Mario Gerosa
Il collezionista di respiri
Una realizzazione
Falsopiano/Fogli volanti
secondo gli standard
dell'International Digital
Publishing Forum
ISBN 9788893041638
Prima edizione digitale 2019
IL COLLEZIONISTA DI RESPIRI
Un quadro o una scultura contemporanei
sono una specie di centauro,
fatto per metà di immagini
e per metà di parole.
Harold Rosenberg
Prologo
Opprimente, nelle ossa, dovunque. Faceva così caldo, tanto caldo, da sciogliere la pelle dei personaggi immortalati nei dipinti. L’afa era insopportabile nel salone delle feste della clinica, le cui porte scorrevoli erano state chiuse ermeticamente. Nell’aria vagava una specie di nebbiolina, una condensa maleodorante, nel cui vapore in sospensione roteavano minuscoli pulviscoli di polvere, e nugoli di insetti, piccoli sistemi solari impazziti che ronzavano attorno alla flebile luce al neon dell’entrata. Nella sala, di dimensioni molto ampie, era stata ricostruita l’aula di una vecchia università, con panche e banchi di legno disposti a semicerchio. Davanti a questo scenografico catafalco era stato montato uno strano e rudimentale tavolo operatorio, su cui giaceva un uomo completamente nudo, inerme. Era sdraiato su un piano inclinato, di modo che avesse lo sguardo rivolto a uno schermo posto di fronte a lui. Scorrevano in totale silenzio immagini di celebri dipinti a soggetto mitologico: Arnold Böcklin, George Frederic Watts, Gustav Wertheimer... naiadi, sirene, fauni e centauri si avvicendavano in un carosello frenetico, nevrotico, variopinto. Le palpebre dell’uomo sul tavolo operatorio erano tenute aperte a forza con apposite pinze che non gli consentivano di chiudere gli occhi, aiutati in questo sforzo innaturale da uno speciale collirio dispensato amorevolmente da un infermiere. Tutto dava l’impressione di lievitare in uno spazio ancora più bianco del bianco assoluto, lattiginoso, informe, in cui volumi e geometrie tendevano a sfumare, a cessare di esistere. All’improvviso tutto sprofondò nel buio più assoluto. Dal bianco latteo e asettico del laboratorio, che profumava di alcol, fiori di garofano e medicine, pareva di piombare in una dimensione ovattata, quasi un volo senza meta in un cielo notturno e artificiale. La sensazione era dovuta, almeno in parte, all’ondeggiare flessuoso del tavolo operatorio, dotato di una serie di cuscinetti che permettevano un curioso moto oscillatorio. Un incubo senz’aria condizionata. L’uomo sembrava sul punto di vomitare, ma la bocca era ostruita da una mascherina che gli impediva ogni movimento. Emetteva suoni inarticolati, buffi, tragici. Le mani e i piedi erano assicurati al tavolo d’acciaio con robuste e consunte cinture di cuoio.
Nel frattempo lo spettacolo era cambiato: ora balenavano sequenze di comiche di una volta, vecchi spezzoni di Laurel e Hardy, scenette con Ridolini, Cretinetti, Charlot, accompagnate da una musichetta, una scala ripetuta di do maggiore, proveniente da un fortepiano poco accordato sistemato in un angolo della sala, in fondo, che sembrava suonare da solo. Qualcuno armeggiava nell’ombra: un tintinnare di strumenti chirurgici, un suono metallico contrappuntato da un brusio sgradevole di voci indistinte. Poi un getto d’aria gelida, improvviso, arrivò dietro la testa dell’uomo. Quindi un soffio di aria calda. Nei suoi occhi si leggevano paura, terrore, desiderio di dormire, forse di morire, sicuramente di non soffrire. Nel mirino della telecamera che lo stava riprendendo pareva si fissassero le sue sensazioni, le sue emozioni senza né voce né sentimento. Il corpo non rispondeva più, regnava l’odore penetrante di calce e di alcol nelle narici, lo stordimento totale. Una decina di minuti dopo, le slapstick si interruppero e cominciarono a scorrere sequenze di famosi film dell’orrore. Erano intercalate da immagini dei dipinti di Giulio Aristide Sartorio, quadri che ritraevano immaginifiche scene ispirate ai grandi miti della classicità.
L’uomo tremava, aveva una paura viscerale, un terrore sordo. Temeva di sentire dolore, un indicibile dolore, ora che immaginava gli strumenti chirurgici allineati sul ripiano non molto lontano da lui. Sullo schermo continuavano a scorrere le immagini: prima Caligari, poi un uomo nudo disteso su un’arpa gigantesca, un insetto con le braccia di un uomo, un orrido lombrico umano, qualche spezzone di un film di Dreyer e poi un orecchio mozzato trafitto da una lama di coltello, Frankenstein, un uomo che suona un flauto con il sedere, immagini bucoliche posticce animate da personaggi d’invenzione. Poi i fotogrammi cominciarono a scorrere più veloci, sempre più veloci, fino a che le immagini non si confusero fra loro dando vita a un macabro balletto meccanico. L’uomo cercava di liberarsi dalle cinghie e di distogliere lo sguardo ma era immobilizzato e non riusciva a guardare da nessuna parte, mentre il suo sconosciuto aguzzino armeggiava seminascosto nello stanzone. Solo e sempre quel nero trafitto di luci intermittenti oltre la sua testa. Il dolore affondava nelle sue ossa, gli sembrava di sentire pungere sulle mani, i muscoli si flettevano, le braccia e le gambe si tendevano in uno spasimo.
Il fortepiano intanto aveva smesso di suonare. Ora un coro invisibile intonava litanie simili a salmi, con un andamento monotono e ossessivo. Avrebbe preferito l’assordante silenzio di prima. Pareva volesse smettere di udire, di sentire gli odori, di provare qualsiasi tipo di sensazione. Di sicuro avrebbe voluto finirla con tutta quella parata di orrori e dentro di sé urlava, gridava, correva a perdifiato. Ma non emetteva alcun suono. Fu qualcun altro a parlare per lui.
- Vede, mio caro signore, lei ha voluto scomodare il Maestro, e adesso deve rendergli un tributo. Lo consideri un piccolo, minuscolo sacrificio. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere essere l’oggetto di un tentativo, ancora più ambizioso, ovvero replicare quella bella figura del Combattimento dei centauri di Piero di Cosimo. Ma poi... poi... no, ci abbiamo ripensato, troppo banale, e le abbiamo riservato un’altro ruolo, un’altra personificazione più prestigiosa...
Lo sconosciuto gli assestò improvvisamente un colpo secco di martello sui denti. Un rumore sordo, uno strappo. Qualcosa di caldo lungo il collo. Un lamento. Dolore. Una fitta intensa. La voglia impossibile di difendersi. Gli occhi rivolti ancora e sempre solo verso il semibuio. Paura. Il colore nero della paura.
Poi, di nuovo quella voce: “Avanti, stia calmo, non vogliamo farle del male, vogliamo solo renderla migliore, diciamo ‘perfezionarla’. Mi scusi se le do del lei, ma è una questione di rispetto. Ma, mi dica, non è contento di diventare finalmente un’opera d’arte?”
In quel momento sulla parete di fondo, proprio davanti a lui, apparve, proiettata, l’immagine enorme di un dettaglio di un dipinto di George Frederick Watts, l’eminente pittore vittoriano, che raffigurava un minotauro: un uomo con la testa di toro.
L’urlo strozzato nella sua gola raccontava dello strazio e della paura di quell’uomo, un’agonia registrata puntigliosamente dalla videocamera. Senza un sussulto, gelida, non aveva perso neanche un istante di quel supplizio, e lo aveva reso per sempre mortale.
Prima parte
Mercoledì
Il quadro, lo strano quadro, ebbe un fremito, si mosse. Il fauno fece ondeggiare leggermente la coda. Nella vetrina del museo era stato ricreato fedelmente l’ambiente del Pan nel canneto, il famoso dipinto di Böcklin conservato nella pinacoteca di Monaco di Baviera. La vegetazione era in parte dipinta e in parte realizzata con arbusti e foglie di resina. All’interno, come nelle altre nove vetrine del Muman, il Museo di Malacologia e Naturalia di Milano, al centro del diorama, c’era una figura. Ma non era un animale, una bestia, non era una capra delle nevi o un orso polare. Era un ibrido, una creatura mitologica con gambe e corna caprine, una creatura totalmente fedele al quadro dell’artista svizzero. Era viva, e, come si puntualizzava nel comunicato stampa, era in uno stato provocato di seminarcolessia, di parziale appannamento dei sensi. Faceva parte di uno dei dieci diorami creati in occasione della presentazione di un ambizioso progetto che sarebbe stato annunciato quella sera stessa nel corso di una faraonica conferenza stampa.
Proprio per questo la scelta era caduta su quel museo, storica struttura espositiva allestita con criteri ottocenteschi, ricca di suggestive composizioni in cui è possibile ammirare i brontosauri nel loro ambiente, tutto reso con precisione millimetrica da abili scenografi. Ogni dettaglio pare prendere vita fra quelle quinte evocative: la vita della fauna nella foresta amazzonica, i boschi lombardi, lo uadi sahariano, ogni specie di conchiglia, di mammifero, di mollusco. La società che aveva sostenuto la mostra al Muman aveva temporaneamente affittato gli spazi di un’ala lasciata di solito vuota, con i vani dietro le grandi vetrine in attesa di essere riempiti. Una nota agenzia di eventi aveva pensato di allestire all’interno di quelle teche una serie di scene tratte da famosi quadri ottocenteschi a soggetto mitologico. Non le interpretavano statue o manichini ma esseri umani. Come presepi viventi. Anche grazie a un’illuminazione ad effetto, che creava un’inquietante penombra, l’atmosfera era molto coinvolgente. Nelle sale del museo, coperte da volte rivestite in marmo pentelico e arabescato immerse in un’atmosfera sottomarina dai riflessi violaceo giallognoli, sembrava di trovarsi in fondo all’oceano, lo stesso oceano ricreato abilmente nelle ricostruzioni didattiche al piano di sotto. Le figure che animavano i diorami si percepivano appena, dietro i vetri. I figuranti rimanevano immobili per quanto potevano, e ogni tanto facevano piccolissimi gesti muovendosi impercettibilmente, e ciò aiutava a rafforzare l’idea di quadri animati di vita. Lo scenografo si muoveva nervosamente davanti alle sue creazioni, entrava nella composizione aggiustando piccoli dettagli agli stanchi attori di questa strana recita. Un capello fuori posto, un gomito troppo alzato. Si aveva l’impressione di una monumentalità malata, una musicalità inquieta, bizzarra, di emozioni trattenute e pronte a esplodere da un momento all’altro.
Nella prima vetrina c’era la sirena dipinta da Louis Loeb. La ragazza, seduta su uno scoglio, aveva un ramo di corallo nei capelli e guardava di lato. Come si apprendeva da una targhetta posta sulla cornice, i costumi erano stati realizzati dalla factory di un grande teatro milanese, i trucchi da un artista degli effetti speciali. Complice il contesto del museo, quelle figure assumevano un’aria animalesca, sembravano fiere ingentilite dai tratti dei loro pigmalioni. E c’era una strana idea di realismo in quei diorami, qualcosa che li faceva andare oltre il riuscito allestimento di una società di eventi. La vetrina successiva era dedicata a Pan e Venere, un dipinto di Adolphe-Alexandre Lesrel. La dea era sdraiata su una pelle di leopardo e sul fondo si scorgevano le rovine di un tempio, meticolosamente ricostruite. Anche qui persone in carne e ossa, quasi immobili, nelle posture esatte dei personaggi del quadro. Ma una cosa, soprattutto, non poteva non colpire i visitatori: anche i volti, i loro lineamenti, erano molto simili, se non identici, agli originali. Come accadeva anche in un altro diorama, dove appariva un centauro dipinto da Giuseppe Maria Crespi, la scena in cui l’eroe istruisce un ragazzo a tirare con l’arco, e in un dettaglio dell’Allegoria dei piaceri, con le sirene dipinte da Henrietta Rae, E ancora con i centauri in una foresta, ispirati al quadro di Wilhelm Trubner, e con il Tritone e la Nereide di Böcklin. Le somiglianze si facevano inquietanti nella vetrina che chiudeva l’esposizione, il diorama ispirato al dipinto di Rubens con Pan e la ninfa Siringa.
I diorami non erano che una trovata pubblicitario-culturale per preannunciare il convegno su “Il Mondo allo specchio”, un incontro di tre giorni sull’arte e il suo doppio, in particolare sulle repliche di mondi e persone nel Ventunesimo secolo, durante il quale sarebbero state esposte anche le linee guida di un importante progetto: una serie di parchi a tema ispirati a grandi capolavori dell’arte. Il concept originale contemplava un parco ispirato al Giardino delle delizie di Bosch, da realizzare in Olanda, alla periferia di Amsterdam, una città ideale che riprendesse il tema del famoso quadro esposto a Palazzo Ducale di Urbino, e un parco mitologico da realizzare in Grecia, nel Peloponneso. Se ne sarebbe parlato in un convegno, cui era collegata anche una mostra, “Arte e tassidermia. Dalle vite imbalsamate al ritratto del ritratto”, curata da Caterina Sarnico e in programma alla Fondazione Palma. Il progetto dei parchi era un’idea della società americana Arslogos, mentre il convegno era supportato da una famosa casa farmaceutica. Era stato tutto pensato per un’anteprima spettacolare. Per un oscuro giro di passaparola nella buona società della Milano che conta e che ci tiene a farsi vedere, quella presentazione era diventata a poco a poco un’occasione mondana, e nessun personaggio influente voleva mancare. Così all’appello avevano risposto tutte le categorie canoniche del momento: i blogger, le influencer, il fotografo di moda coccolato dalle riviste patinate, il moderno dio della danza, i critici d’arte pronti a infiammarsi e un famoso cuoco superstellato. Co...