Ezio D'Errico
Il commissario Richard La nota della lavandaia
Con un'introduzione di Loris Rambelli
Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti
secondo gli standard dell'International Digital
Publishing Forum
ISBN 9788893041393
Prima edizione digitale 2018
Sparire in solitudine
di Loris Rambelli
Ventesima e ultima indagine del commissario Richard, per esplicita dichiarazione dell'autore: «Torino, 23 novembre [1941]. Caro Piceni, [...] venendo costì [a Milano] porterò il mio ventesimo ed ultimo giallo La nota della lavandaia, che ho terminato in questi giorni a testimonianza della mia buona volontà e per tenere fede al nostro contratto. Ma con questo dichiaro di aver chiuso la mia carriera di scrittore giallo. [...] Il giorno in cui lo scrittore giallo non sarà più equiparato a un allevatore di giovani banditi, può darsi che io faccia resuscitare Richard o qualche altro bonario poliziotto»1.
Che cos'era successo? Con il romanzo di D'Errico La casa inabitabile (la premonizione di quel titolo fatidico è stata più volte sottolineata), si era bruscamente interrotta, nell'ottobre 1941 con il numero 266, la collana «I Libri Gialli» di Mondadori, nata nel 1929. Alberto Tedeschi ha sempre detto che «a far cadere la collana fu un decreto di Mussolini, che intervenne personalmente per un fatto specifico. A Milano alcuni studenti di buona famiglia, a scopo di rapina, penetrarono in una villa, tramortirono la cameriera e riuscirono a razziare qualcosa. Agirono da dilettanti e furono subito scoperti, ma la cosa fece scalpore [...]. Quando poi si andò a cercare la causa di un fatto del genere si volle attribuire una parte di responsabilità anche all'esempio deleterio dei romanzi polizieschi, ai quali quei ragazzi si sarebbero ispirati per attuare il loro piano»2.
D'Errico, nella sua lettera a Enrico Piceni, allude probabilmente a questo incidente e alle conseguenze che ne derivarono, cioè la chiusura della più prestigiosa collana di narrativa poliziesca in Italia. D'altra parte il pregiudizio nei confronti del giallo (che si ripresenterà negli stessi termini di riprovazione morale nei primi anni Cinquanta nei confronti del fumetto) era di vecchia data: Augusto De Angelis nel 1939 scriveva che la questione delle letteratura poliziesca in Italia non era mai stata affrontata seriamente e ci si era limitati per lo più a dire che occorreva «preservarne la gioventù come dal morbillo». I giornali più legati al Regime svolsero una campagna diffamatoria contro questo genere di narrativa, ponendo sempre l'accento sul fatto che delitti e delinquenti sarebbero stati prodotti di importazione straniera, per lo più americana.
Ad ogni modo, La nota della lavandaia (come L'ospite inatteso e La tipografia dei Due Orsi) sarebbe dovuta uscire nei «Romanzi della Palma», serie rossa, dove Mondadori, dopo la chiusura dei «Libri Gialli», dirottò gli assi del poliziesco italiano: De Angelis, D'Errico e Scerbanenco (nel mirino della censura erano soprattutto gli autori inglesi e americani). Nell'estate 1943 l'editore milanese era ancora in trattative con D'Errico: gli chiedeva di cambiare il titolo al romanzo, «per motivi di opportunità» che gli sarebbero stati eventualmente esposti a voce. Lo scrittore propose Davanti all'oceano, infatti la vicenda si svolge sulla costa atlantica della Francia. Ma il romanzo non uscì nei «Romanzi della Palma», uscì con il titolo originario nell'aprile 1947, al numero 21 della rinata collana "I Libri Gialli", in veste editoriale più dimessa, rispetto agli eleganti volumetti dell'anteguerra con copertina rigida e sovraccoperta. D'Errico fu il primo autore italiano della nuova serie, tuttora in corso, ma il romanzo che concludeva il ciclo iniziato nel 1936 con Qualcuno ha bussato alla porta. «L'ho scritto otto anni or sono» ribadiva D'Errico nel 1948, «ed è stato pubblicato l'anno scorso per i ritardi connessi alla guerra. Esso è l'ultimo di una serie di venti pubblicati da Mondadori. Da parecchi anni non scrivo più romanzi di quel tipo3. E non ne scrisse effettivamente più, ritornò al genere poliziesco con sceneggiati radiofonici, ma di romanzi gialli non ne scrisse più.
La nota della lavandaia rappresenta dunque l'addio al personaggio di Richard, che, nella scena conclusiva, se ne va, insensibile ai richiami, «quasi ci provasse gusto ad essere finalmente solo e a stemperarsi nella nebbia come un fantasma». Geneviève se ne è tornata a Parigi, Milton non è neppure nominato, Harpe è stato promosso vice commissario, e adesso non può fare a meno di pensare che, in fondo, il "capo" sta invecchiando, e a sua volta Richard scoprirà che Harpe non è più il suo fido dipendente di un tempo, ma un funzionario qualunque che giustamente pensa a fare carriera, ed entrambi si sentono un po' più soli.
Il lettore, giunto al termine della saga, vorrà almeno cogliere e assaporare gli ultimi tratti della scrittura poliziesca di D'Errico, consapevole che presto ne proverà forse nostalgia: quel suo modo di rappresentare e trasfigurare la realtà in una sorta di realismo magico, per cui le cose, anche le più comuni, possono diventare apparizioni. Ora è il telefono che squittisce nel sonno («Il telefono sul tavolo aveva ogni tanto dei borborigmi come una piccola bestia addormentata che sognasse») o la manica di una camicia che sporge penzoloni da un cassetto semiaperto «come un braccio stanco di chiedere aiuto» (L'uomo dagli occhi malinconici), ora è la corriera che esce come un insetto barcollante dall'ombra di un bosco (La donna che ha visto), ora il «gigantesco candelabro» metallico» della Tour Eiffel che «allarga le sue quattro zampe mostruose fra le aiuole verdi» del Champ-de-Mars, fino all'aquilone che, come un misterioso oggetto volante, si vede salire verso il cielo nel vano di una finestra, l'inquadratura preferita da Savinio (L'ospite inatteso). Nella Nota della lavandaia ecco, infine, una metafisica natura morta nel salotto di un collezionista di orologi: «Nelle pause il ticchettio degli orologi certe volte pareva affievolirsi, diventar semplice mormorio meccanico, respiro affannoso di minuscoli polmoni d'acciaio, certe volte saliva di tono, come il gracidare di un esercito di rospi dai piedini di bronzo e dalle pance di legno, accovacciati sulle mensole di vetro, aggrappati ai muri, nascosti negli angoli ombrosi».
Sarebbe potuta piacere a Mario Praz, che aveva un giorno avuto la visione degli amati orologi di bronzo stile Impero «radunati tutti insieme nella valle di Giosafatte, simile forse a una valle della Luna» con «il suono innumerevole delle loro squille e di loro tintinni» «in assordante concento»4.
LA NOTA DELLA LAVANDAIA
PARTE PRIMA
I. La lettera minatoria
Io sono per il bompresso lungo5, come quello che adopera Gerbault - disse Marius Ponsard accendendo una sigaretta e accavallando le gambe.
Poi facendo uscire lentamente il fumo dal naso con un’indolenza da uomo vissuto, restò immobile a guardare il tramonto.
- Non dire stupidaggini - rispose Henri Dubreuil, - anche Gerbault ha dovuto sostituire il suo bompresso lungo coi due “spinnacker”6.
A questa parola che gli riusciva completamente nuova, Marius Ponsard restò perplesso e dette un’occhiata in tralice al compagno.
Marius Ponsard aveva quindici anni e per quanto si studiasse di imitare in ogni gesto e in ogni parola il suo amico Dubreuil che aveva due anni più di lui, non riusciva mai ad eguagliarlo. Intanto Dubreuil aveva sotto il naso un’ombra vellutata che a una certa distanza poteva anche essere presa per un paio di baffi, e poi non c’era volta che lasciasse al compagno la soddisfazione di averne detta una giusta.
Quella faccenda degli “spinnacker” per esempio...
E sì che Marius Ponsard pesava le parole e stava sempre attento a quel che diceva. Niente!
Intanto era stato proprio Dubreuil che qualche giorno prima aveva detto con aria sentenziosa: - Più il bompresso è lungo, più porta avanti i fiocchi: anche Alain Gerbault...
Questa volta l'umiliazione fu così cocente che Marius Ponsard osò ribattere: - Ma se l’hai detto tu stesso...
Henri Dubreuil sospirò guardando con occhi da conoscitore le gambe di Élise Janin che attraversava la tolda per andare a prendere il suo turno di guardarobiera, poi spiegò con un minimo di ironia nella voce; - Alain Gerbault, come ho già avuto il piacere di dirti altre volte, in un primo tempo ha copiato i sistemi del capitano Slocum, ossia bompresso lungo e fiocco un po’ di traverso... così quando la randa portava lo scafo a ruotare verso l’orza7, il fiocco prendeva immediatamente di più e rimetteva la barca in rotta... questo sistema però ha lo svantaggio di darti una rotta serpeggiante, con tendenza a scadere sotto vento... rendo l’idea? Allora Gerbault si decise ad adottare i due “spinnacker” triangolari con relativi bastoni. Beninteso questi bastoni vanno portati con le estremità alquanto oltre la linea dell’albero, verso prua... così il vento sfugge verso la velatura uscendo dai bordi estremi e non s’insacca quasi per niente.
- E tu credi... che convenga anche a noi adottare...
- Io credo... io credo niente. Ho voluto semplicemente rispondere alla tua osservazione sul bompresso lungo... Bisognerà fare delle prove... non ti dimenticare che lo scafo di Gerbault, parlo di quello con cui ha fatto il secondo viaggio in Polinesia, era lungo tre metri più del nostro “Coquelicot”.
Marius Ponsard letteralmente schiacciato da questa valanga di erudizioni, continuò a fumare in silenzio.
Non che egli fosse completamente digiuno di cose marinaresche. Come tutti i ragazzi di Les Sables d’OIonne, si poteva dire che in mare ci fosse nato, e forse pochi come lui sapevano «prendere una mano di terzarolo» o graduare la «deriva» quando l’imbarcazione «scarrocciava». Ma da questo a battere Henri Dubreuil...
Intanto Henri era stato due volte campione di nuoto del suo corso quando faceva le scuole tecniche, e poi possedeva un “cruiser”.
Veramente non era proprio un “cruiser”, era soltanto un vecchio “cutter” da regate cui era stato aggiunto un albero perché rassomigliasse all’“Idle Hour” di Dwight Long8, ed era stato dipinto in vermiglio per giustificare il nome col quale i due ragazzi Io avevano battezzato: “Coquelicot”, papavero.
Infatti nelle giornate afose di agosto, allorché per mancanza di vento l’imbarcazione se ne stava ormeggiata per tutto il pomeriggio al quai de la Poissonnerie, fra le baracche incatramate e i motopescherecci, sembrava proprio un papavero galleggiante sulle acque oleose del vecchio porto.
E chi se non Henri Dubreuil aveva per primo concepito il progetto mirabolante che da un anno teneva i due ragazzi in una specie di euforia continua?
Era stato lui che avendo letto il resoconto della crociera compiuta dallo studente americano Dwight Long, il quale con un “Ketch” di dieci metri era partito da Seattle e aveva fatto nient’altro che il giro del mondo, cambiando due volte compagno e compiendo la sua ultima traversata atlantica dall’Ing...