Amok
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Una donna dal fascino magnetico e inquietante, un medico posseduto da una passione non corrisposta per lei. Poi una proposta indecente, un sentimento oltre i limiti della morale. Amore e morte in una delle pagine più originali di Stefan Zweig.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788893041065
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

immagini3

Stefan Zweig

Amok

Traduzione di Enrico Rocca e Viviana Puglisi

Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti
secondo gli standard dell'International Digital
Publishing Forum

ISBN 9788893041065

Prima edizione digitale 2017

Edizione annotata







AMOK

Nel marzo dell'anno 1912 accadde nel porto di Napoli, durante le operazioni di scarico di un grande transatlantico, un curioso incidente sul quale i giornali pubblicarono molti resoconti, tutti infarciti di considerazioni quanto meno fantasiose. Anche se ero un passeggero dell'«Oceania»1, non riuscì né a me né agli altri di essere testimone dello strano caso, perché accadde di notte durante il rifornimento di carbone e lo sbarco delle merci, proprio quando noi, per sottrarci a quel rumore insopportabile, eravamo scesi a terra per passare un po' di tempo nei caffè oppure a teatro. Da parte mia ritengo che alcune supposizioni, allora non espresse da me in pubblico, contengano la reale spiegazione di quella scena così emozionante. Gli anni che ci dividono da quell'epoca ormai lontana mi consentono, inoltre, di avvalermi di ciò che mi fu confidato in un colloquio che anticipò immediatamente quello strano episodio.
Quando, all'agenzia di navigazione di Calcutta, chiesi di prenotare un posto sull'«Oceania» per ritornare in Europa, l'impiegato alzò con rincrescimento le spalle. Non sapeva ancora se fosse possibile assegnarmi una cabina; la nave, eravamo durante la stagione delle piogge, era di solito già tutta occupata fin dalla sua partenza dall'Australia e lui doveva per forza aspettare il telegramma di conferma da Singapore. Il giorno successivo, per fortuna, mi annunciò che c'era ancora un posto disponibile. Nient'altro, purtroppo, che una ben poco comoda cabina sottocoperta proprio al centro della nave. Ero piuttosto impaziente di rimpatriare: per questo non esitai a lungo e mi feci fissare quel posto.
L'impiegato mi aveva informato bene. La nave era stracarica e la cabina malmessa: un bugigattolo rettangolare e soffocante nei pressi della macchina, che prendeva luce solo dall'occhiaia appannata e rotonda dell'oblò. L'aria era stagnante, addensata, sapeva d'olio e di fradiciume: e non c'era modo di vivere un momento senza il ronzare del ventilatore che, come un pipistrello di acciaio impazzito, frullava sopra la testa di chi sostasse là dentro. Dal di sotto pulsava e gemeva la macchina come un portatore di carbone che salga di continuo ansando per la stessa scala; dal di sopra si sentiva senza tregua lo stropicciare di chi andava su e giù per il ponte. Fu così che appena depositato il bagaglio in quella tomba ammuffita di traversine grigie, cercai di nuovo scampo sopra coperta e bevvi come fosse ambra, salendo su dal profondo, il morbido vento dolciastro che spirava da terra sulle onde.
Ma anche la passeggiata sul ponte era molto stretta e piena d'agitazione: c'era uno sfarfallare, un rimescolio di gente che andava su e giù chiacchierando ininterrottamente col tipico nervosismo irrequieto che dà l'inattività rinchiusa. Il garrulo cicaleccio delle signore, quell'andare in giro senza posa lungo le strettoie di coperta, dove, davanti alle sedie, lo sciame fluiva cianciando senza requie, mi dava non so quale vago senso di sofferenza. Avevo visto un nuovo mondo, avevo racchiuso in me visioni che si inseguivano a precipizio in una ridda folle. Ora volevo ripensarle, scinderle, ordinarle, ricreare una forma a tutto ciò che lo sguardo aveva con ardore abbracciato in una sola volta; ma qui, su questo boulevard2 formicolante, non c'era un attimo di tregua o di raccoglimento. Le righe di un libro si confondevano per l'incalzare fuggevole di chi passava cianciando. Era impossibile restare soli con se stessi su quella movimentata strada di bordo senza neppure un'ombra di tranquillità.
Per tre giorni ci provai guardando rassegnato la gente, il mare; ma era sempre lo stesso mare, azzurro e vuoto, la solita distesa azzurra che solo al tramonto si inondava rapidamente di tutti i colori dello spettro. E la gente la conoscevo ormai a memoria dopo tre volte ventiquattro ore. Ogni viso mi era familiare fino alla noia; le risa acute delle donne, le litigate furibonde di due ufficiali olandesi alloggiati accanto non mi eccitavano e non mi irritavano più. Sicché non rimaneva che la fuga: ma la cabina era calda e piena di vapori; nel salone alcune ragazze inglesi davano ininterrotti saggi della loro inabilità di pianiste strimpellando valzer stucchevoli. Alla fine mi decisi a capovolgere senza esitazione l'ordine della giornata e a calarmi nella cabina fin dal pomeriggio, dopo essermi stordito con un paio di bicchieri di birra. Questo per far passare dormendo l'ora di cena e quella delle danze. Quando mi risvegliai, c'era un gran buio e si soffocava nella piccola bara della cabina. Avevo staccato il ventilatore e per questo l'aria si addensava attorno alle mie tempie, grassa e umida allo stesso tempo. Avevo i sensi come intorpiditi: mi ci vollero dei minuti per riprendere coscienza del tempo e del luogo. La mezzanotte doveva in ogni caso essere passata da un pezzo perché non sentivo né la musica né il perpetuo stropiccio dei passi; solo la macchina, il pulsante cuore dell'«Oceania» sospingeva ansimando il corpo scricchiolante della nave negli spazi invisibili.
Salii a tastoni in coperta. Era deserta. E, quando alzai lo sguardo al di sopra della vaporante torre del fumaiolo e dello spettrale luccichio delle barre, un magico chiarore mi ferì a un tratto gli occhi. Il cielo raggiava di luce. Era scuro a paragone delle stelle che, incandescenti, ci turbinavano: eppure raggiava; era come se un velario di velluto nascondesse una luce immensa, come se le sfavillanti stelle non fossero che finestrelle e fessure attraverso le quali questo indescrivibile chiarore tralucesse. Non avevo mai visto il cielo come in quella notte, così accecante, duro come acciaio inazzurrato e tuttavia scintillante, grondante, fremente, zampillante di luce che si partiva, larvata, dalla luna e dalle stelle e che sembrava in qualche modo ardere da un interno misterioso. Come lacca bianca, tutti i margini della nave si stagliavano rilucenti su quel mare di velluto scuro; i cordami, le antenne, tutte le linee sottili, tutti i contorni si dissolvevano in quello splendore dilagante. Le luci sugli alberi sembravano quasi sospese nel vuoto, come l'occhio rotondo del fanale di vedetta, stelle gialle terrene splendenti fra quelle radiose del cielo. E proprio sulla mia testa brillava, magica costellazione, la Croce del Sud3, martellata nell'invisibile con sfavillanti chiodi adamantini, fluttuante in apparenza mentre il movimento era dato soltanto dalla nave che, con un tremore leggero, si spingeva in avanti respirando, su e giù, su e giù, come un gigantesco nuotatore sul pelo delle onde scure. Me ne stavo immobile e guardavo in su: mi sembrava di essere come in un bagno in cui l'acqua cadesse, calda, dall'alto; solo che era luce quella che mi scorreva bianca e anche tiepida lungo le mani; che si riversava, piano, sulle mie spalle e sul mio capo e che in qualche modo voleva penetrarmi, poiché ogni oscurità in me si era improvvisamente schiarita. Respiravo sollevato, purificato e, preso da una repentina beatitudine, sentivo sulle labbra come una bevanda limpida, l'aria, quell'aria morbida, percorsa da fermenti, leggermente inebriante in cui c'era un respiro di frutta, un profumo d'isole lontane. Ed ecco, ecco che, per la prima volta da quando avevo messo piede sulla nave, mi sentii invaso dalla sacra gioia di sognare e dall'altra, più sensuale, di abbandonare femminilmente il mio corpo alla mollezza che mi stringeva da ogni lato. Volevo sdraiarmi, l'occhio rivolto in alto, ai geroglifici bianchi. Ma le sedie di coperta, le poltrone a sdraio erano state tolte e non c'era in tutta la passeggiata un posticino propizio a una sosta da sogno. Proseguii pertanto a tastoni avvicinandomi a poco a poco alla parte anteriore della nave, completamente abbacinato dalla luce che sembrava partire sempre più impetuosa dalle cose per assalirmi. Finiva quasi per fare male questa luce abbagliante di stelle bianco-calcarea, così tanto che avrei desiderato sprofondare in qualche posto nell'ombra, disteso su una stuoia, e non sentirmi avvolto in quello splendore, desideravo sentirlo sopra di me, rispecchiato nelle cose, così come si contempla un paesaggio da una stanza buia. Finalmente, incespicando nei cordami e passando accanto a cavi di ferro attorcigliati, arrivai fino alla chiglia e guardai in basso la prua avventarsi nella distesa nera e sollevare schiumando la luce lunare ai due lati del rostro. E sempre di nuovo si sollevava, e sempre di nuovo affondava il suo vomere in quella zolla nera ondeggiante e io sentivo tutto il tormento dell'elemento sconfitto, tutta la gioia della forza terrena in quel gioco di scintille. E osservando perdevo la nozione stessa del tempo. Era un'ora che stavo lì o erano solo minuti? Sollevandosi, ridiscendendo, l'immane culla della nave mi ninnava oltre i limiti del tempo. Sentivo soltanto una stanchezza invadermi, una stanchezza che sembrava voluttà. Volevo dormire, sognare, ma non distaccarmi da quell'incantesimo, non tornare più giù, nella mia bara. A caso, tastando intorno con il piede, trovai un mucchio di cordami. Mi ci sedetti, con gli occhi chiusi e tuttavia non riempiti di buio, poiché su di loro, su di me, fluiva quello splendore d'argento. Sotto sentivo le acque mormorare dolcemente e su di me, con un suono impercettibile, la bianca fiumana di questo mondo. E a poco a poco questo mormorio mi cresceva nel sangue. Non sentivo più me stesso e non sapevo comprendere se questo respiro fosse mio o invece del pulsare più intimo della nave; fluivo, mi fondevo nel mormorare senza fine di quell'universo notturno.
Un leggero, secco colpo di tosse, proprio accanto a me, mi fece sobbalzare. Mi destai bruscamente dal mio fantasticare già quasi eccitato. Gli occhi, abbacinati da quel bagliore bianco sulle palpebre rimaste fino a quell'istante chiuse, si alzarono scandagliando: proprio di fronte, nell'ombra della murata, riluceva qualcosa come il riflesso d'un paio di occhiali e ora dal buio si staccava anche una grossa scintilla rotonda, la brace di una pipa. Era chiaro che sedendomi, tutto assorbito com'ero a guardare giù il rostro della prua circondato di spume e in alto la Croce del Sud, non avevo fatto caso a questo vicino che per tutto il tempo doveva essere rimasto immobile e seduto. Involontariamente, coi sensi ancora intorpiditi, dissi in tedesco: «Scusi». «Ma prego...» rispose in tedesco una voce dall'oscurità.
Non so dire come fosse strano e pauroso quello stare seduti in silenzio e al buio proprio accanto a uno che non riuscivo vedere del tutto. Avevo la sensazione che quell'uomo mi fissasse da tempo come io stavo fissando lui; ma tanto intensa era su di noi la luce, la luce bianca e sfavillante, fluida, che uno non avrebbe potuto vedere dell'altro più che la sagoma nell'ombra. Mi pareva di sentire solo un respiro e lo schioccare che costui faceva aspirando il fumo della pipa. Quel mutismo era insopportabile. Avrei preferito andarmene, ma la cosa poteva apparire troppo brusca, troppo improvvisa. Nell'imbarazzo tirai fuori una sigaretta. Il fiammifero scoppiettò e per un secondo la luce invase palpitando quello spazio angusto. Scorsi allora, dietro gli occhiali, un volto sconosciuto che non avevo mai visto né a bordo né a tavola, in nessuna occasione e, sia che la fiamma improvvisa ferisse gli occhi, sia che fosse un'allucinazione, mi appariva spaventosamente sconvolto, scuro e infernale. Ma prima che potessi rendermi conto meglio dei particolari, l'oscurità ingoiò di nuovo i suoi tratti appena illuminati. E non vidi altro se non i contorni di una figura che si appiattava scura nell'oscurità e, a intermittenza, nel vuoto, il cerchio tondo e infuocato della pipa. Nessuno parlava e quel silenzio era pesante e opprimente come aria tropicale.
Alla fine non ressi più. Mi alzai e dissi cortesemente: «Buona notte».
«Buona notte» mi fu risposto dall'oscurità da una voce rauca, dura, come arrugginita.
Incespicando mi feci strada a fatica tra il sartiame e oltrepassai la soglia del corridoio. Allora un passo risuonò dietro di me, affrettato e incerto. Era il mio vicino di poco prima. Mi fermai senza volerlo. Non si avvicinò del tutto; nell'oscurità sentivo qualcosa come angoscia e oppressione nel suo modo di muoversi.
«Mi perdoni» disse poi precipitosamente «se le rivolgo una preghiera. Io... io...» balbettava e non gli riusciva, confuso com'era, di andare avanti «io... io ho dei motivi... dei motivi privatissimi... per starmene ritirato qui... un lutto... evito la persone che sono qui con noi... Non parlo di lei... no, davvero... Solo vorrei pregarla... Le sarei molto grato se a bordo non volesse dire a nessuno di avermi visto qui... Sono, per così dire, motivi privati quelli che adesso m'impediscono di frequentare gente... dunque... dicevo... sarebbe assai penoso per me, se lei facesse allusione al fatto che qualcuno qui di notte... che io...».
La parola tornò a strozzarglisi in gola. Io lo tolsi subito d'imbarazzo assicurandolo immediatamente che avrei fatto come desiderava. Ci stendemmo la mano. Poi tornai nella mia cabina e caddi in un sonno torbido, stranamente agitato, attraversato da immagini confuse.
Mantenni la promessa e a bordo non raccontai a nessuno dello strano incontro, per quanto la tentazione mi tormentasse non poco. Il fatto è che in un viaggio di mare la più piccola cosa è un avvenimento: una vela all'orizzonte, il salto di un delfino sulle onde, la scoperta di un nuovo amore, un effimero motto scherzoso. Intanto ero tormentato dalla curiosità di sapere qualcosa di più su questo passeggero così strano: scorsi la lista di bordo in cerca di un nome che gli potesse appartenere, esaminai le persone per capire se potessero avere una relazione con lui. Per tutto il giorno rimasi in preda a un'impazienza nervosa e in fondo non aspettavo che la sera per vedere se l'avrei di nuovo incontrato. Gli enigmi psicologici hanno su di me un potere addirittura inquietante; la smania di intuire collegamenti mi eccita nel profondo, e gli uomini fuori dell'ordinario, con la loro sola presenza, sono capaci d'accendermi di una passione di conoscenza che non è molto minore di quella che mi spinge a desiderare una donna. La giornata diventava lunga e si sbriciolava vuota tra le mie dita. Mi coricai per tempo: sapevo che a mezzanotte mi sarei svegliato, che non occorreva altro per destarmi.
E infatti mi svegliai alla stessa ora del giorno prima. Sul quadrante luminoso dell'orologio le due lancette si coprivano formando una sola riga lucente. Salii in fretta dalla cabina afosa nella notte ancora più afosa.
Le stelle brillavano come ieri e riversavano una luce diffusa sulla nave tremante; su in alto fiammeggiava la Croce del Sud. Tutto era come ieri — nei tropici i giorni, le notti sono più gemelli che nel nostro emisfero — solo in me non c'era più, come ieri, la stessa morbida, fluttuante, sognante sensazione di essere cullato. Qualche cosa mi attirava, mi turbava e io sapevo dove mi attirasse: là a prua, tra il nero sartiame, a vedere se anche in quel momento stesse lì a sedere irrigidito quell'uomo misterioso. Dall'alto la campana della nave batté un colpo. Questo mi convinse. Passo per passo, contro voglia eppure attratto, cedevo a me stesso. Non ero ancora alla ruota quando qualcosa palpitò laggiù come un occhio rutilante: era la pipa. Dunque lui c'era.
Involontariamente feci un salto indietro e mi arrestai. Stavo quasi per andarmene. Ma ecco che qualcosa si mosse nel buio, in fondo. Si alzò, fece due passi e improvvisamente sentii proprio davanti a me la sua voce, gentile e intimidita:
«Scusi», disse, «lei voleva evidentemente tornare al suo posto e ho avuto la sensazione che se ne andasse vedendomi. La prego, si sieda pure; io me ne vado».
Mi affrettai dal mio canto a dirgli che poteva restare, che mi ero ritratto solo per non disturbarlo. «Quanto a me, lei non ...

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