Il commissario De Vincenzi. Il candeliere a sette fiamme
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Il commissario De Vincenzi. Il candeliere a sette fiamme

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Una delle inchieste più difficili e originali del Capo della Mobile milanese. Un cadavere sventrato brutalmente in un albergo della città. Difficile capirne la nazionalità. Ma gli indizi sono molti, comprendono il complotto internazionale e una pista che porta il Commissario lontano dall'Italia, in Medio Oriente. Tra uomini ragno ante litteram e donne più o meno fatali anche questa volta il mistero sarà alla fine risolto.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788893040112
Argomento
Literature
Categoria
Classics

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Augusto De Angelis - Il commissario De Vincenzi

Il candeliere a sette fiamme

1.

La mattina del 17 maggio 1930 i grandi giornali d’informazione di Milano e Torino recavano questa notizia:
MISTERO INDECIFRABILE ATTORNO ALLA “MUMMIA” DI BLACKFRIARS
Londra, 16 notte
L’esame del cadavere mummificato rinvenuto ieri avvolto in bende in una delle cantine della vecchia osteria di Blackfriars ha non solo permesso di identificare il morto, ma di modificare radicalmente le opinioni espresse circa la data della sua scomparsa. Il dottor Spilbsbury, che ha effettuato oggi l’autopsia, è stato costretto a discostarsi dalla teoria della polizia, secondo la quale il vecchio sarebbe stato vittima di un delitto commesso trentanni or sono. Si tratta, invece, del sessantenne William Ellis, residente a Wands Worth, il quale scomparve or è poco più di un anno. Il mistero che avvolge la fine dell’Ellis sarà difficilmente chiarito. Egli era uscito un anno fa in abito da passeggio. Nella cantina dell’osteria, il cadavere è stato per contro rinvenuto in abito da mendicante con grossi scarponi sprovvisti di lacci. L’autopsia ha confermato che egli è stato ucciso mediante una martellata alla testa.
Nei giorni seguenti, i lettori appassionati di tal genere di notizie impressionanti, cercarono invano particolari e rivelazioni sul “morto mummificato” di Blackfriars. I corrispondenti da Londra avevano abbandonato il mistero. Vero è che il Gandhi, trinceratosi nel suo accampamento di Untadi, aveva bandito la crociata del “sale e delle tasse”, e la legge marziale era stata proclamata a Slatapur. L’India sotto il tallone britannico... Il pubblico dei grandi giornali d’informazione ebbe altra pastura e ben altrimenti appassionante. Soltanto qualche accanito lettore di romanzi polizieschi ricordò ancora per qualche tempo quel cadavere di un uomo, che un giorno era uscito in abito da passeggio e che, dodici mesi dopo, era stato ritrovato “mummificato” nella cantina di un’osteria, con in dosso stracci da mendicante e ai piedi grossi scarponi sprovvisti di lacci...

2.

Lo spettacolo di quel morto, steso sul piancito di mattoni porosi e sgretolati, in quella stanza buia, che la lampadina accesa al soffitto illuminava d’una luce smorta e polverosa, non era davvero bello. De Vincenzi, spalancata la porta e girato l’interruttore, diede addietro di un passo. Sani e Cruni, che lo seguivano, urtati da lui, indietreggiarono alla loro volta e dovettero scendere d’un gradino per non cadere, tanto il ballatoio era stretto, a termine della ripida scala di legno, davanti a quella porta giallastra, che recava stampigliato in nero, enorme come un numero da tombola di villaggio, il numero 48. Era l’ultima camera dell’albergo, sotto i tetti. Dietro di essi, per la scala male illuminata, si teneva il gruppo dell’albergatore, del cameriere lercio, di qualche ospite. Dietro ancora, a sbarrare il passo, gli agenti del pattuglione e quelli venuti col commissario capo della Squadra Mobile da San Fedele.
Nello sgabuzzino del portiere, che era poi anche ufficio e cassa, sul tavolo, tra i registri e le chiavi delle camere, era seduto il commissario Bianchi e, poiché lo sgabuzzino era stato costruito in un angolo dell'atrio, là dove la volta s’abbassava, lui, con quella sua persona gigantesca, toccava quasi col capo una delle travi. Aspettava. Tra poco se ne sarebbe andato. Avevano chiamato lui, naturalmente, come reggente il commissariato di Porta Garibaldi, perché quel malfamato albergo dello Specchio d’Oro stava in via Anfiteatro; ma oramai era arrivato il commissario della Squadra Mobile e i fastidi per Bianchi erano finiti. Un assassinio volgare, in fondo, e in un luogo di teppa e di delinquenza. Ma pur sempre noie. Raderle al suolo avrebbero dovuto tutte quelle casupole e casacce lebbrose di via Anfiteatro, raduno di peripatetiche e di ladri, di ricettatori e di mezzane. In alto, De Vincenzi aveva vinto la prima repugnanza. Quel cadavere era orribile. In pigiama da notte, coi piedi nudi all’aria, aveva il ventre aperto da un fianco all’altro. E tutt’attorno il sangue aveva formato lago. Cominciava a coagularsi e ad annerirsi.
La stanza - la solita stanzaccia squallida di quegli alberghi di infimo ordine - non presentava traccia di lotta. Il letto era disfatto e le lenzuola giacevano ripiegate, come se l’uomo ne fosse disceso tranquillamente: certo non lo avevano aggredito mentre dormiva e non lo avevano strappato giù a forza. Gli abiti e la biancheria, che s’era tolti per coricarsi, giacevano piegati con cura sulla seggiola, accanto al letto. In mezzo alla stanza, presso al cadavere, un’altra seggiola. Vi si era seduto? Ma perché a piedi nudi? Il commissario si guardò attorno e vide le pantofole, una da una parte e una dall’altra, quasi sotto al cassettone. Gli erano state tolte dopo morto o gli erano cadute e l’assassino le aveva fatte schizzar lontano. E non c’era altro: il letto, due seggiole, il cassettone con lo specchio e, di fianco alla finestra, mezzo nascosto dalla tenda di percalle a fiorami, lurida e a sbrendoli, il catino sul treppiedi di ferro e la brocca. Una valigia gialla aperta sul cassettone. E si vedeva l’argento degli oggetti di toletta messi in fila. Una valigia di lusso. Anche la biancheria dello scannato era di lusso. La faccia del morto, però, appariva volgare. Volto pieno, naso potente, diritto, carnoso; due basettini castani, come i capelli, che avevano la riga da un lato e si ripiegavano in un ciuffettino pretenzioso. Gli occhi spalancati non dicevano nulla. Terrorizzanti, sicuro, come tutti gli occhi spalancati di un cadavere; ma non esprimevano sorpresa, meraviglia, paura: nulla! Traslucidi, opachi, sembravano quelli di un pesce morto ed erano se mai impressionanti appunto per quella loro atonia senza luce.
“Chiamami l’albergatore”.
Cruni s’avviò.
“Manda un agente a cercare il medico e telefona tu stesso, per sentire se dal Gabinetto di Polizia Scientifica possono far venire subito il fotografo e gli esperti...”
“A quest’ora?” fece Sani. “È quasi mezzanotte...”
“Prova lo stesso, Cruni!... Di’ che si tratta di un caso grave...”
Sani guardò il suo Capo con meraviglia contenuta: un caso grave, quello? Grave, certo, per quel disgraziato, che avevano conciato a quel modo; ma non si trattava poi di un qualsiasi delitto di teppa? Cruni era uscito. Si sentirono voci per le scale, poi un passo che saliva, facendo scricchiolare i gradini di legno. L’albergatore comparve nel riquadro della porta.
“Il registro”, ordinò il commissario con voce fredda.
L’uomo alzò le spalle,
“Il suo collega giù lo ha consultato. È in regola, sa?... Non sono mica così bestia da non prendere il nome di chi entra...”
“Portami il registro”.
L’uomo ingozzò una maledizione e scomparve. Nella stanza, davanti a quel cadavere dissanguato, i due rimasti tacevano. Sani pensava che il commissario, certo impressionato dall'atrocità del delitto, doveva aver perduto un po’ della sua freddezza abituale. Quale mistero voleva che ci fosse li dentro? Tutt’al più qualche donna di mezzo o un “regolamento di conti” per la divisione del bottino. De Vincenzi si avvicinò al cassettone e guardò dentro alla valigia. S’era messe le mani in tasca e aveva il volto stranamente concentrato.
“Ma come hanno fatto a tagliarlo a quel modo?”
De Vincenzi sussultò e si volse a fissare il vice-commissario.
“Qual è la tua idea, Sani?...”
“Averne una! Per lavorare un uomo a questo modo, occorre l’odio. Una vendetta...”
Ma De Vincenzi non lo ascoltava: aveva fatto la domanda meccanicamente per il desiderio spontaneo di mostrarsi cortese col suo subalterno, ch’era poi soprattutto per lui un amico e un compagno. Ma s’era di nuovo assorto a contemplare il volto del morto. La fronte altissima perdeva ogni luce per l’immobilità vitrea, appannata degli occhi. Gli zigomi sporgevano, le gote irrigidendosi apparivano gonfie. I baffetti corti, l’arco delle sopracciglia prominente, la linea della mascella che appariva esile per la durezza sporgente degli zigomi, indicavano lo straniero. Anche il pigiama di seta, verde e rosso, di taglio e foggia insoliti, confermava a prima vista l’ipotesi. Il commissario si avvicinò alla seggiola sulla quale giacevano gli indumenti dell’ucciso e li osservò. Non recavano nome di sarto, cifre, indicazione alcuna. Ogni possibilità di riconoscimento era stata fatta sparire dagli assassini, i quali s’erano preoccupati dei particolari, strappando l’etichetta del sarto dalla giacca e persino i bottoni dei pantaloni, che dovevan recare impresso qualche marchio riconoscibile. Avevano operato con metodo e con perfetta tranquillità, sino al punto di riporre i vestiti piegati sulla seggiola dopo averli ispezionati. E nelle tasche, nulla. Tutto era sparito, anche il fazzoletto, il portafogli, il borsellino. Sani seguiva i movimenti di De Vincenzi.
“Niente?”
“Niente”.
“Rimane la valigia...”
“Non troveremo nulla neppure lì...”
L’albergatore tornava col registro.
“Ecco qua... Tutto in regola... Il nome dell'assassinato è l’ultimo... È arrivato ieri sera alle sette... E dopo di lui...”
“Dammi...”
Sapeva benissimo, De Vincenzi che dalle sette di sera alla mezzanotte, che era allora, chi sa quante altre persone erano state accolte nell’albergo, che non avevano dato il loro nome e che se ne erano di già andate; ma quel lurido commercio abituale non lo interessava, adesso. Lesse: Gehenlyan Melkon, nato a Talas nel 1888, proveniente da Zurigo.
“Ha dato il passaporto?”
“Certo. Me lo ha mostrato. Ho copiato i dati e gliel'ho restituito. Non è questo che debbo fare?”
Sorrideva, sicuro di sé. Era questo che doveva fare e sul libro aveva messo anche il numero del passaporto e l’indicazione: pass, germanico, rilasciato a Francoforte, n. 8279. Il passaporto era sparito, come il resto. De Vincenzi diede un’altra occhiata al cadavere, poi chiuse il registro e lo porse a Sani.
“Telegrafa il nome e il ritratto parlato del morto a Francoforte. Per ora basterà... E adesso, amico mio, a noi due!”
Prese l’albergatore per un braccio e lo condusse verso l’angolo estremo della stanza, al di là del letto, presso le tende della finestra. L’uomo sorrideva sempre. De Vincenzi si accorse che, se la sua manovra aveva allontanato l’albergatore del cadavere e lo aveva messo a più diretto contatto con lui, quell’angolo era in un’ombra più spessa, che la lampadina con la sua luce rossastra non riusciva a rischiarare. La faccia camusa dell’uomo aveva perduto i rilievi. Soltanto gli occhietti acuti, tra le palpebre gonfie, brillavano di malizioso sarcasmo. Si sentiva che questa volta la tragedia lo lasciava indifferente. Nessun pericolo che c’entrasse e, se nel suo albergo si scannavano le persone, se ne infischiava lui.
“Mai veduto!... Uno straniero!... Perché è venuto a farsi fare la pelle proprio allo Specchio d’Oro, lo sa il demonio!...”
“Basta!... Rispondi soltanto... È arrivato alle sette?”
“Sì. Il taxi s’è fermato davanti alla porta dell’albergo che potevano esser le sette. Un cliente in taxi non mi arriva tutti i giorni e io ho guardato l’orologio per ricordarmi l’ora dell’avvenimento...”
Rideva, scoprendo i denti felini.
“Veniva dalla stazione?”
“Posso dirle che ha dato dieci lire all’autista e non ha preso il resto”.
Sì, press’a poco, il prezzo d’una corsa dalla stazione a via Anfiteatro.
“Che ti ha detto?”
“A me?... Niente!... Ha cavato il passaporto e me lo ha messo sul tavolo. Ho letto il nome e ho capito che era straniero. Gli avrei dato una camera migliore, perché era ben vestito e aveva da pagare, ma l’albergo era tutto pieno e non avevo che il 48 disponibile”.
"Vedremo poi chi hai nelle altre stanze...”
“Oh!” l’uomo alzò le spalle. “Un po’ di tutto!... Il solito pattume...” ma s’interruppe.
“Ebbene?”
“Niente!”
“Qualche altro cliente non dei soliti è arrivato ieri?...”
“Vedrà lei...”
“Comincia col parlare tu...”
“Una donna... Una signora... Elegante. Anche lei non è... Una signora, insomma...”
“Ah!... E...

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