Il commissario De Vincenzi. Il mistero di Cinecittà
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Il commissario De Vincenzi. Il mistero di Cinecittà

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Roma, capitale del cinema. Un pericoloso e sanguinario serial killer si aggira e colpisce indisturbato nell'ambiente cinematografico della Capitale. Fra registi italiani e stranieri, maestranze, divi famosi e improbabili divette, De Vincenzi indaga senza censure (e questa volta in trasferta) fino ad arrivare a una sorprendente quanto triste verità.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788893040082
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

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Augusto De Angelis - Il commissario De Vincenzi

Il mistero di Cinecittà

1. Dodici più una

Dodici persone si trovavano riunite nella serra d'inverno dell'albergo.
Dodici persone visibili, di sangue carne muscoli e ossa, che vestivano panni, pensavano, agivano: e una tredicesima invisibile, tanto più presente nella sua essenza incorporea. Sicché ognuna delle altre poteva averla accanto e addosso, muta, inavvertita e implacabile.
Dodici persone, provenienti da lontane parti del mondo, o che da assai lontano tornavano. Inconsapevolmente legate a un comune destino, quotidianamente giocavano col tragico e consideravano la tragedia materia di speculazione artistica e di commercio, ideandola, plasmandola, rendendola parlante e viva sullo schermo.
A riunire quelle persone lì dentro erano stati i milioni di Giucé Caienni e di Micheluccio Vernieri, e la volontà di Vassilli Boldviski. Queste due forze, una bruta e l'altra brutale seppure intelligente, avevano creato l'Acidalia Film, casa cinematografica annunziatasi subito solida e potente. Che i milioni ci fossero nessuno poteva dubitare dopo la pubblicità data ai grossi depositi in banca, alle elargizioni benefiche, all'acquisto di un immobile principesco, che accoglieva nelle sue grandi sale, con gli uffici della Società, un battaglione di impiegati, di tecnici, di fattorini.
L'immobile era situato proprio nel centro di Roma, in una piazzetta silenziosa e austera, pavimentata di grosse selci corrose, che avevano conosciuto lo scalpitio degli equipaggi attaccati ai cocchi di qualche porporato e di un governatore, al tempo dei Papi.
Ma appunto perché tanto principesco e austero, Vassilli Boldviski – anima di vagabondo – lo sdegnava. E, mentre duravano i preparativi per l'inizio dei primi film, si era astenuto dal recarvisi e obbligava i due finanziatori e gli attori di primo piano a riunirsi all'Excelsior, dove alloggiavano anche Giucé Caienni, Micheluccio Vernieri e alcuni attori.
Quella mattina (erano ormai le dodici e il sole di dicembre, il cristallino sole invernale che a Roma ancora riscalda, entrava dalle vetrate spandendosi per la sala) avevano già discusso e messo a punto gli ultimi particolari di un film storico. Quindi Boldviski, senza aver l'aria di essersi accorto dell'ora, si era immerso nella lettura di un soggetto biblico, che avrebbe dovuto permettere la ricostruzione, in una fantastica cornice di sogno, della creazione del mondo.
Attorno a lui, le altre undici persone, stanche per due lunghe ore di concentrazione mentale, ascoltavano distrattamente.
"Avendo Iddio creato e abbellito questo universo, formò il primo uomo e la prima donna, e li mise in un giardino delizioso da cui furono scacciati per la loro disubbidienza..."
Assia Paris si riversò un poco sul divano. Paolo Vergolli le diede un'occhiata lunga e scrutatrice.
La voce di Boldviski continuava monotona: anche il suo accento straniero non contribuiva certo a rendere più divertente la lettura.
"La debolezza dei fondatori del genere umano divenne allora la sorgente di tutti i vizi..."
"È un vizio anche fissare le donne..." mormorò Assia, senza guardare Paolo Vergolli.
"Ogni vizio ha la sua tentazione..." sentenziò questi, togliendosi il monocolo.
Qualcuno nella sala chiese che si facesse silenzio.
"...imperciocché Caino loro primogenito commise un orribile fratricidio e fu il ceppo degli uomini cattivi. L'inclinazione al male passò dai padri ai figli. Tubalcain inventò il ferro micidiale..."
"Oh!" esclamò Carlo Trini, sollevando il capo sormontato da arruffati capelli rossi. "Tubalcain..."
"Gli uomini non se ne servirono al principio che contro gli animali feroci: ma ecco che gli uni s'armarono contro gli altri e tutti si ingolfarono nelle scelleratezze. Dio, non conoscendo più in essi la sua immagine, li castigò col diluvio universale..."
"E castiga noi con questa lettura!"
I baffi di Giucé Caienni e la sua decorativa barba nera si sollevarono adirati. A occhi semichiusi, placido e tondo, con le mani sul ventre, Micheluccio Vernieri fece filtrare uno sguardo malizioso sul cranio lucido di Boldviski, il quale seduto davanti a lui, stava curvo sul tavolo, tenendo il manoscritto della sceneggiatura con le due mani, saldamente. Lo sguardo di Blanca Vertua non riusciva a staccarsi da quelle mani. Erano tozze, forti, leggermente spatolate alle dita, e la peluria bionda emetteva riflessi di metallo fin sulle prime falangi.
D'un tratto, il regista alzò il capo; gettò lontano da sé il fascicolo e si puntò con le mani al fragile tavolo, che scricchiolò.
Quel suo volto massiccio, scolpito rudemente, duro, faceva sempre una certa impressione su chi lo guardava, e anche questa volta gli undici astanti ebbero ognuno per proprio conto reazioni non indifferenti. Blanca Vertua, che aveva sollevato lo sguardo dalle mani alla fronte del regista, ebbe un fremito visibile. Il volto di Boldviski appariva pallido, quasi grigiastro, e la profonda cicatrice che gli tagliava l'arco sopraccigliare destro gli era diventata più che rossa, nerastra.
"È inutile che io continui a leggervi i preliminari di questo soggetto... Va studiato con passione..." Sorrise, in un modo che sembrò volesse mordere.
"Stamane abbiamo messo a punto il Cesare Borgia ed è già abbastanza... Dei Fratelli di Caino ci occuperemo la prossima settimana..."
Si alzò, sempre appoggiandosi al tavolo, e qualcuno degli astanti si affrettò a imitarlo. Caienni gli si mise al fianco, vivo e trepidante, arricciandosi i baffi neri col moto nervoso delle dita, che gli era abituale.
Blanca Vertua, seduta in prima fila davanti al tavolo, come affascinata e leggermente oppressa, non si mosse. Accanto a Blanca, Set Nicholson, con una mano tesa sul braccio della poltrona di lei, sorrideva: un sorriso da primo piano, sfolgorante.
Boldviski girò attorno lo sguardo, lo fece scorrere rapido sul volto marmoreo di Blanca, lo fissò più a lungo su quello giovanile e luminoso, troppo bello, di Set, e finì per conficcarlo negli occhi allucinati di Gita Garena, che, vestita di nero, sottile e contorta, si appoggiava alla spalliera di un divano.
"Le scene di Castel Sant'Angelo e di Faenza sono già pronte alla piscina e al teatro 5 di Cinecittà. Cominceremo a girare questa sera alle sei, appena farà buio, e continueremo tutta la notte... Intendo far presto. Ognuno di voi pensi seriamente al suo lavoro... Il cinema non è un mestiere, è un'arte. Trama, invenzione, trovate, regia, macchine da presa, vanno regolate quasi meccanicamente e ogni cosa ha da ingranarsi alla perfezione, ma ognuno di voi deve mettere nella sua parte tutta l'anima, il respiro... il cuore, se ne ha. Se a qualcuno manca, me ne accorgerò subito e mi sbarazzerò immediatamente di un attore che, non essendo tale, non mi serve... Se qualcun altro credesse di non darmi tutto quanto sia consentito dai suoi mezzi, lo stritolerò... Tanto vale che mi conosciate subito... Non scherzo, io!"
Si ficcò le mani in tasca. Girò attorno al tavolo, passò tra una poltrona e l'altra per dirigersi alla porta. Tutti si scostarono. Giunto davanti a Telma Zinger, le fece cenno col capo, indicandole l'uscio.
"Venite con me, voi..."
La segretaria di produzione inforcò gli occhiali, balzò in piedi con un guizzo e lo seguì.
Quando i due furono al di là della vetrata, i dieci rimasti nella serra per qualche istante non si mossero, irrigiditi. La loro perplessità quasi atterrita sarebbe parsa comica a un estraneo.
Poi, lentamente, ognuno riprese a muoversi e a vivere.

2. Cobina

Paolo Vergolli, disteso sul divano basso, che era il suo letto, con le mani dietro la nuca fissava la vetrata del soffitto. Il sole era scomparso, la luce lì dentro era divenuta livida, da acquario. Saranno le quattro, pensò, forse le cinque. Aveva dormito e adesso uno strano torpore dolce e spossante lo avviluppava ancora, togliendogli la forza di muoversi. Alle sei doveva essere a Cinecittà. Sì, Boldviski avrebbe cominciato anche senza di lui: se ne infischiava, Boldviski, del soggettista e di tutti! Ma voleva andarvi, trovarsi presente fin dal principio. Anche i dialoghi di quel film erano suoi, e sapeva bene che Boldviski non li avrebbe rispettati. E poi... era pur stato sciocco a innamorarsi di Assia. La conosceva da pochi giorni e non pensava più che a lei! Nulla di strano e di preoccupante, se si fosse trattato di un individuo normale, ma lui!
Aveva trent'anni ed era quella la prima volta che gli capitava. Meno male che non glielo aveva detto, non glielo aveva neppure fatto capire. Nulla di irrimediabile, se fosse riuscito a liberarsi dell'ossessione. Poiché non doveva essere amore, il suo. Desiderio, certo; ma anche uno strano pungente interesse, fatto di avida curiosità. Strana creatura! Da dove veniva? Doveva essere italiana, perché il suo accento era puro. Ma aveva una madre straniera, slava, ungherese, e quella madre pesava su di lei come un enigma. Forse, aveva cominciato a pensare ad Assia con continua e martoriante intensità proprio dal momento che aveva conosciuto Cobina de Kergorlay.
Dalla vetrata scendeva la luce livida del pomeriggio invernale sempre più cupo e grigio.
Paolo si agitò sul divano. Sì, doveva alzarsi, muoversi, andare. Rivide il volto duro, tagliato con l'ascia, di Vassilli Boldviski e un debole brevissimo brivido gli corse la schiena.
Si alzò. Camminò per la stanza ingombra di troppi mobili e carica di quadri, di damaschi, di oggetti disparati. Un candeliere da altare accanto a una Venere callipigia; un elefante d'avorio sopra un pesante messale rilegato in cuoio e chiuso da fermagli di ottone. E poi una collezione mostruosa di animali impagliati disseccati imbalsamati, d'ogni genere forma grandezza, sparsi dovunque. Dal minuscolo coleottero verdeazzurro al gatto, al pappagallo, al cane. C'era anche un piccolo canguro e una scimmiettina ghignante. Il tutto plastica rappresentazione di quel che doveva essere lo spirito di Vergolli, abitato da visioni bizzarre, ossessionato da incubi. Qualche rotellina fuori posto nel cervello. Un artista... Aveva cominciato col teatro: Bluff, L'uragano, Il redivivo, Il giullare... Adesso, s'era dato al cinema. Sognava nuove forme artistiche di larga coralità. Vedeva la realizzazione sullo schermo di una comicità nuova e pura, che derivasse unicamente dall'imprevisto e parlava a se stesso di una logica dell'assurdo, di cui non riusciva ancora ad afferrare completamente l'essenza. Tutto questo gli formava nel cervello un sentimento di preconcetti artistici assai interessanti seppure sterili. Ma non era meno vero che scambiava il sadismo per il talento, e che la normalità della gente giudicava lui un caso patologico.
Era questo, Paolo Vergolli? Questo e qualche altra cosa ancora. Nel fondo rimaneva un borghese, anzi un provinciale, in lite con il proprio mondo. E forse la ribellione in lui era tanto più forte ed esagitata, quanto meno sentita. Certo, il suo desiderio di volo era sincero. Ma nei momenti di amarezza era solito dire che anche Icaro aveva avuto quel desiderio, e che quindi non importava riuscire, se Icaro, pur fallendo, era rimasto comunque nella storia del mondo...
Davanti allo specchio, appeso alla parete di fondo fra l'impalcatura di un cervo e la maschera bianca di Beethoven, contemplò per qualche istante il proprio volto pallido e contratto, e si strinse il nodo della cravatta. Diede un'occhiata all'orologio che si trovava sopra un piccolo tavolo: le cinque e mezzo. Doveva andare. Ma qualcosa lo tratteneva. Qualcosa di oscuro e di tenace. Una sensazione, non un pensiero. Forse, un presentimento. Perché mai quell'impressione di pericolo? Nulla la giustificava se non forse quel suo innato bisogno di avventarsi contro l'ignoto. Ma quale ignoto, se tutto era adesso previsto e prevedibile?
Un bussare leggero alla porta, e poi subito un altro più sonoro, deciso.
Paolo sussultò. Si volse. Fissò attraverso la stanza, lunga più di dodici metri, la porta chiusa. L'unica porta di quell'ambiente, senza altre uscite, se non la finestra tagliata in alto, sotto la vetrata e che immetteva a una specie di terrazza e poi sui tetti.
Disse: "Chi è?"
Da lontano sentì un parlottare basso e confuso. Poi i colpi si ripeterono.
Paolo si diresse verso l'uscio. Camminava, fissando i battenti, come se avesse temuto di vederli spalancare, pur sapendo che li aveva sprangati.
Tirò il chiavistello, fece giocare la molla della serratura, che dall'interno si apriva senza chiave.
Una figura di una donna gli apparve, e lui indietreggiò riuscendo a soffocare un grido di stupore.
"Mi riconoscete? Ho bisogno di parlarvi."
"Entrate. Non avrei mai immaginato..."
"Naturalmente!"
Cobina de Kergorlay avanzò in fretta. I suoi movimenti, anche se rapidi, erano strettamente cauti e striscianti. Un gattone enorme, pensò Paolo. A ogni modo, era un gatto nero, lucido nella pelliccia di lontra, con un rotondo cappello di velluto privo forse di forma ma non di grazia. Dietro di lei veniva armoniosa, bellissima, assolutamente degna di figurare fra le stelle del cinema mondiale, sua figlia Assia Paris.
Pa...

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  1. *
  2. 15. Colpi di sonda
  3. 28. Delirio