vedere qualcosa attraverso tre inferriate e una spessa rete metallica. Gli occhi si stancavano subito, ma osservare un minareto, qualche casa lontana, a volte perfino un trattore che lavorava nei campi, mi richiamava alla realtà. Se le origini della cella si perdevano nei tempi e nulla in essa testimoniava dell’era in cui vivevo, il trattore era un simbolo di modernità.

4.

Il periodo passato in isolamento fu senz’altro il più duro e terminò quando assegnarono alla mia cella due altri prigionieri. Tutto allora sembrò mutare.
Già da qualche settimana mi era permesso prendere la mia ora d’aria in compagnia di altri detenuti che, come me, erano segregati nelle celle di isolamento. Con loro non potevo avere nessun rapporto a causa della lingua, non sapendo una sola parola di ebraico e non avendo ancora potuto imparare l’arabo. Tuttavia il solo fatto di vedere altri esseri umani era già molto importante. Durante i lunghi mesi di isolamento avevo sentito spesso un bisogno profondo di compagnia, la necessità di comunicare con qualcuno, un bisogno così intenso che a volte il fatto di non poterlo soddisfare mi faceva quasi impazzire. Molti prigionieri che hanno dovuto trascorrere lunghi periodi in isolamento sono infatti impazziti o, quanto meno, hanno sofferto gravi disturbi psichici. Ricordo Shammut, un palestinese condannato con sua moglie all’ergastolo per aver deposto bombe in alcuni mercati israeliani. Il suo attentato più noto fu quando mise in un melone una carica di esplosivo che causò vari morti. Rimase più di due anni in cella di isolamento, sempre con le manette ai polsi e i piedi incatenati. Quando venne trasferito nella sezione generale con altri prigionieri, affermò di aver visto Dio e di aver avuto colloqui con lui. Tutto il suo comportamento risentiva di un grave trauma psichico: camminava a scatti, rimaneva spesso pensieroso, si appartava in un angolo del cortile, sempre all’ombra. Condividere la mia cella con altri detenuti, affrontare insieme a loro il lento passare delle ore fu per me un fatto importante.
Il primo a essere trasferito nella mia cella, verso la fine dell’ottobre 1970, fu Abdel Sattar, un militare iracheno di stanza in Giordania che aveva disertato e si era rifugiato in Israele. Qui era stato catturato e condannato per spionaggio e infiltrazione. Incarcerato con altri detenuti politici, era stato da questi scoperto e condannato a morte come collaboratore delle guardie carcerarie. Per impedire che venisse ucciso nelle prigioni dei territori occupati, nel ’70, gli israeliani l’avevano trasferito nel carcere di Ramleh, appunto nel settore XXX, il mio. Ormai Abdel Sattar era un uomo bruciato, smascherato da tutti e stigmatizzato, escluso dalla comunità carceraria e costretto a vivere completamente solo. Nel mio settore aiutava il sergente nella distribuzione dei pasti, nella pulizia del corridoio e in altre simili mansioni. Nel 1974 fu espulso da Israele e andò in Canada, il solo paese disposto ad accoglierlo. In Iraq lo avrebbero impiccato per diserzione o come spia al soldo degli isr...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. Verso Haifa
  5. Ramleh
  6. Postfazione
  7. Indice
  8. Red star ebook