PARTE I introduzione
Questo libro parla di “personaggi influenti”, cioè di persone che, con le loro azioni e i loro esempi hanno inciso sulle abitudini e sui comportamenti di milioni di uomini e donne, inducendo bisogni e stimolando esigenze non sempre sostanziali. Per questa ragione, dei pubblicitari si parla quasi sempre male, senza però mai sapere esattamente chi sono, cosa fanno, in quale contesto e con quali risultati. Né scrittori, né giornalisti, né grafici, né designer, né illustratori, ma copywriter e art director con una professionalità precisa da esercitare in un settore, quello del marketing e della comunicazione, diverso da ogni altro.
Fra i personaggi influenti ci sono molti americani, parecchi inglesi e naturalmente francesi e italiani. Molti di loro sono conosciuti e alcuni, come Bill Bernbach o Mary Wells, sono famosi. Fra alcuni di loro corre un legame sottile che li fa appartenere a una stessa scuola di pensiero. Anche di questo si parla nel libro. Ma lo scopo principale del libro è di dare una visione d’insieme, senza pretese storiche o critiche, come nei Salons (1) parigini di un tempo, di quella che è stata la pubblicità nel XX secolo, che non a caso è stato chiamato “il secolo della pubblicità”. (2)
Gli influenti e le influenze
I criteri con cui, in questo libro, sono stati scelti i 100 personaggi più influenti della pubblicità non sono strettamente storici e tantomeno esaustivi.
A parte ciò che risulta palesemente come una valutazione personale dell’autore, è difficile stabilire un criterio di scelta che non sia quello di appartenenza a un certo paese e a una certa cultura. In questo senso, americani e inglesi sono decisamente avvantaggiati.
Alla fine dell’Ottocento, in America c’erano già agenzie di pubblicità importanti e uno dei claim più belli di ogni tempo “A Skin You love to Touch” è stato scritto nel 1911, per Woodbury Soap, dalla J.W. Thompson, agenzia fondata nel 1864.
In Francia, a quei tempi o giù di lì, c’erano i manifesti pittorici di Toulouse Lautrec, a Vienna quelli di Gustav Klimt, in Italia il cartellonismo di Cappiello e Dudovich e solo molto, molto più tardi hanno fatto la loro comparsa le figurine della Miralanza, il feroce Saladino, il callifugo Ciccarelli e gli Ougiai del Viganò. Per fortuna, ai primi del Novecento c’era anche Depero che oggi ha conquistato tutta la considerazione che merita, sia come designer che come autore di manifesti.
Sempre in merito ai criteri di scelta, in generale abbiamo dato importanza più all’essere stati “influenti” che personaggi, all’avere generato scuole di pensiero e modi di concepire la pubblicità che a loro volta hanno prodotto altre personalità e nuove discendenze. Questo ha portato a escludere molti protagonisti della pubblicità italiana e anche qualche stella dello star system nostrano.
Siamo anche un po’ anglofili. E come non esserlo in una professione che deve tutto all’America, all’Inghilterra e alla lingua inglese?
Per altro, e sempre in tema di criteri, non abbiamo inventato nulla. Per nostra fortuna esiste già una Hall of Fame consolidata, sia americana che inglese, cui attingere e grazie al fatto che il XX è stato anche il secolo della pubblicità, nel 1999 Advertising Age ha pubblicato un’accurata selezione dei personaggi più influenti, che include non solo pubblicitari puri e grandi creativi, ma anche tycoons come Martin Sorrel, Ted Turner e imprenditori geniali come Steve Jobs.
La scelta, quindi, era già servita. Noi abbiamo solo aggiunto qualche osservazione per quanto riguarda l’influenza esercitata dai maggiori autori americani e inglesi sulla pubblicità italiana, ricordandoci molto bene quando costoro lasciavano le sale del Palais di Cannes appena si proiettavano i Caroselli italiani.
Dei nostri 100 influenti parliamo, generalmente, in ordine cronologico, senza trascurare l’importanza delle filiazioni e delle fusioni, così caratteristiche del sistema pubblicità. In un mestiere che s’impara a bottega, quello che conta è avere cominciato a lavorare con… per passare poi alla… e continuare da… per formare poi, ma non sempre, la propria agenzia. In questo libro ci sono, quindi, anche le storie di alcune agenzie che hanno fatto la storia della pubblicità e molti, moltissimi pubblicitari italiani si ritroveranno, in un certo senso, a casa.
Gli americani
Per qualche ragione, il loro XX secolo è stato più lungo del nostro, giustamente ridotto dallo storico inglese Eric Hobsbawn al periodo compreso tra il 1914 e la caduta del muro di Berlino nel 1989.
Sicuramente per quanto riguarda la storia dei consumi e della pubblicità, il ’900 americano è stato lunghissimo, tanto da incominciare addirittura qualche anno prima, alla fine dell’800.
Basta pensare che il primo ufficio della J.Walter Thompson è stato aperto nel 1864; che il primo copywriter a tempo pieno è stato assunto da N.W. Ayer nel 1892 e che la rivista Printer’s Ink è stata fondata nel 1893 come sussidio didattico nell’apprendimento dell’arte pubblicitaria.
Praticamente tutte le sigle delle agenzie più note, Lintas, BBDO, Ogilvy, Benton & Bowles, Young & Rubicam, Leo Burnett, Ted Bates, Doyle Dane Bernbach, McCann sono nate prima degli anni ’50 e anche se la “rivoluzione creativa” di Bill Bernbach data dagli anni ’60, nei primi cinquantanni del secolo la pubblicità americana aveva già fatto, detto e codificato praticamente tutto.
Non tutta la pubblicità americana è però marchiata Madison Avenue e vestita Brooks Brothers. Dopo Bill Bernbach, l’altra grande rivoluzione americana avviene sulla costa del Pacifico, a Los Angeles, dove nel 1962 Jay Chiat e Guy Day aprono un’agenzia dove si lavora preferibilmente in shorts, ma che negli anni ’80 avrebbe vinto i maggiori premi per la creatività.
Gli inglesi
Devono tutto agli americani, ma dalla fine della II Guerra Mondiale in poi, ci hanno messo anche del loro, e parecchio. Innanzi tutto, subito dopo la fine della II Guerra Mondiale, in una Londra distrutta dai bombardamenti e affamata, oltre a riformare il sistema scolastico e quello sanitario, istituiscono il COI, Central Office of Information, l’agenzia di marketing e comunicazione del governo, che da allora si occupa di tutte le campagne di interesse pubblico, gestendo le gare di appalto dei vari ministeri ed enti pubblici, acquistando i mezzi con una serie di contratti-quadro regolarmente rinnovati. Al COI si devono le campagne di pubblica utilità (sicurezza stradale, tabagismo, alcolismo e moltissime altre) applaudite e premiate in tutti i festival.
Per quanto riguarda la pubblicità commerciale, in Inghilterra tutto fila secondo il modello americano fino agli anni ’50. Poi, dai sussulti e dalle scosse della Swinging London, nasce anche in Inghilterra l’agenzia che, come la Doyle Dane Bernbach in America, avrebbe cambiato tutto nell’advertising.
L’agenzia era la Collett Dickenson Pearce, CDP, nursery di numerosi talenti pubblicitari, designer, fotografi, registi, produttori. Ma, diversamente che in America, la pubblicità in Inghilterra, come del resto l’editoria, la fotografia, il cinema, non è mai stata un fatto a sé ma l’espressione omnicomprensiva di tutti i fermenti che stavano modificando la cultura e il modo di vivere inglesi. Personaggi come David Puttnam, produttore, Alan Parker, regista, Charles e Maurice Saatchi, Tony e Ridley Scott, Adrian Lyne, Peter Mayle, John Hegarty, Frank Lowe, sono tutti usciti dalla CDP e le loro storie, raccontate di recente in un film di Mike Wadding per la BBC, sono la testimonianza di un cambiamento culturale unico in Europa.
Gli europei
Esiste una via europea alla pubblicità che non sia subordinata all’inglese come lingua e vincolata al marketing di stampo americano e inglese? Probabilmente solo i francesi e in parte gli italiani hanno avuto una loro identità formale, con pregi e difetti assolutamente distintivi. Oggi poi, un po’ per la globalizzazione, un po’ per convenienza, la maggior parte delle campagne sono internazionali e se capita che il claim più azzeccato per McDonald (I’m lovin’ it) sia opera di un team creativo tedesco (l’agenzia è la Heye & Partners), ciò prova solo che il linguaggio della pubblicità si è globalizzato da sé.
Per quanto riguarda la Germania, l’arrivo ritardato della televisione commerciale (1979) potrebbe averne rallentato la sbrigliatezza. È comunque indubbio che, nei favolosi anni ’80, la pubblicità in Germania abbia toccato livelli professionali altissimi, tanto che si comprava e si sfogliava Stern, come una volta Life, per vedere gli annunci stampa e i servizi fotografici.
Oggi, fra le prime 10 agenzie che operano in Germania, o in Spagna, sette sono gruppi multinazionali, risultato di fusioni sempre più complesse, tanto che è diventato un dato distintivo, ma non necessariamente qualificante, essere rimasti un’agenzia tutta tedesca, o tutta spagnola, o tutta italiana.
I francesi
Nell’elenco delle maggiori agenzie pubblicitarie del mondo secondo Advertising Age, il Gruppo Publicis, Parigi, figura al IV posto, seguito al VI da Havas, quotata in borsa e teatro nel 2005, di feroci scontri al vertice fra Vincent Bolloré, industriale e raider francese, Alain de Pouzilhac, AD storico del gruppo e i borbottii di Jacques Séguéla, direttore creativo di Euro RSCG, il gigante pubblicitario del gruppo. L’anno dopo, Vincent Bolloré era a capo di Havas, mentre Séguéla diventava presidente di Euro RSCG Worldwide.
La sigla RSCG racchiude anche i personaggi più influenti della pubblicità francese: Bernard Roux, Jacques Séguéla, Alain Cayzac e Jean-Michel Goudard che, insieme a Bernard Brochant, si sono tutti occupati, oltre che di pubblicità, anche di comunicazione politica e di campagne presidenziali.
Vero è che, a parte Séguéla, autentico genio della pubblicità europea, tutto il resto è business, con un giro di affari cospicuo e vorticoso in cui si mischiano gli interessi dei maggiori conglomerati industriali francesi. Dell’universo della pubblicità francese fa parte Carat, il maggior centro media indipendente del mondo.
Il gusto della pubblicità francese è quello lieve, sussurrato e insinuante della lingua: detersivi, formaggi, pannolini, profumi fa lo stesso. Solo nel caso delle auto, la pubblicità francese diventa più grintosa, con risultati a volte sorprendenti e a volte sconcertanti.
i padri fondatori della pubblicità
I padri fondatori della pubblicità sono, neanche a dirlo, americani, n...